L’Ue chiede farmaci per tutti e prevenzione

La Commissione europea invita i 27 Stati membri a collaborare in tema di farmaci perché non ci sia carenza per nessun cittadino o struttura medica. Lo fa in videconferenza con i ministri della Salute e consulenti scientifici di tutta Europa, dai quali arriva il monito a non abbassare troppo la guardia sul Covid-19. Con noi lo pneumologo Lorenzo Tramaglino

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Limitare la dipendenza da singoli produttori o Paesi e produrre medicinali essenziali all’interno dell’Ue”. Il Commissario alla Salute, Stella Kyriakides, ha sintetizzato così le principali linee della strategia allo studio a Bruxelles in tema di farmaci, spiegando che la “roadmap” dovrebbe essere pronta entro la fine dell’anno, ma anche raccomandando ai ministri della Salute di renderla in qualche modo operativa da subito. L’emergenza Covid-19, infatti – ha spiegato in videoconferenza il Commissario – “ha amplificato o esacerbato i problemi che già esistevano e di cui si stava già discutendo, tra cui la immediata disponibilità per tutti e l’accessibilità dei prezzi”.

Medicinali a prezzi accessibili priorità per ogni Recovery Plan

“Ora è più che mai evidente che abbiamo bisogno di un approccio strategico perché “già da prima di questa pandemia, la carenza di medicinali rappresenta un problema in molti Stati membri”. I ministri Ue del settore hanno confermato la necessità di “identificare soluzioni che rafforzeranno i meccanismi di coordinamento e le catene di approvvigionamento dei medicinali”. Non c’è dubbio che su questo tema si debba parlare di “una responsabilità collettiva”, hanno ribadito, chiedendo in sostanza che “i medicinali devono essere disponibili in modo tempestivo in tutta l’Ue a prezzi accessibili” e sottolineando che questo principio va sostenuto tanto quanto l’Economic Recovery Plan, stanziato in seguito alla crisi economica, oltre che sanitaria, determinata dalla pandemia.

Gli esperti invitano a non abbassare la guardia

Nessun allarme, ma un avvertimento dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc): bisogna usare precauzioni per “essere pronti  ed evitare il peggio in caso di una seconda ondata di contagi di coronavirus, ipotizzabile anche in autunno”. “Non è una previsione – spiegano gli esperti che hanno partecipato alla videoconferenza – ma una “eventualità che gli Stati devono considerare”.  “Gli studiosi del Centro Ecdc stanno facendo analisi in vista di una possibile seconda ondata per misure di risposta”, ha confermato Stefan de Keersmaecker, portavoce della Commissione europea per le questioni di salute pubblica. In realtà non si tratta di una novità. Il rapporto del Centro  datato 23 aprile già metteva in guardia su quanto raccomandato in videoconferenza. È una probabilità, certo, ma sufficientemente alta da indurre a mettersi al riparo da brutte sorprese.

Le misure per evitare una seconda ondata

“Gli Stati sono invitati a monitorare i cosiddetti pazienti ambulatoriali sentinella, ossia i casi gravi potenzialmente evitabili; rafforzare la sorveglianza ospedaliera, in particolare per le infezioni respiratorie acute gravi e per la terapia intensiva; potenziare le strutture di assistenza a lungo termine e quella che in termine tecnico si chiama la “sorveglianza della mortalità”. Secondo de Keersmaecker, “c’è anche la necessità di far sì che i cittadini capiscano che esiste il rischio di una nuova ondata” e adottino accorgimenti e comportamenti necessari, come il distanziamento sociale, l’uso di mascherine e il rigoroso rispetto di basilari norme igieniche.

Per capire a che punto siamo in tema di farmaci e di vaccino e per una riflessione su quanto questa pandemia dovrebbe insegnarci sotto tanti punti di vista, abbiamo intervistato Lorenzo Tramaglino, pneumologo in prima linea contro il Covid-19 all’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma:

R. – Direi che il comportamento biologico del virus, soprattutto riguardo alla durata dell’incubazione, fa sì che ogni giorno noi abbiamo – relativamente al numero dei contagiati – la fotografia dei giorni precedenti. E questo lo diciamo con grande circospezione perché le infezioni da Covid-19 hanno avuto modalità di comparsa a volte molto variabili. In ogni caso, se nella prima settimana di Fase2 registriamo un calo dei contagi, possiamo dire che ciò riflette sostanzialmente il distanziamento sociale, il lockdown della fase precedente. Recentemente sono stati pubblicati dei modelli statistici inglesi e cinesi che, pur con tutti i limiti connaturati a questo tipo di studi perché sono modelli matematici, ci dicono che con la riapertura anche parziale delle attività potrebbe concretizzarsi il rischio di una seconda ondata di epidemia. Ma questi scenari piuttosto catastrofici si contrappongono ad altre evidenze, quali quella di un possibile depotenziamento su base climatica del virus, che colpirebbe quindi in maniera meno violenta il soggetto infettato. Direi che non c’è nulla di certo, per il momento. La cosa migliore rimane quella di evitare il contagio. Quindi, pur rientrando al lavoro, pur con la riapertura delle varie attività, suggerirei di continuare il distanziamento sociale, di indossare correttamente le mascherine nei luoghi confinati, anche per strada se il distanziamento a più di un metro non è possibile, e di continuare a curare l’igiene, soprattutto l’igiene delle mani.

Alla Videoconferenza, ieri, tra ministri della salute dell’Unione europea e infettivologi si è parlato anche di una possibile ondata nel prossimo autunno: senza particolari allarmi, ma c’è l’invito a non sottovalutare …

R. – Assolutamente, assolutamente. E questo poi si lega anche a un altro problema, che è quello del vaccino. Ci sono voci di una possibile disponibilità del vaccino già nei prossimi mesi: direi che sono scettico, al riguardo. Gran Bretagna e Stati Uniti appaiono in vantaggio, ma i progetti nel mondo sono tanti, molteplici, coinvolgono tanti Paesi tra cui il nostro. Ma per avere un vaccino efficace, sicuro ci vuole tempo, per la sperimentazione. Per essere chiari, sarebbe già un attimo risultato disporne per la primavera dell’anno prossimo. Poi subentrerebbero ulteriori considerazioni in merito alla distribuzione perché se il vaccino è prodotto all’estero potrebbe arrivare in Italia anche più tardi. Questo non vuol dire che non si debba pervicacemente continuare sulla strada della ricerca e della sperimentazione: ci potrebbe essere una seconda ondata epidemica durante l’autunno. Per questo sono favorevole a una grande, precoce campagna vaccinale contro l’influenza, nel prossimo autunno. Sarà più facile identificare, isolare e trattare precocemente i casi di coronavirus.

Abbiamo inesorabilmente bisogno del vaccino?

R. – Se la pandemia da Covid-19 nei prossimi mesi dovesse riaccendersi e progredire velocemente sul modello della spagnola degli anni ’18 – ’20 del secolo scorso, per intenderci, in questo caso avremmo, sì, una grande necessità del vaccino. La stessa Organizzazione mondiale della sanità ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, che solo un vaccino può interrompere definitivamente la trasmissione del coronavirus. Poi, a causa delle mutazioni stagionali del coronavirus, allo stesso modo dei virus influenzali, potrebbe rendersi necessario un aggiornamento annuale del vaccino.

Parliamo anche dei farmaci in uso attualmente, o perlomeno in sperimentazione…

R. –Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, a soli sei mesi dall’inizio della pandemia non disponiamo ancora di farmaci specificamente diretti contro questo nuovo agente virale. E così la comunità degli operatori sanitari ha sperimentato, in via empirica, sulla base di alcune esperienze pregresse, una serie di farmaci. Abbiamo sperimentato l’idrossicoclorochina, che è un antimalarico con un’azione antinfiammatoria, alcuni farmaci antivirali come il Remdesivir, che era già stato utilizzato contro l’Ebola; e poi l’eparina, antibiotici utilizzati per contrastare la tendenza alla microembolia e per contrastare super-infezioni batteriche. Insomma, in mancanza di certezze, ci siamo arrangiati; ci siamo scambiati tra medici informazioni ed esperienze in chat, in rete. Crediamo di avere agito bene, data la situazione d’emergenza, ma adesso bisognerà passare dall’aneddotica alle sperimentazioni su una scala più ampia, alla medicina basata sull’evidenza. Non sarà semplice, ci vorrà del tempo. Un ultimo accenno lo vorrei fare alle polemiche, assolutamente sterili, che hanno accompagnato la sperimentazione sulla somministrazione di plasma, avvenuta a Pavia e a Mantova. I colleghi hanno utilizzato lo stesso criterio per cui in presenza di ferite potenzialmente infette, si somministrano le gammaglobuline antitetaniche. Certo, è una terapia che è gravata da rischi connaturati negli emoderivati: ci sono rischi concreti di allergie, di anafilassi, ci sono problemi relativi all’approvvigionamento. Non è un’alternativa al vaccino e viceversa, il vaccino non è un’alternativa alla plasmoterapia. Sono due aspetti di uno stesso fenomeno, di uno stesso problema. Alla lunga, se ulteriori trial clinici ne confermassero l’efficacia, potrebbero costituire una possibilità complementare ai farmaci, in alcuni pazienti e in alcune fasi della malattia. Parlo con aperto spirito scientifico, basato sull’evidenza.

Quanto è importante la cooperazione sanitaria internazionale in tema di prevenzione di pandemie?

R. – Ha un ruolo chiave. Siamo immersi in un momento storico estremamente critico, in un contesto globalizzato dove si intrecciano problematiche come la crisi economica, i movimenti migratori, i cambiamenti climatici, le emergenze sanitarie. Bisognerà continuare a investire e a intervenire perché tutti questi ambiti sono collegati tra loro. E bisognerà farlo con estremo rigore e con estrema severità perché oggi non disponiamo delle risorse di qualche mese fa: siamo tutti più poveri. Ma continuare a esercitare il sistema della cooperazione, specialmente verso i Paesi più fragili ed esposti al ricorrere delle ondate epidemiche, sarà fondamentale per noi stessi, per la nostra salute, per la tenuta dei nostri sistemi sanitari. Insomma, ai Paesi sviluppati conviene, conviene molto  aiutare i Paesi con sistemi sanitari deboli.

Cinque anni fa, la Laudato si’, un’indicazione di quale dovrebbe essere il rapporto di equilibrio tra uomo e natura. Da questa drammatica esperienza della pandemia, che cosa davvero potremmo e dovremmo imparare?

R. – Penso che il danno che infliggiamo all’ambiente perseguendo il mito di una crescita smodata si ripercuota direttamente sulle nostre vite. Ora, nel dibattito sull’argomento di vaste proporzioni mi terrei collegato a evidenze del mio campo. Ricordo soltanto che il legame tra inquinamento atmosferico e severità delle malattie broncopolmonari è noto da almeno 70 anni. In queste ultime settimane, alcuni studi italiani – indipendenti – stanno ipotizzando una correlazione tra la severità della malattia da Covid-19 e le esposizioni a elevati livelli atmosferici di polveri sottili e di inquinanti come, ad esempio, il biossido di azoto. Questo potrebbe spiegare la particolare aggressività della malattia in alcune province del Nord Italia dove tradizionalmente si registrano spesso picchi di concentrazione di inquinanti molto al di là dei limiti legali. E per contro, dare anche una spiegazione della ridotta aggressività del virus nell’ultimo scorcio della Fase1, che è stato caratterizzato da un dimezzamento delle concentrazioni degli inquinanti nelle province padane in Lombardia: questo è un effetto dovuto al lockdown. Quindi, direi che, insomma, il legame con l’ecologia è notevolmente importante.

In questo contesto, l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato un monito: bisogna vietare i mercati di fauna selvatica, i mercati con animali vivi che vengono uccisi al momento, come quello di Wuhan, in Cina, da cui sembra essere partita l’epidemia divenuta pandemia. Lei cosa ne pensa?

R. – Una delle poche e generiche certezze sul coronavirus è la sua provenienza da serbatoi animali e la possibilità di effettuare lo spin-over, cioè il salto di specie. E’ accaduto anche per altre epidemie del coronavirus, come la Sars nel 2003, ed è accaduto anche con alcuni virus influenzali, come l’H1N1, l’influenza suina. Ora, non è ancora chiaro se le autorità cinesi intendano vietare questi mercati soltanto in via transitoria oppure se intendano farlo in modo permanente. Ci sono naturalmente pressioni da parte dell’Onu e dell’Organizzazione mondiale della sanità per una chiusura permanente, e mi auguro che questo avvenga.

da Vatican NEWS del 13 maggio 2020