Gli Usa: legali gli insediamenti israeliani nei Territori

Le colonie israeliane nei Territori occupati non sono illegali. Il Presidente statunitense Trump cancella così la direzione della politica americana degli ultimi 40 anni sugli insediamenti nei Territori conquistati nella guerra del ’67. Una decisione che suscita il plauso di Israele e la rabbia dei palestinesi

Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

Gli insediamenti israeliani nei territori della Cisgiordania non sono contrari al diritto internazionale. L’amministrazione Trump accantona così l’Hansell Memorandum del 1978 e riscrive il nuovo indirizzo della politica della Casa Bianca nei confronti di Israele. L’annuncio, fatto dal segretario di stato Mike Pompeo,  segna la vittoria per il premier israeliano uscente Netanyahu per il quale  la dichiarazione americana riflette una verità storica, approvazione anche dal premier incaricato Gantz.

La condanna dei palestinesi: decisione inaccettabile

“Nulla, inaccettabile e da condannare”: così viene invece definita la decisione degli americani dal portavoce del Presidente palestinese Abu Mazen, per il quale Washington non è qualificata o autorizzare a cancellare le risoluzioni di legittimità internazionale. Gli Stati Uniti hanno perso credibilità, sottolineano i palestinesi, e non hanno più alcun ruolo nel processo di pace, che per molti è ora seriamente messo a rischio.

L’Ue, gli insediamenti continuano ad essere illegali

La posizione dell’Unione Europea non cambia, precisa da Bruxelles Federica Mogherini, Alto commissario per gli affari esteri e le politiche di sicurezza, che prende le distanze da Washington continuando a ritenere illegali gli insediamenti nei Territori occupati. Questa decisione di Trump arriva dopo una serie di misure statunitensi a favore dello stato ebraico, come il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale, con lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv; la chiusura dell’ufficio dell’Olp a Washington; il riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan.  E’ intanto allerta a Gerusalemme, dove l’ambasciata Usa ha già invitato gli americani presenti nell’area a “mantenere un alto livello di vigilanza”.

Per una riflessione su questo pronunciamento dell’amministrazione Trump, Fausta Speranza ha intervistato Antonello Biagini, pro-rettore dell‘Università La Sapienza con delega per la cooperazione e i rapporti internazionali:

R. – Una posizione vicina a Israele. Ma sappiamo tutti che il problema di questi insediamenti – che erano nati, se vogliamo storicizzare, sulla base di una dottrina di autodifesa dello Stato di Israele quando tutti i Paesi intorno non riconoscevano ed erano avversi allo Stato di Israele -, il processo che si doveva costruire e che alcune amministrazioni anche statunitensi avevano provato a costruire era quello di un dialogo progressivo. E qui rientra quella posizione del Congresso, in un certo senso, di facilitare il processo di pace. Con queste dichiarazioni è chiaro che tutto questo si allontana e rientra probabilmente nell’atteggiamento dell’attuale amministrazione statunitense di essere piuttosto netta e aggressiva nella politica estera.

L’Unione europea ribadisce che tutte le attività di insediamento sono illegali ai sensi del diritto internazionale, è così?

R. – E’ assolutamente corretto perché per il diritto internazionale nessuno può invadere un altro territorio manu militari e costruirci un insediamento che poi sarà sempre più difficile spostare. Non è un meccanismo che avviene in un momento di guerra. L’insediamento significa – il termine stesso lo dice – la volontà di costituire qualcosa che rimanga stabile nel tempo, quindi molto più difficile da rimuovere ove mai si facesse un processo di pace. E l’Unione europea, in questo senso, sicuramente è rispettosa di regole del diritto internazionale e ha una posizione corretta sul piano giuridico, sul piano formale e direi anche sul piano politico.

Da tempo ci si aspetta in questa fase un nuovo piano di pace proposto da Washington. Questa presa di posizione di Trump potrebbe essere una sorta di strategia di comunicazione prima di una proposta?

R. – Se diamo conto delle parole che si dicono, con queste premesse – il riconoscimento delle colonie – non sarebbe tecnicamente possibile, perché anzi la decisione allontana ancora di più. Se questa invece è una dichiarazione – come spesso accade ormai in tutta la politica internazionale, dove si fanno dichiarazioni “estremiste” per poi rimodularle nel momento in cui si fa una trattativa – allora è possibile anche che in questo modo l’amministrazione statunitense voglia lanciare un messaggio del tipo: noi continueremo a difendere Israele come abbiamo sempre fatto; se non aderite ad alcune trattative di pace, allora, noi consideriamo quegli insediamenti come perfettamente legali e quegli insediamenti rimarranno a vita. Quindi quello diventa un territorio di Israele. Questo è il problema di una politica estera che ormai viene fatta più sugli annunci che sulla sostanza delle cose… E questo credo sia anche il problema attuale che non riguarda solo gli Stati Uniti, ovviamente, ma particolarmente gli Stati Uniti. Teniamo conto di un’altra cosa. Gli Stati Uniti non sono più l’unico gestore della politica mondiale. Non lo sono più a livello economico, per esempio; lo sono in buona parte ancora a livello militare perché conservano una potenza militare di tutto rispetto ma non hanno più quell’influenza sulla politica mondiale come l’avevano fino agli anni ’90, 2000. Però, certo, con questi presupposti diventa anche un po’ difficile immaginare che si vada alla costituzione di un nuovo Stato mentre rimangono aperti questi problemi. Inoltre, intanto ci sono gli avvenimenti degli ultimi giorni, missili sparati da Gaza, la reazione israeliana… O sono ultime “scaramucce” – diciamo – prima che inizi un vero processo di pace, oppure temo che invece sia un aumentare l’area di crisi che rende ancora più difficile un processo di pace.

Hong Kong: ancora scontri e proteste degli studenti

Non si ferma il braccio di ferro tra forze dell’ordine e studenti. Il capo esecutivo Carrie Lam esclude l’intervento dell’esercito cinese mentre Pechino rivendica l’autorità esclusiva sulle questioni costituzionali di Hong Kong

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Gli scontri dei manifestanti con la polizia di Hong Kong sono andati avanti fino a tarda notte intorno ai punti d’accesso al Politecnico dove sono rimasti arroccati circa 700 studenti per la seconda notte di fila. Un’altra giornata di caos si è chiusa con l’ipotesi di un blitz delle forze dell’ordine dopo quello tentato senza successo all’alba di lunedì. “Non c’è la necessità di chiedere aiuto all’Esercito di liberazione popolare, le forze armate di Pechino, fino a quando le autorità di Hong Kong riusciranno a gestire la situazione”. E’ questa la posizione ribadita in conferenza stampa questa mattina da Carrie Lam. Il capo esecutivo ha invitato i cittadini a “non dare interpretazioni eccessive” al gesto dei soldati cinesi che sabato hanno aiutato a rimuovere mattoni e detriti dalle strade. Lam lo ha definito un gesto “non inconsueto”.

Pechino rivendica l’autorità esclusiva sulle questioni costituzionali di Hong Kong

Intanto, la Cina rivendica l’autorità esclusiva sulle questioni costituzionali di Hong Kong. E lo fa a proposito del divieto di indossare le maschere in pubblico, varato lo scorso mese per frenare le manifestazioni di massa e condannato ieri dall’Alta corte dell’ex colonia britannica. Precisamente il portavoce della Commissione Affari legislativi di Pechino ha affermato che “nessun’altra istituzione ha il diritto di giudicare o di prendere decisioni se non il Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo”.
L’Alta Corte di Hong Kong ha dichiarato l’incostituzionalità del divieto dell’uso delle maschere nelle manifestazioni voluto a ottobre da Carrie Lam che ha fatto leva sulla legislazione di emergenza. La sentenza ha fissato la sua “incompatibilità con la Basic Law”, la Costituzione locale, in risposta al ricorso promosso da 24 parlamentari. Il segretario per gli Affari costituzionali Patrick Nip ha ventilato l’ipotesi di rinviare le elezioni locali distrettuali del 24 novembre: “La situazione ha ridotto ovviamente le chance di poterle tenere come previsto e di questo sono molto preoccupato”.

Gli studenti del campus invitati alla resa

Per i ragazzi che restano asserragliati nel campus la polizia di Hong Kong ha lanciato l’ultimatum nel pomeriggio, dopo la rottura della tregua raggiunta in mattinata con il rettore dell’ateneo Teng Jin-Guang, per la resa incondizionata degli studenti, invitati ad ‘arrendersi’, a deporre le armi e a uscire in modo ordinato. Tutti, ha scandito un portavoce, saranno arrestati perché “sospettati di rivolta”. Il segretario alla Sicurezza dell’ex colonia britannica John Lee ha inviato all’interno del campus un team medico della Croce Rossa per soccorrere i feriti, mentre assistenti sociali e psicologi sono intervenuti per convincere i minori a mollare. Secondo le ultime cifre circolate nella notte, la polizia avrebbe eseguito in un giorno oltre 400 arresti, di cui molti fuori dall’Hotel Icon su Science Museum Road, vicino al PolyU.

Usa e Ue invitano le parti alla moderazione

Gli Stati Uniti hanno condannato l’uso della forza ingiustificato e hanno invitato le parti ad astenersi dalla violenza a favore di un dialogo costruttivo. Un invito alle parti alla moderazione, senza “l’inaccettabile violenza e l’uso della forza”, è arrivato dall’Unione Europea. Il governo britannico ha ribadito la sua grave preoccupazione per “l’escalation delle violenze” da parte dei manifestanti e della polizia. Secondo l’ambasciatore cinese a Londra, Liu Xiaoming, la protesta a Hong Kong non ha ormai “nulla a che fare con la cosiddetta democrazia, ma tende a minare il modello ‘un Paese, due sistemi'”. Abbiamo sufficiente determinazione e potere per mettere fine ai disordini”, ha affermato Liu, tornando a sollecitare il governo britannico, a “non interferire negli affari interni” della Cina.