Giorno: 20 Dicembre 2016
Da schiave del sesso a paladine della lotta al terrorismo
“È sempre difficilissimo raccontare di essere state schiave del sesso, ma è diverso sentir parlare di numeri o incontrare vittime e noi vogliamo denunciare l’orrore dell’Is”. Sono parole delle due ragazze che sono state per mesi nelle mani di uomini del sedicente Stato islamico in Iraq e che hanno ricevuto il Premio Sacharov per la difesa dei diritti umani del Parlamento Europeo, nei giorni scorsi. Si chiamano Nadia Murad Basse e Lamya Haji Bashar e hanno rispettivamente 23 e 18 anni. Appartengono alla comunità degli yazidi, una minoranza religiosa, di etnia curda, con 4 mila anni di storia. Vivevano a Kocho, un villaggio vicino alla città di Sinjar, nel Nord dell’Iraq, a poca distanza dal confine siriano, quando il 3 agosto del 2014 miliziani dell’Is hanno portato l’orrore: hanno ucciso gli uomini, hanno catturato i bambini e le donne, che hanno passato in rassegna, per poi uccidere quelle che non avrebbero reso soldi al mercato delle schiave del sesso. Le più giovani sono state messe a disposizione dei miliziani a Mosul. Fausta Speranza ha incontrato Nadia e Lamya e ha parlato con loro del ruolo della comunità nella lotta contro la barbarie dell’Is e dei rischi di ogni forma di razzismo.
D. – Nadia, tu sei stata nominata a settembre scorso ambasciatrice dell’Onu sui temi della tratta di esseri umani. Qual è il cuore del tuo messaggio al mondo?
(In questo primo audio risponde Nadia; nel secondo risponde Lamya)
R. – (parole in arabo)
Quando penso alla situazione, vedo un periodo terribile di oltre due anni in Iraq e tre anni in Siria e sento che il futuro di milioni di persone sarà molto triste. ‘L’Is odia ciò che più è umano, a partire dal valore della persona e perseguita soprattutto yazidi e cristiani’. Credo che se tutto questo continuerà, significherà che ci saranno ancora più stupri, ancora più uccisioni, ancora più reclutamenti di bambini soldato… Ecco perché è veramente giunto il momento che ci sia una reazione: il mondo deve fare qualcosa. E’ giunto il tempo che l’Is si assuma le responsabilità di quanto ha fatto. Bisogna portare gli uomini dell’Is di fronte alla Corte penale internazionale. Ed è giunto il tempo di arrestare il terrorismo. Ma bisogna capire che i rischi sono due: il radicalismo e il terrorismo da una parte, ma anche risposte sbagliate a tutto ciò, dall’altra parte. Bisogna prevenire ogni forma di razzismo, che io invece vedo crescere ovunque. Ma in tutto questo non riesco a comprendere come l’intera comunità internazionale non riesca a fermare un gruppo di uomini in fondo piccolo come l’Is!
D. – Che cosa ti aspetti dall’Europa e dalla Comunità internazionale?
R. – (parole in arabo)
Chiediamo loro di essere dalla parte delle vittime, di creare una zona di sicurezza per gli yazidi e per altre minoranze. Con gli yazidi i più perseguitati sono i cristiani. E’ certo che senza protezione e senza assunzione di responsabilità nei loro confronti, almeno mezzo milione di yazidi si metteranno in marcia verso l’Europa. I Paesi del mondo civile devono contribuire a trovare una soluzione.
D. – Nadia, sei stata travolta dal male. Ancora credi nel bene?
R. – (parole in arabo)
Hanno ucciso mia madre davanti ai miei occhi perché non avrebbe reso soldi al mercato delle schiave del sesso, ma non hanno cancellato i suoi insegnamenti. Lei è sempre stata una persona piena di rispetto per tutti e mi ha educato all’amore e al bene, mi ha insegnato a pregare. Queste cose l’Is non può distruggerle. Tante ragazzine in mano all’Is appena possono si tolgono la vita, perché non ce la fanno a sostenere tanto strazio. Io non ho mai pensato di uccidermi. Più il male mi toccava e più trovavo in me tutti gli insegnamenti di mia madre e della mia gente, ma soprattutto la forza di Dio che mai mi ha abbandonata. Più il male mi toccava, più trovavo il bene dentro di me.
D. – Lamya, dopo la fuga dall’Is sei stata gravemente ferita da una mina e hai dovuto subire diversi interventi chirurgici e sottoporti a molte cure in Germania. Cosa ti dà la forza di portare avanti la tua denuncia?
R. – (parole in arabo)
Gli uomini dell’Is mi hanno violentata, mi hanno picchiata, mi hanno torturata e umiliata. Per otto mesi mi hanno fatto tutto il male che si possa fare. Non ci hanno mai considerate persone o esseri umani: ci hanno trattato come animali. Ci dicevano che eravamo un bottino di guerra. Non posso vivere pensando che altre ragazze stanno subendo ancora tutto questo. Vorrei dimenticare ma non posso. Ho visto violentare bambini, ho visto violentare donne di fronte ai loro bambini: vendute e rivendute o scambiate come merci. Non posso rimanere in silenzio. Non posso vedere cose così atroci e rimanere in silenzio. Questo è il motivo per cui ho deciso di non tacere. Ho deciso di raccontare i loro crimini, le loro storie, quello che hanno fatto alla minoranza yazida, a ragazzine come me … Ho deciso di parlare perché voglio che la gente sappia quello che mi hanno fatto. Mai più, mai più deve accadere quello che ho subito e ho visto io. Mai più. Si deve combattere l’Is e non si deve permettere che arrivi un altro Is, e magari per ragioni diverse faccia alle bambine quello che hanno fatto a me.
D. – Cosa pensi del fatto che questi uomini si definiscano religiosi?
R. – (parole in arabo)
Per me, l’Is non è Islam. Il vero Islam è diverso.
Radiogiornale della RadioVaticana del 20 dicembre 2016
Mai piegate al male
Le due yazide vincitrici del premio Sacharov sfuggite all’Is
Da schiave a paladine della lotta al razzismo
di Fausta Speranza
«È sempre difficilissimo raccontare di essere state schiave del sesso, ma è diverso sentir parlare di numeri o incontrare vittime, ed è per questo che siamo qui a ricordare». Sono parole delle due ragazze yazide che sono state per mesi nelle mani di uomini del cosiddetto Stato islamico (Is) in Iraq. Raccontano in un’intervista in esclusiva all’Osservatore Romano che «l’Is odia ciò che più è umano, a partire dal valore della persona» e «perseguita soprattutto yazidi e cristiani». Mettono in guardia sui «gravissimi rischi del radicalismo e del terrorismo» ma anche sui «pericoli delle risposte sbagliate a tutto ciò e di ogni forma di razzismo».
Nadia Murad Basse e Lamya Haji Bashar appartengono alla comunità degli yazidi, una minoranza religiosa, di etnia curda, con 4000 anni di storia. Hanno ricevuto il premio Sacharov per i difensori dei diritti umani dal Parlamento europeo, nei giorni scorsi. Le abbiamo incontrate subito dopo: hanno rispettivamente 23 e 18 anni e lo stesso sofferto, ma intenso, proposito di denunciare, perché «ancora 3000 giovani yazide sono in schiavitù». C’è tanto coraggio e tanta dignità nelle espressioni di queste due ragazze minute, dagli occhi addolorati ma determinati. Dalla comunità internazionale si aspettano «la creazione di zone protette per il mezzo milione di yazidi che altrimenti moriranno o si riverseranno in Europa» e il giudizio della Corte penale internazionale sui «crimini contro l’umanità che l’Is commette».
Nadia e Lamya vivevano a Kocho, un villaggio vicino alla città di Sinjar, nel nord dell’Iraq, a poca distanza dal confine siriano. Il 3 agosto del 2014 miliziani dell’Is hanno portato l’orrore: hanno ucciso gli uomini, hanno catturato i bambini e le donne, che hanno passato in rassegna, «per poi uccidere quelle che non avrebbero reso soldi al mercato delle schiave del sesso». La madre di Nadia è stata freddata da colpi di arma da fuoco davanti ai suoi occhi, insieme con altre 85 madri di famiglia o sorelle maggiori. Lamya ha visto calpestare i cadaveri di disabili e anziani ed è stata catturata con le sue sei sorelle, che sono ancora nelle mani dell’Is, «se non si sono uccise». Sia Nadia che Lamya raccontano di tante ragazzine che «appena possono si tolgono la vita», non sostenendo tanto strazio. Le giovanissime in pubertà vengono «iniziate alla schiavitù con il rituale dello stupro di gruppo». Rituali e pratiche si ritrovano teorizzati in un agghiacciante manuale di 32 pagine scoperto in vari covi dell’Is e pubblicato nei mesi scorsi dai media. Emerge una “burocrazia” delle violenze, listini prezzi e contratti d’acquisto delle schiave “notarizzati” da giudici. Si legge di «jihad sessuale» con le «femmine bottino di guerra». Proprio così si sono sentite appellare più volte le due ragazze, fragili nel fisico e forti nello spirito, che sono riuscite a scappare in momenti diversi, dopo essere state vendute più volte.
Nadia, dopo tre mesi, è stata aiutata da una famiglia vicina a un campo profughi. Non vuole svelare maggiori dettagli perché ha paura per loro. Dal campo profughi è giunta in Germania. Il 20 dicembre del 2015 ha ripetuto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la sua storia. A settembre di quest’anno è stata nominata ambasciatrice dell’Onu in tema di tratta di esseri umani. Confida che i riconoscimenti ricevuti le «restituiscono quell’onore che l’Is voleva sopprimere», ma avverte: «Il radicalismo e il terrorismo sono ovunque e si deve fare di più». Quando le chiediamo se crede ancora nel Bene dopo aver conosciuto tanto male, ci risponde senza esitazione: «Più il male mi toccava e più trovavo in me la forza di Dio che mai mi ha abbandonata; e più trovavo il Bene». E aggiunge: «Hanno ucciso mia madre, ma non hanno cancellato i suoi insegnamenti ad amare e a pregare».
Lamya è riuscita a fuggire dopo otto mesi e al suo terzo tentativo, dopo vessazioni e violenze ogni volta peggiori. Ha oltrepassato la zona controllata dall’Is con altre due compagne, ma, a due passi da lei, una delle due è saltata in aria su una mina delle tante disseminate dai miliziani. È sopravvissuta solo Lamya, che ha perso l’uso di un occhio ed è rimasta gravemente ferita al volto, su cui porta i segni dell’esplosione, dello choc per la morte atroce delle amiche, delle torture cui è stata sottoposta. Per lei è difficile anche abbozzare un sorriso. Ripete, con pacatezza ma fermezza, che «esseri umani non possono essere ridotti a merci». Con voce tremolante, aggiunge: «Non ho mai visto un barlume di pietà in nessuno dei tanti uomini che mi ha violata o costretta a confezionare cinture esplosive». E aggiunge: «L’Is non è l’islam: l’islam è un’altra cosa».
Nadia ci lascia con una raccomandazione. Chiede di «spiegare bene al mondo» che «oggi si devono fronteggiare due grandissimi rischi: il pericolo del radicalismo e del terrorismo ma anche il pericolo di risposte sbagliate in cui cresce lo spazio per qualche forma di razzismo». Il suo appello è chiarissimo: «Bisogna prevenire ogni forma di radicalismo e razzismo, sempre più pericolosi ovunque».
L’Osservatore Romano, 20 Dicembre 2016