Crisi venezuelana e organismi internazionali

Si intensifica il dialogo tra diversi Paesi delle Americhe sulla crisi in Venezuela. Tra i diversi ambiti di discussione, c’è il Trattato interamericano di assistenza reciproca (Tiar) che ospita tra gli altri anche il rappresentante degli Stati Uniti. Una presenza e un dibattito fortemente contestati da Maduro. Intervista con Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Condanna e pressioni sul presidente del Venezuela, Nicolàs Maduro: i Paesi membri del Trattato interamericano di reciproca assistenza (Tiar), riuniti ieri a Bogotà, a livello dei ministri degli esteri,  hanno stabilito sanzioni finanziarie e restrizioni di viaggio per una serie iniziale di “persone associate” al governo di Caracas. I delegati  hanno anche rinnovato l’appello  ai “rappresentanti permanenti” presso l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) affinché continuino a seguire la situazione di crisi sociale, politica ed economica  del Venezuela assicurando “raccomandazioni”.

Diversi i tavoli di confronto regionali

Il Presidente eletto dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha reso noto  che il suo governo, che si insedierà in marzo 2020, abbandonerà il Meccanismo di Montevideo, messo a punto a febbraio con il Messico per contribuire alla soluzione della crisi in Venezuela.  Come tavolo di discussione della crisi venezuelana c’è anche il Gruppo di Lima, che riunisce periodicamente diversi Paesi dell’area più il Canada.  A Lima non partecipano gli Stati Uniti che invece fanno parte in queste ore del dibattito nella capitale della Colombia, tra rappresentanti di Argentina, Brasile, Cile, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Trinidad e Tobago, e un delegato dell’opposizione venezuelana.

Il ruolo dell’Osa

Al di là dei diversi organismi, potrebbe giocare un ruolo importante l’Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Per capire il margine possibile di interventi, abbiamo intervistato Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss:

Ascolta l’intervista con Francesco Cherubini

R. – Probabilmente serviranno degli interventi un po’ più incisivi rispetto a quelli iniziali con i quali si approccia normalmente un’organizzazione internazionale come l’Osa.

Può fare alcuni esempi, professore?

R. – Già che si muovano i meccanismi più soft che sono legati al rispetto sia della Convenzione americana di diritti dell’uomo sia alla Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo – sono due strumenti diversi che ruotano attorno alla commissione dell’Osa – già sarebbe un passo più importante, più rumoroso, per così dire nei confronti di questi Stati. Arrivo a dire anche l’espulsione che è prevista nello Statuto ma che – questa è la preoccupazione delle organizzazioni in questo caso – potrebbe  addirittura contribuire a estremizzare di più la situazione. Lo Stato messo all’angolo, o addirittura espulso, a questo punto si sente di avere le mani più libere di quanto non le aveva in precedenza. Quindi le organizzazioni si muovono sempre su un territorio delicatissimo, perché un’azione blanda probabilmente sarebbe percepita dallo Stato, o dagli Stati in questione, come qualcosa alla quale si può tranquillamente non dare seguito. Però un’azione più incisiva potrebbe avere un effetto peggiorativo della situazione. Quindi è sempre molto difficile; è un equilibrio sempre molto delicato. Escludo possano essere messi in moto meccanismi proprio ad hoc, quelli pensati a questo scopo che sono appunto la Commissione e la Corte dell’Osa. In genere, in questi casi c’è un’opera diplomatica che viene svolta dall’organizzazione internazionale per riportare gli Stati in questione a più miti consigli ed è auspicabile che questo avvenga nell’organizzazione regionale che è più vicina agli Stati problematici. Non è detto, non è escluso, che si possano mettere in moto anche i meccanismi generali che sono quelli che trovano posto nelle Nazioni Unite. Lì la massima autorità – quella che detiene anche i poteri più penetranti anche in relazione ormai da tempo alla difesa dei diritti umani – è il Consiglio di sicurezza, però è sempre vero che di fronte a questi eventi, le dinamiche politiche, diplomatiche all’interno delle organizzazioni sono sempre molto delicate. Quindi non è detto che di fronte a tutto ciò la risposta delle organizzazioni sia quella che ci si attenderebbe. Potrebbe essere magari una risposta più flessibile all’inizio che poi diventa più rigida, senza utilizzare strumenti che pure avrebbe a disposizione e che comportano, come dicevo, fino all’espulsione dello Stato in questione. Nell’Osa questo vale anche per altro. Più facilmente si possono immaginare trattative di carattere negoziale, diplomatico volte a riportare a più miti consigli gli Stati in questione.

In America Latina si protesta contro il carovita, ma soprattutto contro la corruzione e le diseguaglianze. Ci si può aspettare un’azione più strutturale da parte dell’Osa su questi temi?
R. – Non credo. Secondo me, è ancora predominante, almeno in determinate aree, l’efficacia dell’azione di alcuni Stati verso altri Stati. Certo qui l’estensione è notevole, quindi non è escluso che possano esserci interventi diversi dell’Osa, per esempio, o come dicevo in precedenza, delle Nazioni Unite. Non è episodico e non riguarda soltanto uno Stato. Quindi è certamente possibile, però anche l’Osa si deve muovere su un terreno non strettamente legato ai meccanismi di controllo perché questi sono una cosa diversa; tra l’altro sono stati pensati più probabilmente per le violazioni individuali che non per quelle sistemiche, anche se non è escluso possano riguardare anche queste.

Nuove sanzioni al Venezuela mentre la popolazione è allo stremo

I Paesi del Trattato interamericano di reciproca assistenza (Tiar) impongono nuove sanzioni a Nicolás Maduro in Venezuela, mentre respingono le recenti accuse rivolte contro il presidente del Parlamento venezuelano, Juan Guaidó, accusato di malversazione dei fondi ricevuti per gli aiuti umanitari. Intanto la popolazione è allo stremo. Intervista con Luciano Bozzo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nuova stretta dei Paesi latinoamericani contro il regime di Nicolás Maduro in Venezuela. I membri del Trattato interamericano di reciproca assistenza (Tiar), cioè Panama, Colombia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Cile e Perù, hanno deciso  nuove sanzioni finanziarie e nuove restrizioni di viaggio contro “persone associate” al governo di Maduro, seguendo l’iniziativa intrapresa tempo fa dall’amministrazione di Donald Trump. La misura ha trovato la resistenza del governo di Panama, che si è astenuto durante il voto. Non sono stati ancora forniti i nomi dei 29 funzionari e famigliari del regime che saranno colpiti da queste sanzioni.

Cadute le accuse a Guaidó

Il Tiar ha anche respinto le recenti accuse rivolte contro il presidente del Parlamento venezuelano, Juan Guaidó, accusato di malversazione dei fondi ricevuti per gli aiuti umanitari. Queste denunce hanno fatto crollare la popolarità di Guaidó, dal 63 per cento al 42 per cento, secondo il sondaggio di Datanalisis, a poco meno di un anno dalla ribellione del 23 gennaio contro il potere di Maduro. Durante la riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi del Tiar, si è disposto che nei riguardi di queste persone (legate a Maduro) “l’attivazione dei meccanismi di cooperazione e delle procedure necessarie, in sintonia con le legislazioni nazionali e i meccanismi esistenti di cooperazione in materia d’intelligence finanziaria”. Intanto la popolazione è allo stremo mentre è stallo sul piano politico, come conferma  Luciano Bozzo, docente di Studi strategici all’Università di Firenze:

Ascolta l’intervista con Luciano Bozzo

R. – Il Venezuela ha cercato di bypassare, anche recentemente, quelle sanzioni e questi limiti, in particolare utilizzando dei conti che ha aperto nella Repubblica popolare cinese con la quale più di 10 anni fa è stato stabilito un accordo per cui il petrolio veniva venduto ai cinesi e quindi acquistato in valuta cinese rimasta poi in questi conti nella Repubblica popolare. Ma la Cina sembra molto prudente sul punto e soprattutto non sembrano entusiaste quelle aziende, quelle ditte che dovrebbero essere pagate in valuta cinese. Se questa situazione economica dovesse peggiorare, diventerebbe preoccupante anche per gli Stati latinoamericani, in particolare quelli vicini.

Che dire del braccio di ferro politico in atto tra Maduro e Guaidó?

R. – Ci si trova adesso in una situazione veramente di stallo, in cui lo stesso Juan Guaidó non ha la forza per provocare un collasso del regime di Maduro con una sollevazione popolare generalizzata. Non credo che questa situazione sia destinata a mutare nel brevissimo termine, anche se sia da parte degli Stati Uniti sia da parte di alcuni portavoce dell’opposizione venezuelana si è dichiarato a più riprese che il Paese è veramente sull’orlo di un profondo cambiamento, di un collasso, di un sollevamento di natura rivoluzionaria – evidentemente – e questo potrebbe avvenire in qualsiasi momento: e questa, tra l’altro, è la speranza dell’attuale amministrazione americana, che tutto vuole meno che impegnarsi militarmente in Venezuela.

Intanto la popolazione è allo stremo …

R. – E’ davvero una popolazione allo stremo: penso che molti venezuelani abbiano davvero perso la speranza. D’altra parte, è anche vero – e non possiamo dimenticarlo – che comunque il regime gode ancora di sostegno – non so quanto diffuso a livello popolare – ma certamente branche importanti dello Stato, a comunicare dalle forze armate, di sicurezza, i servizi eccetera, sostengono Maduro, anche per timore di quelle che potrebbero essere le conseguenze a loro carico di un improvviso crollo del regime. E affianco di queste istituzioni e strutture pubbliche, evidentemente c’è anche una parte della società venezuelana che ha creduto in Maduro, che ha creduto nel sogno neo-bolivariano, che non si identifica con le altre classi sociali, in particolare media, alta borghesia, borghesia cittadina eccetera, che invece chiaramente sono schierate a favore di Juan Guaidó, quindi del cartello delle opposizioni.

 E’ una storia che poteva essere in qualche modo prevista?

R. – Indubbiamente, la crisi venezuelana si trascina da diversi anni, ormai – ormai è un decennio che il Paese in una maniera o nell’altra si trova in una situazione difficile: difficile da un punto di vista politico ma anche, appunto, con quei risvolti sociali ed economici di cui abbiamo parlato. Sicuramente era prevedibile uno o due anni fa, perché non c’erano i segnali per una rapida e pacifica risoluzione del conflitto politico interno. Che cosa poi però si dovesse fare per cercare di evitare quello che sta accadendo è difficile a dirsi perché, ripeto, soprattutto fino a non molto tempo fa il regime comunque godeva di un sostegno popolare.

Diversi i tavoli di confronto regionali

Il Presidente eletto dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha reso noto  che il suo governo, che si insedierà in marzo 2020, abbandonerà il Meccanismo di Montevideo, messo a punto a febbraio con il Messico per contribuire alla soluzione della crisi in Venezuela.  Come tavolo di discussione della crisi venezuelana c’è anche il Gruppo di Lima, che riunisce periodicamente diversi Paesi dell’area più il Canada.  A Lima non partecipano gli Stati Uniti che invece fanno parte in queste ore del dibattito nella capitale della Colombia, tra rappresentanti di Argentina, Brasile, Cile, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Trinidad e Tobago, e un delegato dell’opposizione venezuelana.

Il ruolo dell’Osa

Con il documento del Tiar si chiede ai rappresentanti permanenti dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) di continuare a seguire la crisi venezuelana per formulare nuove raccomandazioni. Perché la situazione in cui si trova il Venezuela – si legge nel testo – non è indifferente ai Paesi della regione perché “rappresenta una minaccia per il mantenimento della pace e della sicurezza nel continente”.  Per capire il margine possibile di interventi, abbiamo intervistato Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss:

Ascolta l’intervista con Francesco Cherubini

R. – Probabilmente serviranno degli interventi un po’ più incisivi rispetto a quelli iniziali con i quali si approccia normalmente un’organizzazione internazionale come l’Osa.

Può fare alcuni esempi, professore?

R. – Già che si muovano i meccanismi più soft che sono legati al rispetto sia della Convenzione americana di diritti dell’uomo sia alla Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo – sono due strumenti diversi che ruotano attorno alla commissione dell’Osa – già sarebbe un passo più importante, più rumoroso, per così dire nei confronti di questi Stati. Arrivo a dire anche l’espulsione che è prevista nello Statuto ma che – questa è la preoccupazione delle organizzazioni in questo caso – potrebbe  addirittura contribuire a estremizzare di più la situazione. Lo Stato messo all’angolo, o addirittura espulso, a questo punto si sente di avere le mani più libere di quanto non le aveva in precedenza. Quindi le organizzazioni si muovono sempre su un territorio delicatissimo, perché un’azione blanda probabilmente sarebbe percepita dallo Stato, o dagli Stati in questione, come qualcosa alla quale si può tranquillamente non dare seguito. Però un’azione più incisiva potrebbe avere un effetto peggiorativo della situazione. Quindi è sempre molto difficile; è un equilibrio sempre molto delicato. Escludo possano essere messi in moto meccanismi proprio ad hoc, quelli pensati a questo scopo che sono appunto la Commissione e la Corte dell’Osa. In genere, in questi casi c’è un’opera diplomatica che viene svolta dall’organizzazione internazionale per riportare gli Stati in questione a più miti consigli ed è auspicabile che questo avvenga nell’organizzazione regionale che è più vicina agli Stati problematici. Non è detto, non è escluso, che si possano mettere in moto anche i meccanismi generali che sono quelli che trovano posto nelle Nazioni Unite. Lì la massima autorità – quella che detiene anche i poteri più penetranti anche in relazione ormai da tempo alla difesa dei diritti umani – è il Consiglio di sicurezza, però è sempre vero che di fronte a questi eventi, le dinamiche politiche, diplomatiche all’interno delle organizzazioni sono sempre molto delicate. Quindi non è detto che di fronte a tutto ciò la risposta delle organizzazioni sia quella che ci si attenderebbe. Potrebbe essere magari una risposta più flessibile all’inizio che poi diventa più rigida, senza utilizzare strumenti che pure avrebbe a disposizione e che comportano, come dicevo, fino all’espulsione dello Stato in questione. Nell’Osa questo vale anche per altro. Più facilmente si possono immaginare trattative di carattere negoziale, diplomatico volte a riportare a più miti consigli gli Stati in questione.

In America Latina si protesta contro il carovita, ma soprattutto contro la corruzione e le diseguaglianze. Ci si può aspettare un’azione più strutturale da parte dell’Osa su questi temi?
R. – Non credo. Secondo me, è ancora predominante, almeno in determinate aree, l’efficacia dell’azione di alcuni Stati verso altri Stati. Certo qui l’estensione è notevole, quindi non è escluso che possano esserci interventi diversi dell’Osa, per esempio, o come dicevo in precedenza, delle Nazioni Unite. Non è episodico e non riguarda soltanto uno Stato. Quindi è certamente possibile, però anche l’Osa si deve muovere su un terreno non strettamente legato ai meccanismi di controllo perché questi sono una cosa diversa; tra l’altro sono stati pensati più probabilmente per le violazioni individuali che non per quelle sistemiche, anche se non è escluso possano riguardare anche queste.

Fino ad ora ci sono state raccomandazioni dell’Osa al Cile e alla Bolivia, oltre che al Venezuela, per il rispetto dei diritti umani dei manifestanti. Hanno trovato terreno fertile?

R. – Non mi pare. I fatti smentiscono un po’ quello che era l’indirizzo dato per l’appunto a questi Stati. Mi pare che sia abbastanza quotidiana la violazione dei diritti – dei vari diritti – dei manifestanti, dei cittadini che scendono in piazza.