A trent’anni dall’assassinio di Jerry Masslo
di Fausta Speranza
«Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo»: così diceva Jerry Essan Masslo, il rifugiato sudafricano assassinato esattamente 30 anni fa, che resta la figura simbolo di una precisa e concreta svolta legislativa in Italia. La sua vicenda personale, infatti, scosse tanto profondamente l’opinione pubblica da portare ad una riforma della normativa per il riconoscimento dello status di rifugiato. La sua storia rappresenta un monito a ricordare il doveroso sforzo di adeguare la legislazione ai bisogni e alle ingiustizie dei tempi, un richiamo alle drammatiche situazioni che ancora oggi si verificano per migranti e richiedenti asilo e anche un’occasione per riflettere sul peso della parola razzismo.
Vittima di sfruttamento nelle coltivazioni di pomodori in Campania, Jerry Essan Masslo la sera del 24 agosto 1989 fu freddato a colpi di arma da fuoco a Villa Literno, in provincia di Caserta, da criminali capaci di andare a derubare migranti impegnati 15 ore al giorno per cifre inadeguate e in condizioni igienico-sanitarie inaccettabili. Poco dopo la sua morte, ebbe luogo a Roma la prima manifestazione antirazzista mai organizzata in Italia sino ad allora, con la partecipazione di oltre 200.000 persone, italiani e stranieri.
Ha rappresentato per l’Italia la presa d’atto della necessità di garantire adeguati diritti e doveri agli immigrati, che nel corso degli anni ottanta erano cresciuti considerevolmente di numero. La vicenda del mancato riconoscimento dello status di rifugiato a Jerry Masslo, in quanto non cittadino dell’Europa dell’est, portò infatti il governo Andreotti di quel momento a varare, in tempi record, il decreto legge 30 dicembre 1989 n. 416, recante norme urgenti sulla condizione dello straniero, convertito poi nella Legge 28 febbraio 1990 n. 39: la cosiddetta legge Martelli. La legge Martelli, all’articolo 1, riconobbe agli stranieri extraeuropei sotto mandato dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, lo status di rifugiato, eliminando la «limitazione geografica» per i richiedenti asilo politico stabilita in base alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951. Furono, inoltre, riconosciuti e garantiti — sulla carta — i diritti dei lavoratori stranieri.
Nella sua tappa a Roma, prima di recarsi nel sud Italia per il lavoro stagionale, Masslo aveva trovato accoglienza presso la struttura «Tenda di Abramo» della Comunità di Sant’Egidio, che non lo ha mai dimenticato e che oggi ha riunito al cimitero di Villa Literno italiani e stranieri, provenienti da Roma, Napoli e altre città, per una marcia silenziosa. Vengono deposti fiori anche in omaggio ad alcune tombe senza nome di migranti morti mentre si trovavano in quelle campagne per il lavoro dei campi e volutamente collocate in questi anni accanto a quella di Masslo. Il comunicato con cui è stata presentata l’iniziativa è chiaro: «Molte cose sono cambiate dalla vicenda di Jerry, ma resta il gravissimo problema dei braccianti stranieri sfruttati nelle campagne per pochi soldi e costretti a vivere in alloggi più che precari. E restano soprattutto sentimenti di intolleranza e di xenofobia — cresciuti purtroppo negli ultimi tempi — che occorre condannare». Con una considerazione che vorremmo scontata e che invece si fa sempre più doverosa: «L’Italia, se tiene al suo futuro, deve allontanare ogni radice di odio e di discriminazione e puntare su integrazione, diritti e un lavoro dignitoso per tutti».
Nella vicenda di Masslo, esemplare per comprendere il fenomeno dell’immigrazione e il difficile cammino verso l’integrazione in Italia, c’è un altro fatto da ricordare. Cinque anni dopo l’eccidio, i clan della camorra, infastiditi dalla eccessiva attenzione mediatica che le campagne di Villa Literno continuavano a riscuotere — il punto di ritrovo dei lavoratori neri era per tutti «la piazza degli schiavi» — nel settembre del 1994 reagirono causando il rogo del ghetto costituito dalle loro abitazioni, proprio mentre la prefettura di Caserta metteva a punto un piano per una soluzione alternativa. Monsignor Raffaele Nogaro, allora alla guida della diocesi di Caserta, definì l’incendio del Ghetto di Villa Literno, un «incendio di Stato». Nessuno poteva guardare dall’altra parte. Alla luce di quelle vicende, oggi non si può ignorare che gli episodi di razzismo, i crimini di odio, le azioni di ostilità verso gli stranieri, le aggressioni a sfondo xenofobo sono aumentati in maniera inquietante, al punto che dall’estate 2018 si parla di «un’emergenza razzismo» in Italia, come peraltro in altri paesi europei. Esistono diverse agenzie che raccolgono questo tipo di dati, ma non c’è un coordinamento centralizzato. Nel 2010 è stato creato l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), un’agenzia del ministero degli Interni che raccoglie le segnalazioni alla polizia di crimini di odio e risulta che, tra tutte le discriminazioni, quelle per motivi etnico-razziali hanno la percentuale più alta, arrivando a rappresentare l’82 per cento delle segnalazioni.
Jerry Essan Masslo era nato nella regione del Sudafrica da cui proveniva Nelson Mandela, precisamente a Umtata, oggi denominata Mthatha, il 4 dicembre 1959 e, nonostante le condizioni di povertà della famiglia, aveva studiato. Quando una troupe della Rai raggiunse la baracca per documentare il fenomeno sempre più diffuso dello sfruttamento nei campi di africani irregolari, Masslo rilasciò un’intervista in cui spiegava ragioni e rivendicazioni. Intervista che la tv pubblica italiana rimandò in onda quando arrivò la notizia della sua uccisione. Una sorta di testamento in cui Masslo affermava: «Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile». Parole cariche di dolore come la considerazione finale: «Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto».
Oggi c’è bisogno di riascoltare le parole e la storia di Jerry Masslo e forse ce n’è ancora più bisogno rispetto a 30 anni fa. Sfruttamento, discriminazione, razzismo verso i lavoratori immigrati non sono, per l’Europa, novità di questi ultimi anni. Inoltre negli ultimi anni sui mass media l’immigrazione viene presentata essenzialmente come un problema di ordine pubblico, da affidare sempre più alle polizie, alle marine militari, alle carceri, ai centri di detenzione. Ed è così che la massa degli immigrati, composta nella sua quasi totalità di lavoratori — forzati all’emigrazione dalla devastazione per conflitti e cambiamenti climatici di crescenti aree del Sud del mondo — viene criminalizzata come un pericolo da cui proteggersi con ogni mezzo, se non come un nemico da stigmatizzare. Ricordare Jerry Masslo deve essere un atto di umanità ma soprattutto l’occasione per riflettere su tanti piani di responsabilità: dalla politica alla società civile.