Questo vuole essere il Sinodo per il Medio Oriente chiesto dalle chiese locali a Benedetto XVI, che lo ha fissato dal 10 al 24 ottobre 2010. Un’Assemblea voluta per discutere i problemi che affliggono la regione a partire dal rischio che i cristiani scompaiano là dove il Cristianesimo è nato. Base di lavoro è l’Instrumentum Laboris, consegnato dal Papa ai rappresentanti dell’Episcopato del Medio Oriente di tutte le diverse confessioni, il 6 giugno a Cipro. Un testo che ha ricevuto la giusta attenzione mediatica ma che in molti casi è stato presentato come l’indicazione del Papa. Invece, è stato scritto dal Consiglio presinodale, organismo che ha messo insieme le istanze dei Sinodi dei vescovi delle Chiese orientali cattoliche, delle Conferenze Episcopali, dei Dicasteri della Curia romana, dell’Unione Superiori Generali, dei tanti singoli e gruppi ecclesiali, interpellati dal questionario dei Lineamenta. Il testo integrale è pieno di: “alcuni pensano che… altri mettono in luce che…”. Benedetto XVI si pronuncerà con l’Esortazione postsinodale.
La denuncia dell’occupazione israeliana nei Territori palestinesi c’è ed è forte, come forti sono state le parole di Benedetto XVI contro il Muro e contro l’embargo a Gaza. Ma c’è altro. Medio Oriente significa Terra Santa, Iraq, Turchia, Libano, Iran. Territori dove i cristiani sono minoranza e, a parte lo Stato ebraico, i musulmani sono maggioranza, sia pure di cultura araba, turca o iraniana. Territori dove la Chiesa sente il bisogno di affermare che “non c’è contraddizione tra i diritti della persona e quelli di Dio”. Rivendica così la libertà di religione che sia anche libertà di coscienza: spesso in Oriente si riconosce la libertà di culto ma non la libertà di credere o non credere, di praticare una religione senza impedimenti, di cambiare credo.
Ci sono anche critiche a cristiani: alcune comunità evangeliche creano problemi per il loro proselitismo. Inoltre, alcuni gruppi fondamentalisti cristiani giustificano, in base a una distorta lettura delle Sacre Scritture, l’ingiustizia politica imposta da Israele ai palestinesi: il che rende più delicata la posizione dei cristiani arabi. Qui viene in mente il titolo scelto per il Sinodo: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola”. Il Sinodo è stato voluto anche per ritrovare unità tra i cristiani in Medio Oriente. E l’Instrumentum Laboris è chiaro: unità non solo tra diverse confessioni ma anche tra diverse comunità locali o tra pastori e gruppi di movimenti ecclesiali, che operano con zelo ma non sempre dopo aver studiato la specificità dei contesti che trovano. “I cristiani –si legge– sono cittadini indigeni”. A proposito del contesto, non manca la raccomandazione a costruire una maggiore collaborazione con ebrei e musulmani nel campo religioso, sociale e culturale, per il bene delle società.
Conflitti e tensioni nella regione mediorientale hanno un’influenza diretta sulla vita dei cristiani. In Terra Santa, l’occupazione israeliana nei territori palestinesi rende la vita impossibile a tutti. Usciamo dall’ambito dei documenti ufficiali per raccontare quello che abbiamo visto sul campo. Girando per la Cisgiordania, ci si sente dire: “Noi cristiani palestinesi paghiamo tutto il prezzo da parte israeliana e da parte palestinese”. Il prezzo da parte israeliana si riassume nel Muro che frammenta il territorio cisgiordano e impedisce movimenti e lavoro. Del prezzo sul fronte palestinese, va detto che si fa sempre più strada il fondamentalismo, che si nutre della frustrazione e della disperazione per lo stallo nei negoziati e per l’isolamento. La società palestinese, curvata da anni di dolore, è oggi appesantita dalla contrapposizione tra il movimento integralista Hamas, che controlla Gaza da giugno 2006, e il partito Al Fatah di Abu Mazen presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. A giugno 2007 lo scontro è stato fisico. Da allora una scossa di tensione permane palpabile, mentre cresce in Cisgiordania il numero delle donne velate. Guardando all’Iraq, la guerra ha distrutto anche il rispetto per le minoranze, prima fra tutte quella cristiana. In Libano i cristiani sono divisi sul piano politico e confessionale e l’instabilità crea sempre più difficoltà. In Egitto cresce l’Islam politico. In Turchia sono stati uccisi in 4 anni due uomini di Chiesa: Don Santoro e mons. Padovese, vicario apostolico in Anatolia, che aveva contribuito all’Instrumentum Laboris. Ovunque l’emigrazione è una realtà. A Betlemme, culla di Gesù, su 35.000 abitanti i cristiani sono circa 6000, un sesto. In un passato non troppo remoto rappresentavano i 3 quarti. “Se il Cristianesimo dovesse affievolirsi o scomparire proprio là dove è nato, sarebbe una perdita per la Chiesa universale”: è questo il grido dell’Instrumentum Laboris. Con tutta evidenza, il Medio Oriente si fa laboratorio delle sfide della Chiesa universale. Si capisce perchè Benedetto XVI annunciando il Sinodo abbia auspicato che “siano presenti anche esponenti delle chiese dei vari continenti”.
Ovunque, il messaggio cristiano universale parte dal riconoscimento della dignità di ogni persona fatta a immagine e somiglianza di Dio. Da qui la “politica” della Santa Sede: criterio di ogni sistema politico o sociale deve essere il bene della persona umana, tutta, spirito e corpo. Da qui, anche la politica della Santa Sede in Medio Oriente: pace, giustizia e stabilità sono condizioni indispensabili per promuovere i diritti umani nella regione e dunque vanno perseguite.
La crescita dell’Islam politico è un fenomeno particolare che colpisce il Medio Oriente ma non solo e che si è sviluppato a partire dagli anni ’70. Il cuore della crisi regionale, il drammatico conflitto israelo-palestinese, ha radici più lontane. Da tempo parliamo di una pace che manca da 50 anni ma di recente l’Economist ha scosso le coscienze parlando di guerra dei 100 anni. Il messaggio del vicario di Cristo pellegrino su quelle terre è stato sempre uguale, così come la promozione di giustizia, pace, riconciliazione, ma i contesti che hanno trovato Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 2000 e Benedetto XVI nel 2009 sono stati diversi. Papa Montini è stato a Betlemme quando ancora non era a guida palestinese. Non ha mai nominato lo Stato di Israele perchè il Vaticano non lo riconosceva: l’Accordo base è arrivato nel 1993. Non c’era neanche l’Accordo con la parte palestinese, raggiunto nel 2000. Giovanni Paolo II si è recato in Terra Santa dopo la grandissima speranza degli accordi di Oslo del 1993, il Nobel a Arafat e la grande delusione dopo l’uccisione di Rabin. Benedetto XVI si è recato nel disorientante momento seguito all’operazione ‘Piombo fuso’ di Israele contro la Striscia di Gaza. Diverse anche le misure di sicurezza: quasi ingenue per Paolo VI che, tra l’altro, percorse la stretta Via dolorosa di Gerusalemme tra uomini della Legione araba, e che ancora non aveva vissuto l’attentato di Manila; più studiate per il Papa che era stato colpito quasi a morte nella sua Piazza San Pietro; imponenti per il Papa tedesco che aveva pronunciato il coraggioso e contestato discorso di Ratisbona e che aveva rimosso con spirito di carità la scomunica ai lefevriani, tra cui però si annidavano e si annidano antisemiti. Le parole di tutti e tre restano nella storia della Chiesa e del mondo. Certamente rimane ineguagliata la straordinarietà della scelta di Paolo VI, primo Papa pellegrino in Terra Santa e primo Papa a salire su un aereo, proprio per compiere quel viaggio che aveva annunciato ai Padri riuniti nel Concilio Vaticano II. Sulla scia dell’ecumenismo voluto dal Vaticano II Paolo VI si è recato in Medio Oriente; Giovanni Paolo II lo ha fatto dopo la sua enciclica Ut unum sint; Benedetto XVI dopo aver pronunciato all’insegna dell’ecumenismo la sua Omelia della Messa di inizio del pontificato. Quello che non si era visto in Duemila anni, una generazione l’ha già visto tre volte. 16 Giugno 2010