Sono disperati e chiedono aiuto al Papa. Fin qui niente di strano. Si rivolgono a Benedetto XVI con un’intensa, e allo stesso tempo semplice, lettera firmata da 36 nomi arabi. Sono iraniani, membri dei Mojaheddin del Popolo, l’organizzazione che fino a gennaio scorso stava nella lista nera dei terroristi dell’Unione Europea e che compare ancora nella black list degli Stati Uniti. Al Papa chiedono di “evitare una catastrofe umanitaria”. Si definiscono “vittime di ingiustizie e di oppressione” e dichiarano di essere “indeboliti da giorni di sciopero della fame”. Sono abitanti di Ashraf, il campo profughi in Iraq dove da 25 anni sono rifugiati dissidenti del regime islamico di Teheran. Il campo ospita 3400 persone di cui 1000 donne e centinaia di bambini. I 36 di cui parliamo sono stati prelevati dal campo dalle forze dell’ordine irachene il 28 luglio scorso e da allora sono nel carcere iracheno di Al-Khalis, a 30 Km da Ashraf. Nella lettera datata 12 settembre, si definiscono “ostaggio” delle forze dell’ordine irachene e si appellano al “Grande leader religioso della Chiesa Cattolica Romana e difensore dell’eredità di Cristo”. Raccontano al Papa, con asciutta drammaticità, di aver subito “torture” e di soffrire “condizioni igienico sanitarie disumane”. Giurano di essere “tenuti in carcere illegalmente e con false e inesistenti accuse”. Raccontano che il Tribunale locale, esattamente un mese dopo l’arresto, il 28 agosto, ha ordinato la scarcerazione in assenza di accuse, ma che dall’ufficio del premier iracheno Al Maliki è giunto l’ordine di continuare a trattenerli. Da quel momento hanno iniziato lo sciopero della fame. “Umilmente” chiedono “a Sua Santità il Papa” di “adottare tutte le misure in suo potere” per aiutarli, cominciando da “un appello perché intervengano funzionari dell’ONU”. Per loro stessi incarcerati, chiedono il rilascio ma anche, nell’immediato, l’assistenza medica adeguata “per i sette di loro che sono seriamente feriti”. Per la popolazione di Ashraf, denunciano il rischio di ulteriori violenze. Gli abitanti del campo profughi, così ostili al regime islamico di Teheran, hanno vissuto indisturbati sotto il laicissimo Saddam Hussein. Allo scoppio del conflitto nel 2003, hanno accettato di consegnare ogni tipo di arma e hanno, dunque, goduto della IV Convenzione di Ginevra in quanto persone non coinvolte nella guerra. Non hanno avuto problemi fino al passaggio di poteri alle autorità irachene, al momento del ritiro delle forze statunitensi a inizio 2009. In primavera è cominciato un isolamento che è diventato assedio, con scarsità di beni alimentari e mancanza di qualunque tipo di carburante. Assedio confermato anche da una delegazione di parlamentari europei. Quindi, il 28 luglio scorso, l’attacco da parte delle forze dell’ordine irachene. Nella lettera, i 36 raccontano che “al momento della loro cattura sono state uccise 11 persone e sono state ferite altre 500”. “Considerata l’influenza del dittatoriale regime in Iran sull’Amministrazione dell’Iraq – affermano nella lettera – abbiamo grande paura e preoccupazione”. A parte la situazione attuale, quello che angoscia di più è la prospettiva di una “estradizione di massa in Iran”. Spiegano al Santo Padre che “già in molte occasioni il regime iraniano ha fatto richiesta in tal senso”. “In attesa di forze dell’ONU ad Ashraf, – scrivono – le forze militari statunitensi ancora presenti in Iraq dovrebbero assicurare protezione agli abitanti del campo”. Dovrebbero farlo – spiegano – “in base agli accordi sottoscritti dalle autorità USA proprio con tutti gli abitanti di Ashraf”. Per ottenere tutto ciò, l’appello al Papa: “Il suo impegno per le persone in carcere e per la popolazione di Ashraf eviterà un’altra catastrofe umanitaria e solleverà dalle pene e dalle sofferenze le famiglie e i parenti degli abitanti del campo che protestano e si sono uniti allo sciopero della fame in 19 differenti città del mondo”. Tra queste città ci sono Londra, Parigi, Toronto, ma pur essendoci decine di persone ormai sulle sedie a rotelle di fronte a varie Ambasciate, perché segnate da 50 giorni senza cibo, non se ne è parlato granchè. Da qui la scelta disperata ma nello stesso tempo carica di speranza di appellarsi a Benedetto XVI, con una citazione di un brano del Vangelo di Luca in cui si dice che Gesù è stato mandato per proclamare che gli oppressi saranno liberati dagli oppressori.
15 settembre 2009