Una normativa europea consente canali più rapidi per la concessione di visti
di Fausta Speranza
Sui documenti ufficiali si chiama “sponsorizzazione privata”. Risponde alla domanda che, da anni, in tanti si pongono di fronte alle carrette del mare: c’è un’alternativa ai viaggi della disperazione nel Mediterraneo? E qualcuno ha trovato la risposta tra le pieghe del diritto di quell’Unione europea che sembra paralizzata di fronte ai flussi migratori dal Nord Africa e dal Medio oriente.
Mentre i leader dell’Ue discutono di una solidarietà di cui troppi vorrebbero solo beneficiare e di strategie che sembrano tutte da inventare, persone impegnate sul piano umanitario hanno messo in moto un meccanismo già previsto nel regolamento europeo sui visti. Non è un intervento d’emergenza portato a chi rischia la vita in mare o a chi sbarca assiderato e disidratato sulle coste italiane e greche. Si tratta di un contributo diverso, a monte. Con l’obiettivo di permettere a persone la cui vita è messa a rischio dalla guerra o dalla fame di cercare riparo in altri paesi evitando però i viaggi della disperazione.
Si parla tanto, doverosamente, di procedure per il riconoscimento dei richiedenti asilo, per quanti hanno diritto, secondo le norme internazionali, allo status di rifugiato. In tanti si danno da fare per questo: dall’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (Unhcr) al Jesuit refugee service fino al Centro italiano rifugiati (Cir). Per cercare di accelerare più possibile l’iter, sono stati creati hotspot sulle navi, che consentono di procedere contestualmente ai salvataggi. Ma sono iniziative che riguardano profughi già in cammino.
Ovviamente chi si trova in situazioni di conflitto non riesce ad accedere alla procedura burocratica e diplomatica per ottenere un visto in Europa. Per questo si affida ai trafficanti di esseri umani. Ma nel regolamento sui visti europei, c’è l’articolo 25, che rappresenta un’eccezione alle regole di Shengen. Un’eccezione prevista ben prima di tutti i ripensamenti sulla libera circolazione e prima ancora delle chiusure improvvise delle frontiere europee sulla rotta balcanica.
È l’eccezione che rende percorribili i “corridoi umanitari”. In tempi non sospetti, gli stati membri hanno voluto introdurre nell’ordinamento il cosiddetto “visto a territorialità limitata” (Vtl). Situazioni di guerra, violenza tribale, catastrofi ambientali sono i requisiti che permettono di ottenere il Vtl, senza il consueto percorso burocratico dei visti. L’unica limitazione è che chi usufruisce di questo visto non ha accesso alla libera circolazione di Shengen, che peraltro ora è in buona parte sospesa.
Il termine “sponsorizzazione privata” si spiega con il fatto che l’attivazione della procedura si fonda su iniziativa di elementi della società civile, soprattutto volontari, che sono chiamati a tirare fuori dalle proprie tasche le risorse necessarie. È stata la Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con la Federazione delle chiese evangeliche in Italia e la Tavola della chiesa valdese e con l’appoggio del governo italiano, a “rianimare”, l’articolo 25 e a farne un percorso di riscatto e di vita. Tutto perfettamente in linea con l’Europa paladina dei diritti umani alla quale Asia e Africa guardano da tempo con sofferta ammirazione. Tutto semplicemente in sintonia con le tante Convenzioni internazionali firmate a Ginevra.
Al momento l’Europa non riesce ad alleggerire il carico degli arrivi su Italia e Grecia. Vengono in mente i 160.000 richiedenti asilo che, su proposta della commissione europea, il consiglio dei capi di stato e di governo dell’Unione aveva stabilito di ricollocare tra i vari stati membri, con percentuali di poche centinaia per paesi come Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia che, però, dopo aver approvato in sede di consiglio il provvedimento, hanno serrato i confini. Una corsa a chiudere le frontiere che ha fatto seguito ad altre barriere erette e minacciate, come quella del Brennero. Tutto questo ha occupato pagine e pagine di giornali e ha alimentato dibattiti e populismi, mentre almeno 3930 persone sono morte nel Canale di Sicilia tra gennaio ed oggi.
Ma proprio negli stessi mesi, 400 persone sono arrivate in Italia sane e salve grazie all’articolo 25. Gli ultimi 126 proprio in questi giorni. Hanno cominciato un percorso di inserimento fatto di studio della lingua e di abilitazioni al lavoro, logico proseguimento del corridoio umanitario. Non hanno fatto molto scalpore e forse non lo faranno neanche quando, nel giro di due anni, saranno arrivate tutte le mille persone individuate.
L’Italia è il primo paese in Europa ad aver sfruttato i Vtl, nell’attuale contesto di emergenza per i profughi. Ma l’iniziativa sembra felicemente contagiosa: altre organizzazioni umanitarie, a partire dalle Caritas, stanno lavorando per riproporla in Francia, in Olanda, in Polonia. C’è da chiedersi se i costi di queste operazioni siano paragonabili a quelli sostenuti in seguito allo scoppio di situazioni incontrollate, come ad esempio sull’isola greca di Lesbo, o a Calais, nella cosiddetta giungla. C’è da pensare che provvedere a questi costi, al momento affrontati dalle sponsorizzazioni private, potrebbe significare grossi risparmi per i governi.
I terreni di partenza del primo progetto pilota italiano sono al momento due: dal Libano, per siriani in fuga dalla guerra conclamata; dall’Etiopia, per eritrei, somali e sudanesi in fuga da conflitti irrisolti. Il canale per i primi si è già aperto. Quello per i secondi si sta per sbloccare. Tra i primi arrivati, ci sono molti siro-palestinesi: si tratta soprattutto di donne e bambini nati nel campo di Yarmuk, creato nel 1957 in Siria, a sud di Damasco, per accogliere profughi da territori divenuti stato di Israele nel 1948. Nei cinque anni di conflitto in Siria hanno conosciuto anche da vicino la barbarie degli uomini del sedicente Stato islamico, che nel 2014 hanno preso il controllo del loro campo.
Una complessità di vicende e di tragedie umane che ha incontrato la semplicità dell’applicazione di regolamenti vigenti, grazie a qualcuno che non si è arreso di fronte alla presunta inesorabilità delle stragi nel Mediterraneo.
L’Osservatore Romano, 30-31 Ottobre 2016