Il Centrafrica a 60 anni dall’indipendenza

Il 13 agosto 1960 la Repubblica Centrafricana arrivava con una dichiarazione ufficiale alla completa indipendenza. Un territorio con grandi potenzialità che resta uno dei più poveri della terra. Da questo Paese dell’Africa equatoriale, nel 2015, Papa Francesco ha voluto dare avvio al Giubileo straordinario della misericordia. Da Bangui con noi il missionario Padre Aurelio Gazzera

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sessant’anni in cui si sono susseguiti inizialmente colpi di stato e poi una lunga guerra civile. A novembre 2015 la prima porta santa ad essere aperta personalmente da Papa Francesco è stata quella della cattedrale di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, che in quel momento era l’ultima tappa, dopo il Kenya e l’Uganda del primo viaggio del Pontefice nel continente nero. “Vengo come pellegrino di pace e mi presento come apostolo di speranza”, disse il Papa al suo arrivo a Bangui, dove l’allarme attentati era altissimo ma dove Francesco non volle rinunciare alla papamobile scoperta. Cinque anni dopo, alcuni passi avanti verso un vero processo di pacificazione del tessuto sociale sono stati fatti, ma non mancano fattori di destabilizzazione per i forti interessi in campo, come ci ha confermato padre Aurelio Gazzera, che vive tra Bangui e il nord del Paese:

Padre Aurelio ricorda che da tempo il governo non ha il completo controllo del territorio e sacche di illegalità sono registrate nelle campagne e nelle province del nord, dove ancora avvengono, meno che in passato, scontri tra i due maggiori gruppi ribelli e forze governative. Ci sono gruppi di ribelli che negli ultimi tempi accettano di sedersi a un tavolo per negoziare equilibri di potere sul territorio ma è anche vero che alternano momenti di disponibilità con decisioni improvvise di abbandonare il dialogo. Una delle attività in cui si intrecciano lecito e illecito è quella della tassazione della transumanza. La missione Onu Minusca cerca in continuazione di neutralizzare ribelli che spadroneggiano, recuperando armi, munizioni e motociclette. Ma il missionario sottolinea anche che l’instabilità dei Paesi confinanti – Ciad, Sudan, Sudan del Sud e Repubblica Democratica del Congo – influisce negativamente sulla stabilità interna del Paese. Poi ricorda le ingenti risorse naturali di cui è ricco il territorio – citando legno, oro etc – per sottolineare che bisogna considerare, in particolare negli ultimi tempi, l’ingerenza sempre più significativa di potenze straniere che si aggiungono ad altri interessi di multinazionali occidentali. In definitiva, non si vive più la guerriglia e la serie di attentati di qualche anno fa ma non si può neanche dire che nel Paese ci sia una vera pace e tantomeno un processo di ordinato sviluppo. Padre Gazzera racconta che la decisione di Papa Francesco di aprire la prima porta santa del Giubileo a Bangui ha acceso i riflettori internazionali: da allora – afferma – non si sono mai davvero spenti, ma certamente i progressi sono lenti perché purtroppo le risorse non vengono sfruttate per il bene del Paese. Il rischio purtroppo è sempre quello che in una situazione così precaria, di scarso controllo delle forze governative sul territorio e di popolazione affamata, si possano infiltrare forze terroristiche, che non mancano di agire in tutta la regione. A proposito della pandemia, Padre Gazzera conferma che il Covid-19 rappresenta un problema sottolineando che in questo momento la sua missione è proprio quella di portare, e seguire la distribuzione sul campo, le risorse che la Conferenza episcopale italiana (Cei) e la Caritas hanno messo a disposizione per il Paese. Ma il missionario ricorda anche che, purtroppo, dal punto di vista sanitario il Centrafrica soffre di altre emergenze croniche, come quella della malaria, del morbillo, della denutrizione.

Sessant’anni fa l’indipendenza

Il territorio è stato una colonia francese  con il nome di Ubangi-Sciari o Uubangui-Schari. Il referendum costituzionale francese del settembre 1956 porta all’approvazione della nuova costituzione, che sarebbe entrata in vigore nel 1958, per la neo Repubblica Centrafricana all’interno della neo Comunità francese, sorta allo scioglimento dell’Africa Equatoriale Francese. Nel 1958 è attiva l’Assemblea centrafricana che elegge capo del governo Boganda, che però a marzo 1959 muore in un incidente aereo. Suo cugino David Dacko, lo sostituisce e conduce la Repubblica Centrafricana alla completa indipendenza con la dichiarazione del 13 agosto 1960. In questi sessant’anni si sono susseguiti colpi di stato e guerre. Dopo trent’anni di governo prevalentemente militare, nel 1993 si insedia un governo civile durato dieci anni. Ha assunto il nome attuale prorpio al momento dell’indipendenza nel 1960. Dopo trent’anni di governo prevalentemente militare, nel 1993 si insedia un governo civile durato dieci anni. Nel marzo 2003 il presidente Patassé ed il suo governo sono deposti con un colpo di Stato dal generale Francois Bozizé, che  forma un governo di transizione. Nelle contestate elezioni generali del 2005 il generale Bozizé viene eletto presidente. Il governo non ha però il completo controllo del territorio e sacche di illegalità sono registrate nelle campagne e nelle province del nord, dove continuano gli scontri tra i due maggiori gruppi ribelli ed il governo.

La guerra civile

Il 24 marzo 2013 Bozizé è costretto alla fuga dopo la presa della capitale Bangui da parte dei ribelli Seleka. Abbandonata la città, avrebbe raggiunto la Repubblica Democratica del Congo attraversando il fiume Ubangi. In seguito alla caduta di Bozizé e alla sua fuga in Congo e poi in Camerun, i ribelli di Séleka decidono di porre uno dei propri leader come Capo di Stato della Repubblica Centrafricana: Michel Djotodia, uno dei più strenui oppositori dell’ex presidente. Il primo ministro, invece, resta al suo posto anche con la nuova presidenza. Il 10 gennaio 2014 Djotodia si dimette insieme con il suo primo ministro durante un summit straordinario della Ceeac, e viene nominato presidente provvisorio Alexandre-Ferdinand Nguendet. Il 20 gennaio 2014 Catherine Samba-Panza prende il posto di Nguendet, venendo eletta presidente di transizione della Repubblica Centrafricana grazie al voto del parlamento.  Il 23 luglio 2014, i belligeranti firmano un accordo di cessazione delle ostilità a Brazzaville, lasciando tuttavia il Paese diviso in regioni controllate da milizie sulle quali né lo Stato né la missione dell’Onu hanno presa.

Il processo di riconciliazione di Touadéra

In occasione delle presidenziali del 2015-2016, viene eletto ca po dello Stato Faustune-Archange Touadéra, il quale lancia un processo di riconciliazione nazionale per rendere giustizia alle vittime delle guerre civili, per la maggior parte dislocate all’interno e all’esterno del Paese. Incarica per decreto il suo ministro Regina Konzi Mongot di elaborare il Programma nazionale di riconciliazione nazionale e di pace, proposto nel dicembre 2016, adottato all’unanimità dagli organismi internazionali. Da allora, un comitato è al alvoro per giudicare i principali attori e risarcire le vittime. Non si tratta di un processo né breve né facile. Tra gli episodi più gravi, bisogna ricordare, a giugno 2017, gli scontri a Bria, nel centro-est del Paese, con cento morti.

da Vatican NEWS del 13 agosto 2020

 

L’Aise rilancia la recensione di Gianni Lattanzio

LA TRAGEDIA DI BEIRUT DEVE RISVEGLIARE IL MONDO – DI GIANNI LATTANZIO

ZURIGO\ aise\ 
“Le devastanti esplosioni che hanno colpito Beirut il 4 agosto rappresentano una catastrofe per il Libano, ma anche uno schiaffo per la comunità internazionale: non si può continuare a dimenticare il Paese che è stato la Svizzera del Medio Oriente e che nel default finanziario rivela inquietanti mutamenti negli equilibri di potere regionali”. Questa la premessa del pezzo di Gianni Lattanzio pubblicato ieri su “Il Corriere dell’Italianità”, già “Corriere degli italiani”, storica testata di lingua italiana in Svizzera.
“Il Paese è in preda ad una gravissima crisi economica, frutto di politiche miopi e di corruzione al suo interno, ma anche di mutate congiunture internazionali in un contesto mediorientale che non è mai stato così militarizzato dai tempi dei conflitti mondiali. Si tratta di un territorio chiave,specchio delle contraddizioni arabe, riflesso della penetrazione europea nel Vicino Oriente e soprattutto cartina tornasole di contrasti che investono Oriente e Occidente. E tutto questo emerge nel libro Fortezza Libano, scritto dalla giornalista Fausta Speranza, pubblicato per i tipi di Infinito Edizioni.
Su un territorio così geopoliticamente strategico l’Italia è in prima linea. Per la seconda volta è il comando italiano a guidare la missione di pace dell’Onu in questo lembo del Levante. La prima volta, nel 1982, ha coinciso con la prima missione di peacekeeping dell’Italia all’estero, che avveniva in un territorio dilaniato dalla guerra civile. La Brigata Sassari ai primi di agosto ha assunto il comando del contingente italiano e del settore ovest di Unifil, l’interforze delle Nazioni Unite posizionato nel Libano del sud per garantire il rispetto della risoluzione 1701 emanata l’11 agosto 2006 da parte del Consiglio di Sicurezza. Ma c’è anche una sede a Beirut e infatti due militari italiani sono rimasti feriti nelle esplosioni. Di fatto, mille militari italiani saranno dislocati per sei mesi in Medio Oriente e monitoreranno, sotto l’ombrello dell’Onu, lo stop alle ostilità tra Israele e Libano, aiuteranno il governo libanese a garantire la sicurezza dei suoi confini, assisteranno la popolazione civile e sosterranno le forze armate libanesi nelle operazioni di sicurezza e stabilizzazione dell’area. A comandare l’operazione, denominata Leonte, è il generale Andrea Di Stasio, comandante della Brigata Sassari, a capo di 3.800 caschi blu di 16 nazionalità.
La missione dell’Onu non è mai stata interrotta anche se la guerra civile, scoppiata nel 1974, si è conclusa con gli accordi del 1989. Si tratta di un territorio delicatissimo in particolare nella zona meridionale confinante con Israele carica di tensioni. Ma negli ultimi dieci anni il conflitto in Siria ha messo a dura prova anche il nord, confinante con quella zona di territorio siriano dove ha spopolato il sedicente Stato islamico. Anche questa guerra ha contribuito a impoverire il Libano per il quale la Siria era il primo partner commerciale dell’area. In ogni caso, il carovita, che ha alimentato mesi di proteste da ottobre scorso, non basta a giustificare il tracollo finanziario che ha portato, a marzo scorso, il governo a dichiarare il default. Ci sono altre dinamiche, in quest’area del Vicino Oriente, a partire dal passo indietro dell’Arabia Saudita che mal sopporta che il partito sciita Hezbollah, legato all’Iran, stia al governo. Tutto questo e molto altro delle ingerenze straniere viene raccontato nel libro di Speranza, inviata dell’Osservatore Romano con diversi premi internazionali alle spalle per i suoi reportage da diverse parti del mondo.
C’è anche una significativa provocazione di carattere politico: Speranza intravede nel Libano un terreno fertile per quel processo verso l’acquisizione del concetto di cittadinanza nel mondo mediorientale auspicato di recente anche da alcune voci autorevoli dell’Islam. In Occidente è qualcosa di scontato, ma non lo è altrove dove non è codificato, ricorda l’autrice. Si tratta del riconoscimento formale e costituzionale di uguali diritti e doveri per cittadini di uno Stato nazione, al di là della confessione religiosa. Nell’Islam si è imposta per secoli una concezione non territoriale del diritto, piuttosto personale e dipendente dalla fede professata in cui non c’è stato spazio per l’idea di essere cittadini di pari diritti seppure di religioni diverse. Il termine Umma, che da sempre indentifica la comunità, ha un senso transnazionale e universale, infatti, e non territoriale. Il concetto di nazione, che in arabo non esisteva fino all’Ottocento, è stato sempre interpretato in termini etnici o religiosi. Ma di recente – come ben spiega il libro di Speranza – si è aperto il dibattito sulla necessità di acquisire il concetto di cittadinanza nel mondo mediorientale, per vivere insieme, da cittadini uguali, senza subordinazioni o primati, etnici o religiosi. Speranza ricostruisce nel volume le tappe recentissime di questo processo, che portano fino al Documento sulla Fratellanza umana firmato da Papa Francesco e dall’Imam di Al Azhar il 4 febbraio 2019, che parla di valori e di pace, ma – come giustamente mette in luce la giornalista – anche proprio della necessità del concetto di cittadinanza. In sostanza, non più precari e esplosivi equilibri tra maggioranze e minoranze più o meno rispettate o tollerate, ma la svolta di avere cittadini portatori di diritti e di doveri.
E Speranza chiede, dunque, maggiore attenzione da parte della comunità internazionale per il precario equilibrio in Libano, fondato sulla particolarissima governance religiosa tra cristiani e musulmani, nonché tra sunniti e sciiti. Riconosce i limiti di questo sistema definito confessionalismo, ma giustamente chiede che non ci si arrenda al fallimento di un sistema che rappresenta in nuce proprio un primo baluardo del diritto di cittadinanza in terra mediorientale. Il libro di Speranza avverte sull’urgenza di far sì che in Libano si vada avanti rispetto a quel sistema e non indietro, come purtroppo si rischia fortemente nella grave instabilità economico sociale che si vive attualmente.
Il Paese dei cedri viene raccontato anche nel suo spessore culturale, che va dagli influssi di fenici, bizantini, arabi fino alla modernità, con tantissimi riferimenti letterari e con una lettera inedita di Guttuso al suo amico pittore libanese Fedhan Omar. Nel volume c’è anche la ricostruzione della continuità archeologica che dal Libano porta in Siria, una traccia che l’autrice indica come un ideale percorso di pace da riscoprire.
In definitiva, il volume Fortezza Libano che già dal titolo suggerisce la straordinaria resistenza di questo piccolo lembo del Levante a venti di odio identitario in una delle aree più calde del mondo, offre una testimonianza stimolante di come nella cultura e nell’arte ci sia sempre uno spazio di incontro e di dialogo e che non ci si debba arrendere al cosiddetto scontro di civiltà. Ed è proprio anche questo “l’ombrello” sotto il quale è importante pensare che stiano operando i nostri militari accanto alla popolazione civile”. (aise) 

AISE agenzia di stampa estera

 

Sul Corriere dell’Italianità di Zurigo l’urgenza espressa da Fortezza Libano

La tragedia di Beirut deve risvegliare il mondo

Il Paese dei cedri è raccontato nelle sue urgenze e nelle sue potenzialità nel volume Fortezza Libano

di Gianni Lattanzio

Le devastanti esplosioni che hanno colpito Beirut il 4 agosto rappresentano una catastrofe per il Libano, ma anche uno schiaffo per la comunità internazionale: non si può continuare a dimenticare il Paese che è stato la Svizzera del Medio Oriente e che nel default finanziario rivela inquietanti mutamenti negli equilibri di potere regionali.

Il Paese è in preda ad una gravissima crisi economica, frutto di politiche miopi e di corruzione al suo interno, ma anche di mutate congiunture internazionali in un contesto mediorientale che non è mai stato così militarizzato dai tempi dei conflitti mondiali. Si tratta di un territorio chiave,specchio delle contraddizioni arabe, riflesso della penetrazione europea nel Vicino Oriente e soprattutto cartina tornasole di contrasti che investono Oriente e Occidente. E tutto questo emerge nel libro Fortezza Libano, scritto dalla giornalista Fausta Speranza, pubblicato per i tipi di Infinito Edizioni. 

Su un territorio così geopoliticamente strategico l’Italia è in prima linea. Per la seconda volta è il comando italiano a guidare la missione di pace dell’Onu in questo lembo del Levante. La prima volta, nel 1982, ha coinciso con la prima missione di peacekeeping dell’Italia all’estero, che avveniva in un territorio dilaniato dalla guerra civile. La Brigata Sassari ai primi di agosto ha assunto il comando del contingente italiano e del settore ovest di Unifil, l’interforze delle Nazioni Unite posizionato nel Libano del sud per garantire il rispetto della risoluzione 1701 emanata l’11 agosto 2006 da parte del Consiglio di Sicurezza. Ma c’è anche una sede a Beirut e infatti due militari italiani sono rimasti feriti nelle esplosioni. Di fatto, mille militari italiani saranno dislocati per sei mesi in Medio Oriente e monitoreranno, sotto l’ombrello dell’Onu, lo stop alle ostilità tra Israele e Libano, aiuteranno il governo libanese a garantire la sicurezza dei suoi confini, assisteranno la popolazione civile e sosterranno le forze armate libanesi nelle operazioni di sicurezza e stabilizzazione dell’area. A comandare l’operazione, denominata Leonte, è il generale Andrea Di Stasio, comandante della Brigata Sassari, a capo di 3.800 caschi blu di 16 nazionalità. 

La missione dell’Onu non è mai stata interrotta anche se la guerra civile, scoppiata nel 1974, si è conclusa con gli accordi del 1989. Si tratta di un territorio delicatissimo in particolare nella zona meridionale confinante con Israele carica di tensioni. Ma negli ultimi dieci anni il conflitto in Siria ha messo a dura prova anche il nord, confinante con quella zona di territorio siriano dove ha spopolato il sedicente Stato islamico. Anche questa guerra ha contribuito a impoverire il Libano per il quale la Siria era il primo partner commerciale dell’area. In ogni caso, il carovita, che ha alimentato mesi di proteste da ottobre scorso, non basta a giustificare il tracollo finanziario che ha portato, a marzo scorso, il governo a dichiarare il default. Ci sono altre dinamiche, in quest’area del Vicino Oriente, a partire dal passo indietro dell’Arabia Saudita che mal sopporta che il partito sciita Hezbollah, legato all’Iran, stia al governo. Tutto questo e molto altro delle ingerenze straniere viene raccontato nel libro di Speranza, inviata dell’Osservatore Romano con diversi premi internazionali alle spalle per i suoi reportage da diverse parti del mondo. 

C’è anche una significativa provocazione di carattere politico: Speranza intravede nel Libano un terreno fertile per quel processo verso l’acquisizione del concetto di cittadinanza nel mondo mediorientale auspicato di recente anche da alcune voci autorevoli  dell’Islam. In Occidente è qualcosa di scontato, ma non lo è altrove dove non è codificato, ricorda l’autrice. Si tratta del riconoscimento formale e costituzionale di uguali diritti e doveri per cittadini di uno Stato nazione, al di là della confessione religiosa. Nell’Islam si è imposta per secoli una concezione non territoriale del diritto, piuttosto personale e dipendente dalla fede professata in cui non c’è stato spazio per l’idea di essere cittadini di pari diritti seppure di religioni diverse. Il termine Umma, che da sempre indentifica la comunità, ha un senso transnazionale e universale, infatti, e non territoriale. Il concetto di nazione, che in arabo non esisteva fino all’Ottocento, è stato sempre interpretato in termini etnici o religiosi. Ma di recente – come ben spiega il libro di Speranza – si è aperto il dibattito sulla necessità di acquisire il concetto di cittadinanza nel mondo mediorientale, per vivere insieme, da cittadini uguali, senza subordinazioni o primati, etnici o religiosi. Speranza ricostruisce nel volume le tappe recentissime di questo processo, che portano fino al Documento sulla Fratellanza umana firmato da Papa Francesco e dall’Imam di Al Azhar il 4 febbraio 2019, che parla di valori e di pace, ma – come giustamente mette in luce la giornalista – anche proprio della necessità del concetto di cittadinanza. In sostanza, non più precari e esplosivi equilibri tra maggioranze e minoranze più o meno rispettate o tollerate, ma la svolta di avere cittadini portatori di diritti e di doveri. 

E Speranza chiede, dunque, maggiore attenzione da parte della comunità internazionale per il precario equilibrio in Libano, fondato sulla particolarissima governance religiosa tra cristiani e musulmani, nonché tra sunniti e sciiti. Riconosce i limiti di questo sistema definito confessionalismo, ma giustamente chiede che non ci si arrenda al fallimento di un sistema che rappresenta in nuce proprio un primo baluardo del diritto di cittadinanza in terra mediorientale. Il libro di Speranza avverte sull’urgenza di far sì che in Libano si vada avanti rispetto a quel sistema e non indietro, come purtroppo si rischia fortemente nella grave instabilità economico sociale che si vive attualmente. 

Il Paese dei cedri viene raccontato anche nel suo spessore culturale, che va dagli influssi di fenici, bizantini, arabi fino alla modernità, con tantissimi riferimenti letterari e con una lettera inedita di Guttuso al suo amico pittore libanese Fedhan Omar. Nel volume c’è anche la ricostruzione della continuità archeologica che dal Libano porta in Siria, una traccia che l’autrice indica come un ideale percorso di pace da riscoprire. 

In definitiva, il volume Fortezza Libano, che già dal titolo suggerisce la straordinaria resistenza di questo piccolo lembo del Levante a venti di odio identitario in una delle aree più calde del mondo, offre una testimonianza stimolante di come nella cultura e nell’arte ci sia sempre uno spazio di incontro e di dialogo e che non ci si debba arrendere al cosiddetto scontro di civiltà. Ed è proprio anche questo “l’ombrello” sotto il quale è importante pensare che stiano operando i nostri militari accanto alla popolazione civile. 

dal Corriere dell’ Italianità