Questione migrazioni in America Latina alla luce delle proteste

Dal Venezuela al Perù, dalla Colombia al Cile: sono diversi i percorsi dei flussi migratori in America Latina e cresce la preoccupazione per le condizioni di rifugiati e sfollati nella fase attuale di continua esplosione di manifestazioni e disordini in vari paesi di questa area del mondo. Intervista con Alfonso Giordano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Viene definita la Ruta andina: è la rotta migratoria che venezuelani e colombiani seguono fino ad arrivare in Perù, Cile e Argentina. Insieme con le carovane di migliaia di persone che da ottobre 2018 abbiamo visto partire dal Centro America verso il Messico, per raggiungere gli Stati Uniti – salvo impattare con l’irrigidimento della frontiera – fotografano il fenomeno delle migrazioni in America Latina. In questa fase caratterizzata dall’esplodere di proteste e rivendicazioni in un paese dopo l’altro in questa area del mondo, c’è da chiedersi quali conseguenze ci siano o si possano immaginare. Abbiamo intervistato Alfonso Giordano, docente di geopolitica e flussi migratori all’Università Luiss:

R. – Bisogna dire che l’America Latina è sempre stata un luogo di immigrazione.  Diciamo che questo è accaduto più che altro alla fine del Novecento, inizio anni Duemila.  Da qualche anno però è diventata un posto di emigrazione. Solo che fino a qualche anno fa c’erano alcune mete che garantivano una certa circolarità di queste migrazioni in altri Paesi Latinoamericani e negli Stati Uniti e per quanto riguarda l’ex madre patria, in Spagna in particolare. Ora l’Europa per i latinoamericani non è più tra le mete preferite; gli Stati Uniti hanno un po’ serrato i cancelli e naturalmente i flussi migratori si sono rivolti verso altri Paesi Latinoamericani, in particolare il Brasile, l’Argentina e il Cile che però, a loro volta, hanno anche altre problematiche interne dovute anche a politiche degli ultimi anni che non hanno portato ottimi risultati. Circa il cinque percento dei 650 milioni di abitanti – quindi una trentina di milioni di persone – sono emigrate in altri posti rispetto al Paese natale. È un numero grande se si tiene conto che la media al mondo è del tre percento e che soprattutto, ad esempio, dall’Africa sono partite ugualmente una trentina di milioni di persone ma in Africa vivono circa un miliardo di persone. In America Latina siamo a 650 milioni. Quindi diciamo che la migrazione è aumentata negli ultimi dieci anni di circa il 40 percento.

Ci definisce i flussi principali?

Abbiamo tre flussi principali. Il primo flusso è quello all’interno dello stesso continente, una specie di mobilità circolare. Il Cile ad esempio è una delle mete preferite, anche se il Cile stesso sta avendo problemi interni. Poi c’è un altro flusso che riguarda il Centro America, Paesi come Honduras, Salvador, Guatemala, che hanno in realtà situazioni di estrema violenza, per cui queste sono persone che più che da condizioni di povertà o di crisi economica scappano da condizioni di violenza. Il terzo tipo di flusso riguarda un solo Paese in particolare che è il Venezuela, che ultimante ha registrato veramente un’impennata di migrazioni. Si calcola che ci siano almeno quattro- cinque milioni di persone che sono uscite da Paese. D’altra parte, più o meno il 90 percento della popolazione si trova in condizioni di povertà o comunque di insicurezza alimentare. Quindi, questo significa che c’è una polveriera ancora nel Paese malgrado la fuoriuscita di oltre quattro milioni di persone che in genere hanno trovato rifugio in Colombia, in Messico o negli Stati Uniti. In realtà la questione è ancora aperta. In ogni caso, i flussi come dicevo sono tre: circolare, all’interno che rientra un po’ nella normalità di quell’area geografica, cioè attrazione verso Paesi che stanno un po’ meglio, che sono più ricchi; un altro flusso che riguarda situazioni di violenza dal Centro America e il flusso, quello venezuelano, per le note vicende, come il calo del petrolio con la crisi economica e politiche economiche sbagliate dagli ultimi governi che hanno ridotto la popolazione in condizioni di povertà e insicurezza alimentare.

R. – Certo. Questo, per esempio, è ciò che sta accadendo in Venezuela, perché alcuni migranti si sono rivolti in un primo momento verso la Colombia e il Perù; altri adesso stanno transitando verso il Messico. Ma la cosa paradossale è che si scappa spesso da condizioni problematiche dove ci sono anche questioni di narcotraffico per arrivare in altri posti dove la situazione non è certo migliore. Insomma, c’è la differenza anche legata a quello che accade nel Mediterraneo dove tutto sommato chi riesce arriva in Europa. Lì invece con la chiusura anche di Trump alla migrazione – una specie di serrate le armi, i portoni – molta gente si trova a ricircolare in situazioni che non sono tra le migliori. Quindi un cambiamento di percorsi c’è e riguarda soprattutto la parte Nord del Sud America verso il Centro America, quindi Caraibi e Messico.

Ha citato il Messico, un Paese già in affanno per la questione migrazione, stretto tra il Centro America e gli Stati Uniti. Dobbiamo immaginare che si moltiplicheranno i problemi per il Paese?

R. – È probabile. Il Messico ha vissuto negli anni scorsi un momento di prosperità economica che in un certo senso ha un po’ frenato le migrazioni messicane verso gli Stati Uniti e lo stesso Messico era diventato un po’ un Paese di passaggio, un po’ quella che è la funzione dell’Italia nel Mediterraneo. In realtà, le condizioni economiche stanno nuovamente peggiorando e soprattutto l’essersi trovato tra la chiusura a Nord con gli Stati Uniti e questi flussi che gli arrivano dal Sud aggrava naturalmente la condizione messicana.

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