di Fausta Speranza
Uno shock senza precedenti dalla Grande Depressione, ma anche una prospettiva tutta nuova da esplorare: nel valutare le ultime stime della Commissione europea non si trova solo lo scenario cupo per l’economia, che fa seguito al dramma delle perdite umane per il Covid-19, ma anche una possibile crescita del Pil già nel 2021. Sullo sfondo c’è la possibilità di un ruolo nuovo per l’Europa, a patto che non trascuri il virus di vecchie ideologie e ribollenti nazionalismi, tenendo invece in lockdown i suoi valori. A 70 anni dalla Dichiarazione Schuman che, in modo visionario e utopistico per quel momento storico, disegnava un’Europa unita, è d’obbligo allargare l’orizzonte e tentare di inquadrare questa crisi sanitaria, economica e sociale nel processo più ampio della storia della costruzione europea. A ben guardare, nei due mesi di pandemia abbiamo assistito a provvedimenti comunitari che soltanto alcuni mesi fa avremmo definito impensabili. E intanto sono mutate le dinamiche geopolitiche, che possono creare nuove problematiche, ma anche nuovi spazi di azione. Nessun presupposto, però, può bastare senza un serissimo scatto di volontà.
L’orizzonte per l’Ue non è roseo: per il momento si registrano crollo del Pil, esplosione del debito pubblico, lievitazione del deficit. L’incubo peggiore è rappresentato dal rischio di allargare la forbice delle diseguaglianze, con possibili tensioni sul piano sociale e scossoni ai sistemi democratici. L’obiettivo dovrebbe essere quello di completare la costruzione, gettando i doverosi pilastri dell’unione fiscale e della difesa comune, senza i quali l’Ue non può che traballare ad ogni vento. E poi bisognerebbe andare oltre l’ennesima àncora di salvataggio gettata in extremis, per recuperare il passo che ha permesso a vari Paesi di allinearsi su livelli standard di benessere oltre che di pace.
Si tratta di superare davvero gli egoismi nazionali, che non sono un concetto astratto ma si traducono in comportamenti precisi: il dominio di interessi di grandi gruppi bancari o commerciali a dispetto di alcuni valori fondamentali; il prevalere di una logica poco lungimirante che, rispetto a un impegno di lungo corso in grado di servire il bene comune, premia un provvedimento miope che però sembra assicurare a breve consenso popolare in vista delle elezioni di turno; la tentazione di concepire l’Europa come una mucca da mungere, pensando che possa e debba produrre latte ad oltranza anche se non nutrita a sufficienza. Per chi da cronista ha seguito l’attività delle istituzioni europee da quasi trent’anni, tutto ciò si palesa nel processo che dalla proposizione e programmazione a livello di europarlamento e di esecutivo Ue approda al tavolo dei capi di Stato e di governo: troppe volte nel percorso si perde la visione a lungo termine.
Nel 2020 la crescita dell’Eurozona perderà il 7,7 per cento, quella dell’Ue il 7,4. Il crollo del Pil dell’Italia è stimato del 9,5 per cento, della Francia dell’8,2, della Germania del 6,5. Ma secondo le previsioni economiche della Commissione Ue di primavera, nel 2021 tutti riprenderanno a correre: l’Eurozona è proiettata al +6,3 per cento, l’Ue al +6,1, l’Italia al +6,5. Certamente non suggerisce leggerezza il dato sul debito pubblico: cresce in tutti i Paesi e in Italia è previsto al 158,9 per cento del Pil, in Francia al 116,5 e in Germania al 75,6. Bisogna capire come rilanciare oltre i dati.
La crisi è scoppiata ai primi di marzo e il 20 marzo era già sospeso il Patto di stabilità, con il suo tetto del 3 per cento di deficit, per il quale – va ricordato – abbiamo speso fiumi di inchiostro e riempito palinsesti televisivi, salvo poi praticamente ignorarlo quando è passato dall’essere il primo dei dogmi al primo dei sacrificati. Poi, c’è stato l’acquisto, anche questo senza precedenti, di Titoli di Stato, in particolare italiani, da parte della Banca centrale europea (Bce), dopo che era stata definita conclusa la fase del Quantitative easing (Qe) legata alla crisi dei subprime. Anche questa misura, che salva l’Italia da possibili Titoli spazzatura, per l’opinione pubblica è passata quasi inosservata.
A parte queste mancate sottolineature, colpisce come nel linguaggio di tanti politici italiani in questa fase non sia cambiato nulla in tema di Europa. Da molti abbiamo ascoltato esattamente le stesse espressioni, a proposito degli egoisti Paesi del Nord Europa, dei burocrati di Bruxelles, dell’assenza di solidarietà. La situazione con la pandemia è nuova, i provvedimenti anche. Ci saremmo aspettati tutte le critiche ritenute opportune – di cui ci felicitiamo sempre in regime democratico – ma con un linguaggio nuovo, che riflettesse questo preciso contesto. Inoltre, per una volta, l’elefantiaca macchina delle istituzioni europee si è mossa in modo sorprendentemente repentino, ma quei social media sempre attentissimi a rilanciare pseudo verità e populismo non lo hanno raccontato. Citiamo per terzo un altro provvedimento non perché sia meno importante degli altri, ma solo perché è ultimo in senso cronologico: la rassicurazione che il Fondo salva stati (Mes) sarà senza capestro. Un altro tabu caduto. Bisogna soppesare i provvedimenti presi, non solo per apprezzare lo sforzo fatto – sul piatto ci sono 1000 miliardi che non avremmo mai visto uscire dalle casse – ma soprattutto per capire cosa salvare delle misure eccezionali messe in campo, e con che cosa “atterrare” nel terreno ancora sostanzialmente ignoto del dopo-pandemia.
Senza dubbio approderemo con le ossa rotte, ma proprio per questo non possiamo permetterci nessuna mancanza di lucidità, a partire dall’analisi su dove siamo rimasti rispetto ai grandi temi della geopolitica. A parte la prospettiva del lungo percorso di allargamento ai Balcani, l’Ue è rimasta in bilico sulla Brexit. Il periodo di transizione si concluderà il 31 dicembre 2020: entro questa data Londra e Bruxelles devono aver rinegoziato le loro relazioni future, oppure sarà no deal. In questi primi giorni di maggio in cui Stati Uniti e Gran Bretagna continuano a contare numeri da record di morti per il coronavirus, è giunta notizia dell’avvio della prima seduta – video – dei colloqui per un accordo transatlantico di libero scambio. Nelle parole del premier Boris Johnson e del presidente Donald Trump si ritrovano espressioni di entusiasmo sulla futura “special relationship” fra i due alleati. Sembra palese che sia Johnson, scampato al coronavirus, sia Trump che deve ancora scampare alle critiche per la gestione dell’epidemia, siano interessati a portare a casa un risultato, ma sembra anche evidente che, in assenza di un’intesa con Bruxelles per il dopo transizione, Londra non sembra potersi sedere al tavolo nelle condizioni migliori. E questo potrebbe essere un vantaggio per i 27 chiamati a confermare quella compattezza che abbiamo visto – inedita – in tema di Brexit, ma che potrebbe non essere scontata nel dopo-pandemia. Il punto è che i grandi eventi della storia producono sempre un’accelerazione. E’ essenziale tenere dritta la barra della direzione più opportuna.
Non usciremo da questa crisi fuori dall’ordinario senza un forte coordinamento tra Cina, Stati Uniti ed Europa. Prima dell’avvento del Covid-19, il 2020 avrebbe dovuto essere un anno cruciale nelle relazioni tra Bruxelles e Pechino, mentre nei prossimi mesi alcuni termini della questione potrebbero risultare cambiati. Inoltre, ci sono nuovi fattori in tema di globalizzazione e di neoliberismo, di prospettive di governance globale, di resilienza dei sistemi politici democratici europei. In 20 Paesi su 27, il capo del governo ha assunto poteri straordinari, in Ungheria lo ha fatto a tempo indeterminato. In clima di lockdown, in Polonia è emersa la forte tentazione di far svolgere elezioni in assenza dei più basilari meccanismi democratici di preparazione. In questo caso, Varsavia sembra essere tornata sui suoi passi, mentre prosegue però il braccio di ferro con Bruxelles per il rispetto delle norme condivise in tema di indipendenza dei giudici.
Per tutte queste dinamiche serve una bussola affidabile, che porti al di là di semplificazioni, banalizzazioni, estremizzazioni. La ritroviamo nelle intenzioni dei padri fondatori. Parliamo di Robert Schuman, che il 9 maggio 1950 pronunciò il discorso passato alla storia come la Dichiarazione fondativa dell’Europa unita, di Alcide De Gasperi e di Konrad Adenauer, che non furono da meno in quanto a spessore culturale e umano. Tre perseguitati dalle dittature nazifasciste, tre illuminati, tre cattolici, che seppero nutrirsi della visionarietà di intellettuali come Salvador De Madariaga e Thomas Eliot. E’ impressionante l’attualità del loro pensiero nonostante la novità di quanto stiamo vivendo ed è entusiasmante la forza dei loro scritti. La loro eredità si rifà alla migliore tradizione culturale che ha dato vita a filosofia e democrazia, all’humus europeo.
Nel messaggio Urbi et Orbi di questa Pasqua così particolare, Papa Francesco, venuto da un altro continente, lo ha detto chiaro: “L’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero.”
Dal patrimonio artistico del vecchio continente attingiamo un’immagine: la Sagrada Familia di Gaudì, imponente nella sua incompiutezza e affascinante nei dettagli aggiunti nel suo working in progress. Nella Biblioteca ideale dell’Ue ritroviamo la consapevolezza di Schuman, che nella Dichiarazione che ricordiamo 70 anni dopo affermava: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Dai Classici della bella tradizione umanistica che ci appartiene recuperiamo il significato etimologico della parola crisi: in greco antico il verbo κρίνω significa distinguere, giudicare, mentre il sostantivo κρίσις vuol dire decisione, scelta. E’ il momento della responsabilità: ogni crisi chiama a una scelta e ogni scelta contiene rischi ma anche margini preziosi di opportunità.