“Troppo spesso la gente esige la libertà di parola per compensare la libertà di pensiero che invece rifugge”. Sono parole di Søren Kierkegaard di due secoli fa. Il filosofo danese non ha conosciuto le derive logorroiche che accompagnano oggi i social, ma ha fotografato l’attitudine umana che viene prima di qualunque assoggettamento alla tecnologia. L’attitudine a dare e a darsi risposte facendo a meno degli interrogativi, o partendo sempre dalle stesse domande. Risposte possibilmente a voce alta, per imporle e imporsi, per provare a considerarsi importanti, o forse semplicemente per sentirsi vivi o darsi coraggio. Comunque, risposte, troppo spesso lapidarie, come sono oggi le notizie postate e condivise: senza fonti, vere per assioma, perché non ci si chiede se siano false. Ma c’è almeno un posto al mondo dove tutto questo non funziona, dove, chiunque scelga di andare, viene trafitto dagli interrogativi: ad Auschwitz non si trovano risposte.
In quel che resta del campo di sterminio in terra polacca simbolo della follia nazista, si resta inchiodati dalla domanda più angosciosa: come si sia arrivati a così tanta disumanità teorizzata e orchestrata. E l’interrogativo più doveroso riguarda il futuro: se possa ripetersi. Primo Levi, sopravvissuto a Birkenau perché utile chimico e divenuto scrittore di fama mondiale con i suoi racconti, ha chiarito: “E’ accaduto, può accadere di nuovo”.
Partecipare a gennaio 2019 a un “Treno della memoria” della relativa bellissima associazione del Salento ha significato scoprire quanta meravigliosa voglia di libertà di pensiero – prima ancora del legittimo desiderio di libertà di parola – l’iniziativa riesca a seminare tra i giovani che aderiscono. Gli studenti, preparatissimi, non hanno girato lo sguardo di fronte a nessuna sollecitazione e, soprattutto, al dibattito a conclusione del viaggio ad Auschwitz e a Cracovia, hanno permesso al pensiero di spaziare dal passato all’oggi, con un’assunzione di responsabilità fortissima. La domanda che ha riecheggiato di più, nella sala magna dell’Università che li ha ospitati, è stata: cosa posso fare io. L’orizzonte si è allargato alle sfide attuali che chiamano a muoversi sul crinale dei crinali: tra umanità e disumanità. Il ragionamento è tornato spesso all’immagine dei migranti che gettano nel Mediterraneo le loro vite nel disperato tentativo di salvarle dalle violenze che imperversano nei loro paesi africani o mediorientali. O si è ragionato sul muro che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump propone come risposta alle altrettanto disperate fughe dalla violentissima America Centrale verso il Nord America. La riflessione è arrivata anche alle ingiustizie sociali che trattengono in “ghetti” di fatto centinaia di milioni di persone nel mondo, destinate appena a sopravvivere mentre l’un per cento della popolazione mondiale detiene il 99 per cento delle risorse. Sollecitazioni doverose e pesanti, per le quali non è facile contribuire a cambiare le cose. Ma da quella sala universitaria è emersa chiarissima la responsabilità fondamentale: quella della consapevolezza. Sapere e capire, almeno per non contribuire con scelte quotidiane o politiche a logiche di disumanità, che prendono sempre nuove vesti ma non spariscono dal vissuto dell’uomo. Chiedersi sempre – come ha gridato al mondo Levi – “se questo è un uomo”.
Unica via possibile per comprendere Auschwitz è studiare il contesto, l’humus che ha dato vita all’odio razziale contro gli ebrei, che in Germania negli anni Trenta del secolo scorso rappresentavano lo 0,8 per cento della popolazione. Non ci si può esimere dal continuare a studiare chi e come abbia incanalato frustrazioni, scontento sociale e valutare quante industrie abbiano guadagnato nell’affare dei forni crematori o del gas letale. Ma i libri non bastano. Lo ricorda lo storico di relazioni internazionali, Daniele De Luca, che non si stanca anno dopo anno di tornare al lager più infame. Insegna ai suoi studenti che si studia il passato per avere il giusto sguardo interlocutorio sul presente e che in qualsiasi fatto storico serve cercare di “starci dentro” il più possibile: leggere di Auschwitz non è uguale a visitarlo. Sentire, sebbene coperti adeguatamente, il freddo gelido del vento di questa zona d’Europa non è uguale a rileggere le testimonianze di sopravvissuti, anche se è impossibile mettersi nei loro poveri panni. In ogni caso – De Luca è perentorio – la visita si fa d’inverno, “perché qualcosa delle terrificanti sensazioni dei prigionieri arrivi sulla pelle”.
Il primo passo è il silenzio: quel silenzio ricco di ascolto vissuto dai ragazzi tra i viali del campo, in cui si è introdotti dalla scritta più beffarda della storia: “Il lavoro nobilita l’uomo”. Un arco di ferro e parole dove ad essere più dure sono le parole, false e irrisorie. L’area inizialmente doveva servire a far tacere i dissidenti polacchi che resistevano all’annessione forzata da parte della Germania, accompagnata dall’intenzione di annichilire cultura e lingua polacche, cancellando ogni segno di civiltà locale. Poi è diventato contesto esemplare, anche se non unico, del drammatico progetto di sterminio degli ebrei.
Certamente vedere quei sassolini dentro una teca che sono ciò che resta di una produzione massiccia di Zyklon B, l’agente fumigante con cui si pensava di mettere a punto la “soluzione finale”, non lascia indifferenti. L’incredulità ti accompagna nell’area di lavori forzati definita Auschwitz I e nell’area di Monovitz, prima e ultima a essere state ultimate. E l’incredulità resta, mista a angoscia, quando cammini tra le rovine dell’area di Birkenau, voluta e usata espressamente per lo sterminio degli ebrei. E’ stata quella più distrutta dai nazisti in fuga, ma grazie ai racconti, ad alcune fotografie rubate e a foglietti di appunti sotterrati da disperati che non potevano pensare che la memoria si perdesse, la realtà dei fatti rivive davanti agli occhi e nei ragazzi è stato evidente lo stupore per dettagli che si fissano come pungoli nella mente. In tre sale nel Blocco II, adibito a carcere e a luogo di tortura, c’era il riscaldamento perché è quanto prevedeva la legge del Terzo Reich per i luoghi di detenzione. Nel gelo dell’inverno nelle capanne di Auschwitz, quelle tre stanzette per condannati, 90 centimetri per 90, erano riscaldate. Giulia si è mostrata sconvolta: «Come si poteva parlare di rispetto della legge?». Forse la consapevolezza più doverosa che sta maturando in questa ragazza è proprio questa: l’orrore è stato voluto pretendendo di stare nella legge. E solo 80 anni fa.
L’orrore è stato concepito, nonché tollerato dal popolo tedesco, in una logica di pianificazione, di strategia: in una combinazione diabolica e unica di ideologia, burocrazia, tecnologia. Ad Auschwitz tutto è stato scientifico. Non si riesce a dimenticare la teca che conserva le due tonnellate di capelli di donna ritrovati nel campo all’arrivo delle truppe russe a fine gennaio 1945, solo perché non avevano fatto in tempo a partire: tutto era perfettamente efficace, infatti, nella catena industriale che li riciclava in tessuti, come riciclava o smaltiva altro. I giovani che abbiamo seguito da vicino, 50 tra i 1500 in visita tra gennaio e marzo, hanno attraversato con attenzione e rispetto tutte le aree, dove hanno trovato dolore e morte migliaia di dissidenti politici polacchi, prigionieri russi, rom e sinti, omosessuali, milioni di ebrei. Hanno scelto di citare a voce alta alcuni nomi di vittime in un consueto momento di commemorazione, che è diventato particolare quest’anno a 15 anni dalla nascita del Treno della memoria.
Nei loro commenti i ragazzi non hanno smesso di ripetere che le atrocità compiute su uomini e donne inermi sono note, ma certamente trovarsi sullo scenario di Auschwitz è “un’esperienza unica”. Lo è stata anche per la giornalista che scrive. Lo è stata anche proprio perché trascorsa tra giovani ricchi di interiorità che restituiscono la speranza che alcuni dati riescono a far vacillare. Primo fra tutti quello relativo ai cosiddetti neet, giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano, non studiano, non seguono corsi di formazione, appunto “Not in Education, Employment or Training”. L’Italia ha il drammatico primato in Europa per numero di neet. Viaggiare tra centinaia di studenti preparati e motivati restituisce fiducia nel futuro. Resta l’inquietante consapevolezza di non avere politici che parlino di questi dati, che affrontino le voragini sociali che rappresentano. Voragini che inghiottono, se non le vite stesse, il senso di quelle vite.
Nel ricordo restano impresse le parole di Fabrizio, che dopo aver partecipato al primo Treno della memoria è tornato ogni anno da volontario dell’associazione. Diventato ingegnere, ci ha spiegato che quel viaggio gli ha “cambiato la prospettiva di vita”: “Ho imparato a sentire la comunità: nello sgomento per ogni negazione dell’umano che ti si palesa a Auschwitz ho sentito il bisogno di avvicinarmi a tutti coloro che come me rifiutano tutto ciò, con altre persone che rigettano qualunque logica di odio tra esseri umani”. Sono parole che ci sembrano “dure” come le parole di quella scritta: “Arbeit macht frei“. Ma non è l’imposizione del male a dare loro rigidità, piuttosto è l’opposto: è la fermezza di chi al male non si rassegna.
In questo, nella caparbia volontà di costruire bene, che argini il male, non si è soli, mai. Lo si è ancora meno se non si dimentica chi ha vissuto prima di noi. L’Europa, nella vulgata comune, sembra essere diventata fonte di problemi, il capro espiatorio per assolvere politici nazionali incompetenti. Certamente non mancano le scelte inopportune o sbagliate o insufficienti da parte delle istituzioni europee, ma non si può dimenticare che non rappresentano altro che l’insieme dei capi di stato e di governo che il nostro tempo ha partorito. Si possono e si devono mettere in discussione le leadership, ma pensare, in nome di astratti sovranismi, di distruggere il progetto comune europeo – basato sui principi di pace e di solidarietà – è insensato e terribilmente miope. Non si capisce perché sfide epocali come flussi migratori o scossoni dell’economia dovrebbero essere gestite meglio sgretolando la costruzione europea, lasciando tante piccole barchette nel mare della globalizzazione. I paesi membri dell’Ue condividono una cultura dello stato di diritto e di sistemi democratici che le grandi potenze che si affacciano prepotentemente sullo scenario mondiale – Russia e Cina – non sanno cosa siano. Frammentare le forze europee è suicida.
Piuttosto, l’Europa recupera sana vitalità se ritrova il respiro della dimensione di pensiero e di spirito che era di quanti hanno saputo sognare e progettare un’integrazione di popoli e, dopo la tragedia dei due conflitti mondiali, sono stati capaci di rilanciare sugli individualismi, sulla banalità della litigiosità, sul clamore e il baratro dei proclami vuoti.
Oggi è urgente riflettere su alcune preoccupanti deviazioni dell’attuale discorso politico e mediatico: la semplificazione, la banalizzazione, l’estremizzazione. Imperversano sui social, insieme con espressioni di razzismo, incitazioni all’odio e alla violenza. Deviazioni che sono possibili perché non c’è memoria di quanto sia costato l’abisso dei totalitarismi. Non c’è memoria dello slancio etico che ha portato, proprio in reazione al nazismo e al fascismo, al sogno di unità che ha accomunato poeti e romanzieri, come Salvador De Madariaga o Thomas Eliot, e intellettuali attivisti come Luigi Sturzo, Altiero Spinelli, Paul-Henry Spaak, prima ancora degli statisti che hanno sottoscritto i trattati europei, Schuman, Adenauer, De Gasperi. Negli scritti illuminanti e piacevolissimi di tutti questi giganti della storia ci sono risposte alle domande di Auschwitz.
Non si può buttare via la memoria della Shoah né l’antidoto al razzismo. Non si deve lasciare spazio né al negazionismo né alle forze distruttrici che attentano ai sistemi democratici che abbiamo costruito a baluardo. Nella visionarietà di questi pensatori, si ritrova la responsabilità di riscoprire la dignità dell’uomo persona, e non solo cittadino o soggetto economico. Una battaglia da fare uniti come vecchio continente, culla del pensiero filosofico-cristiano che ha regalato al mondo il concetto di dignità di persona, di diritti, di stato di diritto. I limiti tangibili dell’Ue non possono offuscare la mente tanto da non capire che la democrazia non è scontata ed è il vero bersaglio di tante fake news. E’ inevitabile che il dibattito si sviluppi ormai sui social network, dove però si amplifica il rischio di parlare troppo e di valutare troppo poco.
De Madariaga, che definiva l’Europa “cristiana nella volontà e socratica nella mente”, la vedeva “destinata a cercare, attraverso le sue numerose vicissitudini, quella libertà di indagine senza la quale la mente non può lavorare più di quanto i polmoni possono respirare senza l’aria”. Perché non si torni a pensare qualcosa di simile a Auschwitz, non servono gli slogan, ma serve ritrovare il cielo, spazio simbolico di queste idealità, di spiritualità religiosa o laica, per il recupero urgente di un orizzonte di bene comune.