Dopo la multa miliardaria inflitta alla Apple di Fausta Speranza Si fa presto a dire ricorso. L’annunciato appello dell’Irlanda sul caso Apple non è così scontato come è sembrato. Dopo la decisione presa dalla Commissione europea di dichiarare illegittimo l’accordo fiscale di Dublino con l’azienda di Cupertino, che per questo dovrebbe rimborsare almeno 13 miliardi, il Governo di minoranza di Fine Gael ne sta discutendo. Ma quello che emerge davvero è il nodo di un’Europa che procede indecisa e zoppa sulla questione fiscale, con una sorta di tabù di cui nessuno parla. La vicenda nasce dall’accordo stipulato tra Irlanda e Apple tra il 2003 e il 2014, che abbatteva di molto la già favorevole tassazione irlandese. Gli accordi particolari tra azienda e autorità fiscale sono legali. Si chiamano tax ruling. Ma in questo caso, secondo Bruxelles, si sono configurate le premesse di uno sbilanciamento in quello che le normative europee identificano come aiuti di Stato, vietati perché contro il principio di libera concorrenza. Una normativa votata e accettata da Dublino come da tutti gli altri partner europei. Guardandola dal punto di vista dell’Irlanda, il rimborso per tasse non pagate, tutto considerato compreso interessi, potrebbe arrivare a 18 miliardi. Una somma pari alla spesa sanitaria del Paese in un anno. A Dublino qualcuno la vorrebbe accettare senza appello, anche se andrebbe a scontare il debito pubblico e non sarebbe spendibile sul piano sociale. Vista la crisi scoppiata nel 2010 e il debito con la comunità internazionale, la somma farebbe comunque comodo. C’è chi difende, invece, in ogni caso il ricorso alla Corte europea per contestare la decisione di Bruxelles. Si tratta del fronte che sostiene che, presi questi soldi, si comprometterebbe il rapporto con le multinazionali che in Irlanda investono molto. Ma è proprio questo fronte, che sembrava il più compatto, a perdere proseliti: si considera infatti che accordi di questo genere non saranno comunque più possibili. E, in realtà, ad attrarre investitori già basta quel 12,5 per cento di aliquota che distingue il Paese dalla media europea del 20 per cento circa. Senza citare l’Italia dove si arriva al 60 per cento. È questo, dunque, per sommi capi il dibattito in Irlanda. Ci sono poi anche questioni interne ai partiti e agli equilibri nel Governo di minoranza guidato da Fine Gael ma sostenuto da Alleanza indipendente. In ogni caso, si capisce che è un dibattito ben più complesso rispetto all’annuncio di ricorso sicuro. Dal punto di vista della Commissione, il trattamento spuntato in Irlanda ha permesso ad Apple di evitare la tassazione su quasi tutti i profitti generati dalla vendita di suoi prodotti nel mercato unico europeo. I profitti non venivano registrati laddove si producevano, ma erano allocati ad un head office di due società possedute al 100 per cento dal gruppo Apple: la Apple Operation International (Aoi), per le vendite in America; e la Apple Sales International (Asi), per i prodotti in Europa e altri Paesi. Così, solo una piccola percentuale veniva tassata in Irlanda e il resto sfuggiva. Un esempio concreto: nel 2011, su 16 miliardi di profitti, soltanto 50 milioni sono stati considerati tassabili in Irlanda. Prima dei commissari europei, a denunciare le stesse irregolarità era stato un rapporto di indagine del Senato di Washington, datato 21 maggio 2013. Non è la prima battaglia sul piano della concorrenza illecita. La Commissione europea ha multato Microsoft nel 2008, per abuso di posizione dominante. E Google, accusata di «abuso del diritto» — cioè di operazioni che, pur nel rispetto formale delle norme, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti — ha dovuto risarcire l’Italia di 320 milioni di euro, a febbraio 2015, per 800 milioni di imponibile prodotto e non registrato in cinque anni. Il mondo riconosce che su questo l’Europa è avanti. Ma ci si chiede come si possa pensare di procedere ancora tutti insieme sulla normativa sulla concorrenza, gli aiuti di Stato e l’antitrust e andare avanti in ordine sparso sul piano fiscale. L’esperto di diritto europeo, Giandonato Caggiano, docente all’università Roma tre, parlando con «L’Osservatore Romano», denuncia una «asimmetria assurda». E sottolinea che, nel dare la notizia del pronunciamento della Commissione europea, i media hanno presentato la vicenda come il solito braccio di ferro tra i burocrati di Bruxelles e uno Stato membro che cerca la crescita economica come può. Il braccio di ferro è invece con le multinazionali, che sicuramente portano guadagni e indotto, ma viaggiano su sfere tutte loro di profitto e di diritto. Caggiano denuncia quello che definisce il «tabù della politica fiscale», che resta affidata ai singoli Stati membri, «in modo sorprendente e inaccettabile». Paolo Guerrieri, docente di economia internazionale all’Università La Sapienza, sostiene che si tratta di un generale «processo incompiuto». Parlando con «L’Osservatore Romano», fa il paragone con l’euro e spiega che «quando è stata adottata la moneta unica, non si sono adottate le necessarie conseguenti politiche economiche e finanziarie comuni». Solo con la crisi, scoppiata nel 2008, si è capita, ad esempio, l’urgenza di un’unione bancaria. Ora, di fronte alla Brexit, emerge l’urgenza di affrontare i nodi che restano. Proprio a partire dalla questione fiscale. L’Osservatore Romano, 11 Settembre 2016 |