di Fausta Speranza
La libertà di coscienza sia rispettata sempre e dovunque. Con queste parole Papa Francesco ha ricordato il diplomatico portoghese Aristides de Sousa Mendes che tra il 16 e il 18 giugno del 1940, disobbedendo alle leggi del suo dittatore, salvò la vita a migliaia di ebrei e altri perseguitati. A ottant’anni di distanza, restano preziose la sua lezione di umanità e la sua testimonianza di libertà interiore.
“Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. E’ quanto si legge nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. E, sul piano giuridico, la libertà di coscienza viene definita come la libertà di coltivare convinzioni interiori e di comportarsi di conseguenza.Coscienza, dunque, fa rima con coerenza, e non è solo questione di sonorità. Se non c’è adesione tra i valori riconosciuti in coscienza e i propri comportamenti non può esserci nessuna vera forma di libertà, piuttosto si è schiavi di qualcuno o qualcosa ai quali si obbedisce più di quanto si risponda a se stessi.
Le scelte di Aristides de Sousa Mendes appaiono, dunque, non solo una grandissima testimonianza di umanità, ma anche una lezione di vera libertà. Il diplomatico portoghese, nato nel 1855 a Cabanas de Viriato in una famiglia aristocratica, dopo una brillante carriera segnata da una significativa esperienza in Belgio, nel 1940, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, viene nominato console di Bordeaux, in Francia. Si trova presto di fronte alla miriade di profughi, tra cui molti ebrei, in cerca di scampo dalla furia omicida nazista. Il governo di Lisbona è guidato in quel momento da António de Oliveira Salazar, amico di Mussolini che nel 1932 aveva instaurato il cosiddetto “Estado Novo”, un regime di stampo fascista. L’ordine è di negare il visto a “stranieri di nazionalità indefinita, contestata o disputata”, o ad apolidi e “ad ebrei, che sono stati espulsi dal Paese di origine o dallo stato di cui hanno la cittadinanza”. In ballo c’è la possibilità di entrare in un Paese neutrale come il Portogallo, che significava la salvezza dalla follia nazifascista.
Il 16 giugno del 1940 il console prende la sua decisione: dare un visto a tutti i rifugiati che lo richiedano senza riguardo a nazionalità, razza o religione. Aiutato dai più stretti collaboratori e dai suoi figli e nipoti, timbra passaporti, assegna visti, usando tutti i fogli di carta disponibili. Organizza una vera e propria catena di montaggio: alcuni addetti sono incaricati di riempire i moduli, altri di apporre la foto per poi passare il documento al dilomatico per la firma e infine al segretario Jose Seabra per il timbro. In tre giorni rilascia 30.000 visti. Tra quanti vengono aiutati dal diplomatico portoghese c’è anche il rabbino di Anversa, Jacob Kruger che a sua volta darà il suo contributo per aiutare gli altri.
Yehuda Bauer, storico contemporaneo, scrive che quel giorno è cominciata “la più grande operazione di salvataggio effettuata da una persona durante la Shoah”. Numericamente non raggiunge quella compiuta dal diplomatico svedese Raoul Wallenberg che strappò alla morte 100.000 ebrei. Ma in questo caso, c’era il pieno sostegno del governo di Stoccolma.
Nel caso di de Sousa Mendes, arrivano presto i primi richiami da Lisbona. Il diplomatico portoghese dichiara a familiari e conoscenti: “Se devo disobbedire, preferisco che sia agli ordini degli uomini piuttosto che agli ordini di Dio e della mia coscienza”. L’8 luglio del 1940 torna in Portogallo e viene punito dal governo di Salazar: viene rimosso dal suo incarico, sospeso per un anno e poi riprende un lavoro di ufficio con uno stipendio dimezzato. La sua patente di guida, rilasciata all’estero, viene ritirata. Aristides e la sua famiglia sopravvivono grazie alla solidarietà della comunità ebraica di Lisbona. Pianificano di raggiungere gli Stati Uniti ma la moglie si ammala e il diplomatico resta a Lisbona. Solo alcuni dei suoi numerosi figli si recano a studiare oltre Oceano e due di loro parteciperanno allo sbarco di Normandia. Aristides muore in povertà il 3 aprile del 1954 nell’ospedale dei Francescani di Lisbona. Nel 1966 gli viene riconosciuto dall’istituto Yad Vahem il titolo di “Giusto tra le nazioni”.
Perché sia riabilitato in Portogallo ci vorrà tempo e una sorta di revisione del processo che si concluderà con una assoluzione per aver “disobbedito per fini umanitari”. Il 13 marzo 1988, quarantotto anni dopo gli avvenimenti di Bordeaux e quattordici anni dopo la fine della dittatura, il Parlamento all’unanimità approva la riabilitazione del console, promuovendolo ambasciatore.
Nel 1990 la città di Montreal, in Canada, gli intitola un parco, seguita l’anno successivo da Bordeaux. Nel 1998 in Francia viene pubblicato il libro “Le Juste de Bordeaux”, e in quello stesso anno il Parlamento europeo onora de Sousa Mendes, conferendogli un’importante onorificenza.
Statue d’Aristides de Sousa Mendes – Bordeaux
Seguono altri riconoscimenti e il 23 febbraio 2000 a Lisbona viene istituita la Fondazione Aristides de Sousa Mendes, alla quale il governo dona un contributo di 50.000 euro. Va ricordato un altro atto significativo: nel 1987, all’ambasciata portoghese a Washington, il presidente della Repubblica portoghese, Mario Soares, consegna ai figli di de Sousa Mendes la decorazione dell’Ordine della libertà. Le imputazioni di allora, “abuso di potere, emissione di visti falsi, non rispetto delle direttive ministeriali” sono cadute. La testimonianza di umanità e di libertà di coscienza di Aristides de Sousa Mendes resta. Ad interpellare altre coscienze.
da Meridianoitalia.TV del 16 giugno 2020