Mentre la City cerca di salvaguardare i propri interessi finanziari
di Fausta Speranza
È atteso in serata il voto della camera dei comuni britannica sulla legge presentata dal governo di Theresa May per l’avvio della Brexit. Il confronto si sposterà in seguito in commissione parlamentare dal 6 all’8 febbraio; sono stati annunciati diversi emendamenti. Si potrebbero, quindi, allungare i tempi. Intanto, non perde tempo il mondo finanziario della City, che sta mettendo in atto le sue prime strategie a sette mesi dal referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, il 23 giugno scorso.
Il parlamento di Westminster deve dare il suo via libera alla notifica a Bruxelles dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Secondo il regolamento europeo, è il primo passo da fare per aprire il processo di negoziazione che dovrà riformulare i rapporti tra Regno Unito e Ue, e a farlo deve essere Londra. Al momento, sembra sempre più difficile che il governo di Theresa May riesca a ottenere il via libera e ad attivare la procedura entro marzo, come promesso. Il premier avrebbe voluto accelerare il tutto evitando il dibattito a Westminster, ma la corte suprema ha imposto il passaggio parlamentare.
Finora la linea del governo britannico è sempre stata chiara: attuare una «hard Brexit», cioè un’uscita sia dalle istituzioni dell’Unione che dal mercato comune europeo. May ha dichiarato di non essere disposta a «nessun compromesso con Bruxelles per difendere margini di mercato comune». Il punto è che questa posizione, al di là del dibattito all’interno di Westminster, non piace alla City, il gotha finanziario britannico.
Anthony Browne, presidente della British Bankers Association, ha confermato che le banche più importanti di Londra rispetteranno il loro programma: il trasferimento, nel primo trimestre dell’anno, di parte della forza lavoro a Francoforte o a Parigi o a Dublino, o anche a Vienna. Secondo l’istituto di think thank finanziario CityUk, Londra sta per perdere 70.000 posti di lavoro. Il motivo è la preoccupazione per l’incertezza nelle trattative e proprio la prospettiva di una «hard Brexit». Per il cuore finanziario di Londra significherebbe perdere i passport rights, ossia il diritto di vendere servizi e prodotti finanziari al resto d’Europa senza dover pagare dazi e tariffe doganali. Un business che rappresenta circa il 20 per cento del fatturato della City. Browne ha assicurato che le banche non hanno nessuna intenzione di perderlo. I dirigenti della Hsbc, la più grande banca del Regno Unito, hanno fatto sapere che perdere preziosi clienti sarebbe una «Brexit too hard», troppo dura, e hanno chiarito di intravedere «ancora pressioni al ribasso sulla sterlina e crescita ulteriore dell’inflazione». Come dire che non si può perdere tempo.
Guardando la questione da Bruxelles, le banche basate nella capitale britannica prestano all’Europa più di un trilione di sterline. E, dunque, creare il “muro finanziario”, come lo definisce Browne, non conviene neanche ai ventisette. L’amministratore delegato della Deutsche Bank, John Cryan, ha avvertito che, nel caso di una «hard Brexit», «i vantaggi andranno ai mercati di New York, Singapore, Shangai». A meno che non si corra ai ripari «con un mercato del capitale integrato nell’Ue il più velocemente possibile». Significa ricompattare le fila seriamente nell’ambito europeo, trovando un’unione di intenti che, se in passato ha avuto momenti di debolezza, in questa fase storica sembra proprio vacillare. Il negoziato tra Londra e commissione europea, che non potrà durare meno di due anni, si conferma ben complesso su entrambi i fronti.
L’Osservatore Romano, 1 Febbraio 2017