Se la pandemia contagia le relazioni internazionali

Intervista di Fausta Speranza a Giuseppe Morabito

Mentre il Covid-19 mette in crisi almeno 210 Paesi e lascia intravedere una prospettiva di perdita del 3 per cento del Pil mondiale, l’Italia, primo tra gli Stati europei a vivere l’emergenza, cerca faticosamente di traghettarsi nella fase 2. Si devono ancora gestire le urgenze sanitarie, ma si deve anche pensare alle imminenti necessità dell’economia, dei lavoratori, delle imprese, cercando di evitare instabilità sociale. E sulla scena mondiale bisogna tenere la rotta. Il coronavirus, infatti, può avere ripercussioni non solo sulle economie, ma anche sulle relazioni internazionali. C’è la questione degli aiuti assicurati dagli Stati Uniti o da altri Paesi all’Italia e ad altri territori, ma ci sono anche gli equilibri geopolitici legati al prezzo del greggio. Per ragionare su questi aspetti, Fausta Speranza ha intervistato il generale Giuseppe Morabito, membro del Consiglio direttivo della Nato Defense College Foundation.


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A mio parere la pandemia da Covid-19 non deve essere utile solo alla propaganda dei regimi autoritari ma deve rivelarsi un asso nella manica dei Paesi democratici. Innanzitutto, una premessa è d’obbligo: gli Stati Uniti sono un alleato storico dell’Italia. Sono stati i principali artefici della “Guerra di Liberazione” e basta andare non lontano da Roma, al Cimitero Americano di Anzio, per ricordarlo. Il piano Marshall per salvare il Paese dalla deriva comunista è opera di Washington. Siamo entrati nella Nato dalla porta principale grazie al loro appoggio e quindi viviamo in pace da più di 70 anni anche e soprattutto grazie agli Usa. Oggi nei giorni di comune crisi per la pandemia, gli Stati Uniti hanno confermato il supporto per l’Italia colpita dal Covid-19 e la Casa Bianca ha annunciato l’avvio dell’operazione di solidarietà. “La Repubblica Italiana – ha dichiarato Trump – uno degli alleati più stretti e di vecchia data, è stata devastata dalla pandemia del virus di Wuhan, che ha già reclamato più di 18.000 vite, portato la maggior parte del sistema sanitario a un passo dal collasso, e minaccia di spingere l’economia italiana verso una profonda recessione”. “Sebbene la prima e più importante responsabilità del governo degli Stati Uniti sia nei riguardi del popolo americano – continua il documento – andremo in aiuto dell’Italia per sconfiggere l’epidemia di Covid-19 e mitigare l’impatto della crisi, mostrando allo stesso tempo la leadership degli Usa davanti alle campagne di disinformazione cinese e russe, riducendo il rischio di una nuova infezione dall’Europa verso gli Stati Uniti”. Le campagne solidali di Pechino e Mosca in Italia culla della democrazia sono state accompagnate da una non indifferente ventata di propaganda. Nelle ultime due settimane si erano moltiplicate le manifestazioni di vicinanza di Washington all’Italia soprattutto indirizzate al Nord del Paese. La fase operativa ha determinato una mobilitazione della macchina di aiuti che è semplicemente impareggiabile. Da quando il 13 marzo scorso un aereo cinese carico di forniture mediche ed esperti è arrivato in Italia seguito dal team di esperti militari russi, il numero dei morti in Italia e in Spagna ha superato ormai abbondantemente quelli dichiarati dalla Cina. La campagna propagandistica ha previsto anche uno spot in cui l’uomo più ricco della Cina, Jack Ma, distribuisce due milioni di maschere in diversi Paesi europei, tra i quali Spagna, Italia, Belgio e Francia. Pechino, inoltre, ha anche contrastato Taiwan che sta rafforzando la propria immagine a livello internazionale mostrandosi quale esempio virtuoso nella gestione dell’emergenza sanitaria, nonostante la narrazione cinese volta a screditare il governo di Taipei e il suo successo riscontrato nel contenere la diffusione del virus. In particolare una campagna ostruzionistica sta contrastando anche l’arrivo degli aiuti di Taipei a Roma.
Il Cremlino sta gestendo l’aiuto umanitario all’Italia attraverso la sua struttura militare. Sono stati mandati degli aerei cargo, diversi medici dei reparti specializzati dell’esercito, unità mobili per il contenimento delle minacce batteriologiche, mezzi per la sanificazione del suolo e poi un numero imprecisato di militari specializzati. Un’ottima attività di propaganda.
E’ logico aspettarsi aiuti e sarebbe sciocco non accettarli da chi ti ha danneggiato ritardando le campagne d’informazione dell’organizzazione Mondiale della Sanità (la Cina Popolare), comprensibile accettare supporto da chi ci sta danneggiando in Libia sostenendo il ribelle Al Serraj e mettendo a rischio, ad esempio, il futuro energetico nazionale (la Russia). Sarebbe comunque criminale e stupido non mettere in prima linea e in luce la grande dimostrazione di amicizia dell’alleato democratico di sempre.
La pandemia da Covid 19 rappresenta un terremoto per i sistemi sanitari dei vari Paesi coinvolti e uno tsunami per l’economia. Ovviamente tutto questo ha un peso sugli equilibri geopolitici. Nelle scorse settimane, l’attenzione a livello di relazioni internazionali è stata catturata dalla questione petrolio. Il prezzo del greggio ha avuto significative oscillazioni, dopo anni in cui ci ha abituato a ridimensionarne il valore sul mercato. Abbiamo assistito al braccio di ferro tra Arabia Saudita e Russia, ma la partita non si limita a questi giocatori: tra i protagonisti ci sono gli Stati Uniti e poi ci sono tanti altri Paesi coinvolti…

La scorsa settimana l’Arabia Saudita e la Russia hanno concordato un taglio alla produzione di petrolio, l’Ue ha annunciato misure economiche di emergenza per combattere l’impatto del coronavirus ed è iniziato il cessate-il-fuoco per i combattimenti che il governo saudita conduce nello Yemen. L’Arabia Saudita e la Russia hanno concordato di ridurre la produzione di petrolio di 10 milioni di barili al giorno a seguito di una riunione dei Paesi produttori di petrolio dell’Opec Plus e l’accordo prevede una riduzione di 5 milioni di barili al giorno tra l’Arabia Saudita e la Russia, mentre gli altri 5 milioni di tagli vengono effettuati dagli altri paesi dell’Opec. I tagli verranno gradualmente eliminati a scalare con termine nell’aprile 2022. Gli occhi si sono poi rivolti alla riunione dei ministri dell’energia del G-20, in cui, tra gli altri, gli Stati Uniti e il Canada sono stati chiamati a partecipare alla riduzione della produzione di ulteriori 5 milioni di barili al giorno. In particolare, l’intervento degli Stati Uniti, nel ruolo di mediatore nel mercato petrolifero, ha consentito di portare a casa un accordo difficilissimo fra i produttori dell’Opec ed i membri “esterni”. Il Messico ha cercato di far saltare l’accordo Opec Plus, non accettando di tagliare la quota di pertinenza di 300-400.000 barili. Ma un colloquio fra il presidente statunitense, Donald Trump, ed il presidente messicano, Andres Manuel Lopez Obrador, alla fine, ha consentito di portare a casa un compromesso: il Messico taglierà la propria produzione di 100.000 barili ed un taglio di ulteriori 250.000 barili sarà a carico degli Usa, che pure si sono impegnati a ridurre l’output per la porzione di loro competenza, in aggiunta alla riduzione accettata dall’Arabia Saudita e dalla Russia.

In sostanza, qual è stato il pronunciamento del G20 al quale si è arrivati con l’accordo tra Mosca e Riad?

Al G20 dei ministri dell’Energia, dunque, è stato sancito l’accordo che sembra aver soddisfatto tutti “per sostenere la ripresa economica globale e salvaguardare i mercati dell’energia”. Tutti i componenti si impegnano a “lavorare insieme per sviluppare risposte collaborative, che garantiranno la stabilità del mercato in tutte le fonti energetiche, tenendo conto della situazione di ciascun Paese”. “Ci impegniamo a prendere tutte le misure necessarie – assicura lo statement – per garantire l’equilibrio degli interessi tra produttori e consumatori, la sicurezza dei sistemi energetici ed il flusso ininterrotto di energia. Nel fare ciò, siamo particolarmente consapevoli della necessità di garantire che la salute e altri settori che guidano la lotta contro il Covid-19 dispongano delle forniture energetiche di cui hanno bisogno”.

In che modo la Russia ha gestito il suo confronto sui prezzi con l’Arabia Saudita? Quali sono le prospettive dei due grandi Paesi produttori?

La Russia non bene, a mio parere. La contrapposizione di circa un mese con l’Arabia Saudita mostra quanto la Russia abbia esagerato nel forzare la mano in Medio Oriente e un possibile esito di questo contrasto potrebbe configurarsi con la fine dell’ipotesi che Mosca svolga un ruolo significativo nello stabilire un nuovo ordine regionale in un prossimo futuro. La premessa è che, in questo periodo, la Russia ha una situazione finanziaria migliore dell’Arabia Saudita, in particolare con un tasso di cambio flessibile – poiché il rublo si deprezza, il valore delle sue esportazioni aumenta. Senza l’accordo raggiunto avrebbe perso anche miliardi di dollari di entrate con il calo dei prezzi del petrolio, il governo ha un deficit fiscale molto più basso dell’Arabia Saudita e ha più di 500 miliardi di dollari di riserve estere. La monarchia saudita è la guida dell’area spirituale ed economica del mondo arabo e del Medio Oriente e, anche se ha raggiunto un accordo in extremis, non dimenticherà facilmente lo “sgarbo” subito.

Che dire della questione petrolio vista dall’interno dell’Arabia Saudita?

L’Arabia Saudita ha ancora riserve di valuta estera di 500 miliardi di dollari, ma tale “tesoretto” si è ridotto dai 740 miliardi nel 2013. Molti anni di prezzi bassi del petrolio hanno costretto il regno a prendere in prestito denaro e ridurre i sussidi energetici per i suoi cittadini. Il principe ereditario Mohammed bin Salman ora conta sulle sue riserve per aiutare a diversificare l’economia saudita per il futuro e pare sia stato costretto dagli eventi a rivedere la posizione nella guerra in Yemen. Ricordo che in Yemen si combatte una guerra tra il governo del presidente Hadi sostenuto dall’Arabia Saudita, e riconosciuto dalla comunità internazionale, e i ribelli houthi, finanziati e armati dall’Iran. Faticosamente ora è in atto un cessate-il-fuoco ma, non è ancora chiaro se gli houthi accetteranno l’arresto delle ostilità. L’Arabia Saudita, ad oggi, ha ragione a dare la priorità a una soluzione politica che includa una soluzione bilaterale di termini con gli Houthi. L’alternativa potrebbe essere un “fatto compiuto” attraverso una serie di vittorie militari degli houthi che avanzano sempre di più, a sfavore delle già deboli forze governative di Hadi.

E la prospettiva dall’interno per la Russia?

La Russia ha una capacità di lavorazione limitata e le sue raffinerie hanno strutture di stoccaggio insufficienti. Si affida a lunghi oleodotti per portare il suo petrolio agli acquirenti europei e asiatici. La domanda europea è crollata e i serbatoi di stoccaggio della Russia si stanno rapidamente riempiendo e la Cina sta ancora acquistando petrolio, a prezzi stracciati, ma la sua capacita di stoccaggio sarà completa tra un mese circa, lasciando il greggio russo bloccato. Con migliaia di pozzi di petrolio e gas dell’era sovietica nella Siberia occidentale, la Russia si troverebbe di fronte alla prospettiva di chiudere e poi far ripartire i pozzi, una soluzione costosa e tale processo potrebbe limitare permanentemente la quantità di petrolio da distribuire sulla rete internazionale in futuro. Tutto è in divenire e i prossimi giorni saranno importanti.

In definitiva quale prospettiva intravedere su scala mondiale?

Con così tanti consumatori mondiali di petrolio chiusi in casa a causa delle rigide misure del coronavirus, anche un taglio di 15 milioni di barili nella produzione giornaliera sarebbe probabilmente insufficiente a compensare il calo della domanda. I consumi sono diminuiti così rapidamente che potrebbero passare mesi prima che tornino al livello di 100 milioni di barili al giorno raggiunto nel 2019.

Ricordiamo cosa ha significato nel recente passato il crollo del prezzo del petrolio per un Paese come il Venezuela e dunque per gli equilibri in America Latina?

La guerra dei prezzi tra i produttori mondiali di petrolio ha ridotto le entrate del Venezuela per le sue maggiori esportazioni e ha esacerbato la crisi finanziaria del Paese. La guerra dei prezzi acuisce la crisi economica della nazione sudamericana mentre affronta la pandemia da coronavirus. Più del 90 per cento delle entrate delle esportazioni venezuelane proviene dal petrolio. Il Paese rischia, quest’anno, di avere un budget petrolifero di 8 miliardi di dollari, che è solo un terzo dei 25 miliardi realizzati nel 2019. Tre settimane fa, il presidente Nicolàs Maduro ha definito il crollo del mercato petrolifero un “colpo brutale” che ha fatto scendere il prezzo al di sotto del costo di produzione. La scorsa settimana la produzione del Venezuela è scesa sotto i 700.000 barili al giorno. Il settore petrolifero ha affrontato anni di investimenti insufficienti e le sanzioni degli Stati Uniti hanno limitato l’accesso della compagnia petrolifera statale ai finanziamenti internazionali e gli hanno impedito di commercializzare il greggio negli Stati Uniti. La compagnia petrolifera russa Rosneft, che aveva commercializzato la maggior parte del petrolio venezuelano nel mercato asiatico, la scorsa settimana ha annunciato che le sue attività nel Paese sarebbero state rilevate da un’altra compagnia russa. Questi cambiamenti e un calo della domanda mondiale di petrolio a causa della pandemia hanno messo in crisi il Venezuela in un momento in cui avrebbe bisogno di vendere ancora un maggior numero di barili di greggio. L’anno scorso Maduro ha ridotto i controlli sull’economia che hanno permesso alle aziende e ai privati di operare con maggiore libertà. Il Fondo monetario internazionale, a marzo, ha respinto una richiesta di 5 miliardi di dollari e funzionari del governo hanno contattato le banche cinesi in cerca di sostegno. Nel 2019, il Venezuela ha importato circa 550 milioni di dollari in cibo e ora deve rinegoziare il debito con Cina e Russia. Maduro dovrà anche ridurre le importazioni di beni essenziali dopo che, a differenza di altri governi della regione, ha evitato di esentare dal pagamento delle tasse le società e le imprese chiuse durante la quarantena da Covid 19 e ha anche razionato la benzina, provvedimento che ostacola la distribuzione del cibo al suo stesso popolo. E’ probabile che il “virus di Wuhan” sarà letale per tutto il Venezuela e soprattutto per il suo governo comunista.
Anche in Africa le ripercussioni su Paesi come Nigeria e Senegal si sono fatte sentire pesantemente…
La Nigeria è pronta ad affrontare una grave perdita di entrate. Gli analisti prevedono che il Ghana avrà metà delle entrate previste. In Camerun si prevede un calo del tre percento nella crescita economica. Questi sono solo esempi di come i Paesi africani produttori petroliferi sono stati e saranno tra i più duramente colpiti dalla pandemia di COVID-19 e dal calo del prezzo del petrolio. In particolare, Senegal, Nigeria e Angola continuano ad affrontare ogni giorno nuove sfide a seguito della crisi economica. In un’intervista a inizio marzo a VaticanNews avevo “predetto” una gravissima crisi sanitaria in Africa e ora a questa si aggiunge quella economica.
Il Senegal, da quando è stato scoperto petrolio e gas nel 2014, è emerso come uno dei principali attori dell’industria petrolifera e del gas. Di conseguenza, il Paese ha goduto di grandi investimenti stranieri e l’ingresso d’importanti partner internazionali. Tuttavia, la turbolenza del mercato globale ha avuto un duro effetto a catena sul promettente futuro petrolifero del Senegal. In particolare, il primo sviluppo petrolifero del Paese, il progetto offshore Sangomar da 4,2 miliardi di dollari ha subito un’enorme flessione poiché non si riesce a vedere finalizzati gli accordi sul debito. Comunque sia, il Senegal è senza dubbio uno dei produttori di petrolio e gas più promettenti dell’Africa. Guidato dal Presidente Macky Sall, il Paese è pronto per una nuova crescita e per investimenti nonostante ciò che sta accadendo nel mercato globale. Vi sono concrete speranze di vedere buoni risultati dallo sfruttamento del giacimento petrolifero Sangomar e del primo gas dal progetto GNL Greater Tortue.
Per la Nigeria ci sono altri rischi?

La riduzione del prezzo del petrolio creerà enormi problemi per la Nigeria che è il più grande produttore di petrolio dell’Africa. Mele Kyari, amministratore delegato della Nigerian National Petroleum Corporation, ha dichiarato che a un prezzo del greggio di 22 dollari al barile, i produttori di petrolio ad alto costo come la Nigeria dovrebbero considerarsi fuori dal mercato. Gli esperti hanno previsto che il coronavirus avrebbe causato al Paese le maggiori perdite nel continente con 15,4 miliardi di dollari, pari a circa il 4 per cento del PIL nazionale, una valutazione equa considerando che il Paese ha oltre 58 miliardi di dollari in progetti petroliferi e rischia di subire ritardi o cancellazioni. La sua produzione petrolifera contribuisce generosamente alla sua economia. In particolare, l’agenzia del petrolio del Paese ha ordinato alle compagnie petrolifere e a quelle del gas di ridurre la propria forza lavoro offshore e passare alle rotazioni del personale di 28 giorni al fine di evitare la diffusione del coronavirus. Il governo del Paese è convinto che, anche se è difficile vedere la luce in fondo al tunnel, con l’impegno di aziende e resilienza del governo, la Nigeria possa certamente resistere nel medio tempo alla tempesta causata dal Covid-19. Se non ci saranno opportune misure di tutela dei confini, la crisi in Nigeria porterà a maggiore immigrazione clandestina di nigeriani verso l’Italia e, conseguentemente, un “rinforzo” delle compagini di mafiosi nigeriani che già numerosi creano problemi nelle nostre città concorrendo al mercato della droga e alla criminalità in genere. La mafia nigeriana con la sua violenza e crudeltà è un grave pericolo.

on line il 16 Aprile 2020  su MeridianoItalia.tv

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