Il Trattato commerciale tra Usa e Ue, oggetto di serrate trattative, è un progetto politico assai più che economico. Abbattere le barriere transatlantiche per arginare Russia e Cina. Le incognite.
Gli articoli del dossier
di Fausta Speranza
“TTIP, più politica che economia”
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Il Trattato commerciale in discussione tra Unione Europea e Stati Uniti, che insieme rappresentano il 46% del PIL mondiale, non è solo questione di business ma di geopolitica. Con il Trattato si riscriverebbero regole e standard validi, in qualche modo, anche per il resto del mondo.
Si chiama Transatlantic Trade and Investment Partnership, è noto con la sigla TTIP ed è arrivato all’undicesimo round di negoziati, a quasi un anno e mezzo dal mandato a trattare, approvato dai 28 governi Ue a giugno 2013. E’ il Trattato che dovrebbe riscrivere le regole del commercio transatlantico, che rappresenta il 30% degli scambi mondiali ed è quantificabile in almeno 700 miliardi l’anno. Si tratta, innanzitutto di assicurare accesso a mercati ancora chiusi, ma anche di dar vita a una cooperazione regolamentare che annullerebbe i costi dovuti alle differenze tra normative.
Un solo esempio: oggi un’automobile prodotta in Europa non può essere venduta così com’è negli Stati Uniti, perchè le norme sui paraurti sono diverse. Il costo del necessario adeguamento, anche se si tratta apparentemente di dettagli, può essere più elevato del dazio da pagare. Ecco perchè l’eliminazione dei dazi non è il vero punto forte del Trattato. A ben guardare, lo è, piuttosto, l’omologazione di norme di produzione e di certificazione.
Visto dall’Europa, secondo gli studi di settore, il Trattato dovrebbe incrementare il PIL continentale dello 0,50%. Non è da buttar via, ma non è granché. L’intenzione propositiva di Bruxelles, e l’impegno dei vertici Ue sembrano andare ben oltre tale guadagno. Visto dagli Stati Uniti, non si tratta dell’area di scambi più redditizia: non c’è paragone, infatti, con il volume di affari con il Pacifico, con il quale Washington ha appena firmato l’accordo che porta l’analoga sigla di TTP. Manca l’ok finale del Congresso e si aspetta la pubblicazione dei dettagli a novembre, ma di fatto l’accordo c’è.
A ben guardare, il TTP riguarda più le tariffe che gli standard di regolamentazione e non gli investimenti, ma apre comunque a nuovi affari e guadagni per Washington, tanto da far commentare ad alcuni analisti che l’interesse a chiudere il TTIP con Bruxelles si relativizza. Eppure, tutto fa pensare che l’amministrazione Obama stia, invece, tentando di portare a casa il risultato, pur avendo a disposizione di fatto solo i mesi fino a giugno 2016, prima delle elezioni presidenziali. Si capisce allora che l’importanza è geostrategica.
Di fatto, le nuove regole tra Vecchio e Nuovo Continente per dazi, barriere non tariffarie e investimenti, rappresenterebbero un punto di vista non più trascurabile per l’altra area del mondo sempre più protagonista: l’Asia, con in testa la Cina. Come dire: nel mondo globalizzato in cui le vecchie regole non valgono più perchè inadeguate, Europa e Usa hanno l’occasione di scriverne di nuove. Il primo obiettivo sarebbe quello di evitare che prevalgano standard altrui. E parliamo di standard frutto, per esempio, del deregolamentato passaggio da economie di Stato a forme di capitalismo di Stato, come quelle asiatiche che stanno per esplodere sul mercato mondiale.
Basti ricordare che la Cina, dopo il suo ingresso nel 2001 nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, attende con ansia, e non senza fare pressione, un pronunciamento a dicembre sulla sua richiesta di riconoscimento del Market Economic Status, lo status di economia di mercato.Significherebbe far avanzare il gigante cinese con assoluta libertà di movimenti. Senza regole.
C’è anche l’esempio della Russia, dove di fatto vige un monopolio energetico con cui soltanto politiche commerciali nuove potrebbero fare i conti in modo adeguato. Hendrik Bourgeois, vice presidente del dipartimento affari europei della General Electrics, assicura a Famiglia Cristiana che il TTIP muoverebbe qualcosa anche in termini di energia. Eliminerebbe alcuni impedimenti all’esportazione di gas dagli Usa, a partire dal particolare permesso per un’azienda Usa che volesse esportarlo, richiesto ora in base al Gas Act. Inoltre, si fisserebbero dei paletti chiari e utili anche per paesi terzi, che volessero esportare nel Vecchio Continente. Questo, secondo Bourgeois, potrebbe contribuire a liberare l’Europa dal ricatto energetico di Mosca. Difficile risolvere il fabbisogno europeo, ma si può minare la dipendenza dalla Russia, che attualmente copre almeno il 25% del fabbisogno di gas dell’Ue. E’ evidente che il piano del business si intreccia pesantemente con il piano della geopolitica.
da Famiglia Cristiana del 31 gennaio 2016