dentro l’inserto mensile “Donne Chiesa Mondo””
di FAUSTA SPERANZA
«Hanno ucciso mia madre davanti ai miei occhi ma non hanno cancellato i suoi insegnamenti di bene»: così Nadia Murad ha iniziato a raccontarci la sua esperienza di drammatico contatto con gli uomini del sedicente stato islamico (Is). La giovane yazida, come altre centinaia di ragazze appartenenti alla stessa minoranza, è stata resa “schiava del sesso”. Una condizione patita dalle donne che aggiunge orrore alla campagna di omicidi di massa, sequestri, spettacolari esecuzioni, conversioni forzate di cui si sono macchiati i miliziani dell’Is tra il 2014 e il 2017 in un territorio tra Iraq e Siria. Ma se non riusciamo a dimenticare gli occhi di Nadia, dopo una conversazione tanto grave quanto luminosa, è per la forza straordinaria che l’ha guidata fino al Premio Nobel per la pace e soprattutto per la solidità della sua fede nel bene. Abbiamo incontrato la prima volta Nadia a Strasburgo, dove aveva ricevuto sostegno dal Parlamento europeo dopo la fuga dall’Iraq e l’arrivo in Germania. Non aveva ancora recuperato il sorriso e la pienezza che ora vive anche grazie all’uomo che ha accanto e che condivide il suo impegno — sempre costante — contro la tratta degli esseri umani. Le è valso il Premio Sacharov nel 2016 e il Nobel nel 2018.
La famiglia di Nadia viveva a Kocho, un villaggio vicino alla città di Sinjar, nel nord dell’Iraq, a poca distanza dal confine siriano, quando il 3 agosto del 2014 uomini armati hanno portato l’orrore: hanno trucidato gli uomini, hanno catturato i bambini e le donne, e le hanno passate in rassegna uccidendo quelle che non avrebbero reso soldi al mercato delle schiave del sesso. Le più giovani sono state messe a disposizione dei miliziani a Mosul. Ha significato subito una violenza di gruppo per piegare qualunque resistenza e che — ci ha raccontato Nadia — si ripeteva in caso di tentativo di fuga o di ribellione. Nello sguardo di Nadia sopravvive un’eco del terrore, del dolore, del disgusto, del senso di impotenza provati negli otto lunghissimi mesi di prigionia, prima di riuscire a scappare.
Nadia, aiutata da una famiglia irachena dopo essersi allontanata di nascosto dalla casa dell’uomo che l’aveva comprata, avrebbe voluto  dimenticare, ma continua a denunciare: «Il potere dell’Is è passato ma in qualche parte del mondo ci sono ragazzine vendute, scambiate come merci e io, che so cosa significa, non posso tacere». Dice: «Bisogna prevenire ogni forma di razzismo, che io invece vedo crescere ovunque.
E i rischi sono due: il radicalismo e il terrorismo da una parte, ma anche possibili risposte sbagliate a tutto ciò, dall’altra parte». Una consapevolezza precisa, oltre i problemi dell’Iraq, al di là delle vicende della fede yazida antica di 4000 anni o del popolo curdo tra i quali è diffusa; prescinde anche dalla cronaca recente degli ultimi sviluppi nei territori ancora sotto i raid in Siria. La conversazione ha consentito una certa confidenza, e così ci siamo ritrovate sedute su un divanetto a cinque posti rotondo in quelle La yazida schiava del sesso dell’Is premio Nobel per la pace: «Nel mondo ci sono ancora ragazze vendute e scambiate come merci» aree che permettono l’isolamento acustico nei pressi dell’emiciclo dell’Europarlamento, dove si muovono politici e giornalisti. Quasi una zona protetta da altri sguardi e altre orecchie. Nadia ci ha parlato del sorriso di sua madre: «Lei è sempre stata una persona piena di rispetto per tutti e mi ha educato all’amore e al bene, mi ha insegnato a pregare. Queste cose l’Is non ha potuto distruggerle». Questa ragazza minuta non può dimenticare «le tante ragazzine in mano all’Is che appena hanno potuto si sono tolte la vita, perché non ce l’hanno fatta a sostenere tanto strazio». Ci ha confidato: «Io non ho mai pensato di uccidermi. Più il male mi toccava e più risentivo in me tutti gli insegnamenti di mia madre e della mia gente, ma soprattutto la forza di Dio che mai mi ha abbandonata. Più il male mi toccava, più trovavo il bene dentro di me.»
Per questo la storia di Nadia non è più un’esperienza, si è fatta testimonianza.

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