Carità e vita: il cardinale Parolin ai sacerdoti

Nell’omelia per l’ordinazione di 29 sacerdoti dell’Opus Dei, il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ha ricordato il mandato di Gesù per i suoi pastori e le necessità delle pecorelle a loro affidate parlando di misericordia. Nel giorno della memoria liturgica di Santa Madre Teresa, ieri 5 settembre, ha citato, tra gli altri, la Santa dei più bisognosi tra i poveri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il sacerdote, pastore di anime, non è solo colui che guida: sono parole del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, all’omelia della Messa per l’ordinazione di 29 nuovi sacerdoti dell’Opus Dei, ieri nella Basilica di Sant’Eugenio. “Si   è piuttosto radicata l’idea che il pastore designi quasi esclusivamente la conduzione del gregge”, dice, spiegando che “certamente il pastore è colui che guida, che, precedendo le pecore, indica loro la via, detta il passo, traccia il percorso di quella che chiamiamo, appunto, ‘pastorale'”. Ma poi avverte che “nel Vangelo emerge una prospettiva più ampia”. Il cardinale Parolin  ricorda  che “Gesù evidenzia la differenza tra il pastore e il mercenario” e sottolinea che “diversamente da questi, che interpreta il proprio operato come un mestiere, il pastore non riveste un ruolo, ma assume uno stile di vita”. E dunque un’indicazione precisa: “Il pastore non viveva come voleva, ma come era meglio per il gregge; non stava dove desiderava, ma dove si trovava il gregge. Si spostava con le pecore e trascorreva ogni ora del giorno e della notte in loro compagnia. Più che condurre il gregge, ci viveva immerso.”

Il pastore chiamato alla vita

“L’immagine del pastore sembra dunque riferirsi non anzitutto al governo, ma alla vita”, afferma il segretario di Stato ricordando che “non a caso Gesù caratterizza il pastore come colui che dà «la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Il messaggio è chiaro:  “Non sarete in primo luogo chiamati a ‘fare qualcosa’ – magari nemmeno quello a cui vi sentite più portati – ma a dare e condividere la vita”. In questo la promessa di pienezza: “Così potrete realizzare in pienezza la chiamata ad agire ‘in persona Christi‘: non solo nell’amministrazione dei sacramenti, ma incarnando lo stile di Gesù”. E a questo proposito il cardinale Parolin cita le seguenti parole di San Josemaría Escrivá de Balaguer: «il sacerdote – chiunque egli sia – è sempre un altro Cristo».

Il tempo della misericordia

“Essere pastori oggi significa diventare testimoni di misericordia”: è il richiamo del cardinale Parolin, che ricorda che “Cristo buon pastore è venuto a cercarci là dove ci eravamo perduti, nelle valli oscure del peccato e della morte: ha preso su di sé il nostro peccato, ha patito il nostro male, ha condiviso la nostra morte, morendo in croce”.  In questo modo – ribadisce – “ci ha redenti, raccogliendoci con misericordia e mettendoci con amore sulle sue spalle, come l’arte cristiana ha raffigurato da subito, in modo eminente in questa città”. E dunque chiarisce il mandato per il sacerdote: “La vita del sacerdote è chiamata a testimoniare la gioia dell’incontro tra Dio e noi, la gioia che Dio prova nell’usarci misericordia”.  Il riferimento a Papa Francesco:  «Oggi è tempo di misericordia!», proclamò il Santo Padre nell’imminenza dell’apertura dello scorso Giubileo, il 25 ottobre 2015. E il cardinale Parolin dice ai nuovi sacerdoti: “La grazia dell’oggi ecclesiale e le esistenze si incontrano così in questo giorno, nel segno del pastore misericordioso che dà la vita per il gregge”.

La bellezza della salvezza tra parole e perdono

“Le parole con cui predicherete non potranno che essere parole di vita”. Il segretario di Stato parla di “conseguenze pratiche” da considerare e afferma: “Prima di esortare va sempre proclamata la bellezza della salvezza”Circa il perdono, invita ad essere “ambasciatori di misericordia, portatori del perdono che risolleva l’esistenza, sacerdoti che amano disporre i fratelli e le sorelle a lasciarsi riconciliare con Dio”. Sottolinea: “So quanta attenzione e cure prestate al sacramento della Riconciliazione, alla confessione: non posso far altro che esortarvi a continuare a farlo, per essere dispensatori di quella grazia e di quel perdono del Signore di cui il mondo di oggi ha estremo bisogno!”

Il valore della semplicità e il pensiero a Santa Teresa di Calcutta

La seconda parola proposta è la semplicità. Il  cardinale Parolin ricorda che “i pastori presenti alla nascita di Gesù non rappresentavano certamente il vertice culturale del popolo e non erano l’espressione compiuta della purezza rituale, eppure furono i primi chiamati ad accogliere il Messia apparso in terra”. Il Signore guarda al cuore, ama i piccoli e cerca i semplici.  Santa Teresa di Calcutta “può venirci in aiuto”. Una citazione dal “Cammino semplice” che ella delineò: «Il frutto del silenzio è la preghiera. Il frutto della preghiera è la fede. Il frutto della fede è l’amore. Il frutto dell’amore è il servizio. Il frutto del servizio è la pace». “Parole semplici” le definisce il cardinale ma capaci di “collegare ciascuno con i poli dell’esistenza: Dio e gli altri”.  Avverte: “Per essere pastori veramente tali occorre anzitutto avere una vita ben ordinata e ciò significa pure non lasciarsi ingolfare da mille cose, pena il rischio di smarrire la semplicità di un cuore pienamente dedito al Signore”. E cita ancora il fondatore dell’Opus Dei: «Il Signore non si accontenta di spartire, vuole tutto. Non cerca le nostre cose, cerca noi stessi».

La sfida difficile della missione

Missione è la terza parola scelta a proposito del Buon Pastore che – ricorda il cardinale Parolin – va in cerca della pecorella perduta: “Voi, cari fratelli provenienti da varie latitudini e da contesti diversi, venite ordinati presbiteri durante un Pontificato che ci sta trasmettendo, oltre alla priorità della misericordia vissuta e al richiamo alla semplicità evangelica, l’esigenza non più rimandabile della missione, quale vocazione principale della Chiesa”. Il segretario di Stato sottolinea: “Essere Chiesa in uscita significa non concepirsi più come fine, ma come mezzo, per portare non noi stessi, ma il Signore al mondo. Significa non essere introversi, ma estroversi; non ansiosi di ottenere rilevanza, ma di far conoscere Gesù a chi, come accade soprattutto nei contesti più secolarizzati, pensa che la questione di Dio appartenga al passato”. In definitiva, l’invito a “coniugare carità pastorale e sana creatività evangelizzatrice, fedeltà e flessibilità, fede ben radicata e cuore disponibile; chiede di andare incontro, più che di attendere; di accogliere, non di respingere, gli interrogativi più inquieti e complessi di oggi, particolarmente quelli delle giovani generazioni, spesso lontane e talvolta riottose”.  Il cardinale incoraggia i nuovi sacerdoti dopo aver ricordato che  “è difficile caricarsi sulle spalle vite disordinate, apparentemente vuote” e dopo aver ribadito: “E’ verso queste pecorelle che, oggi in particolare, il Signore desidera che ci incamminiamo”.

da Vatican NEWS del 6 settembre 2020

 

La speranza rinnovata per il Libano

E’ forte l’eco della giornata di preghiera e di digiuno voluta da Papa Francesco venerdì 4 settembre – a un mese esatto dalla devastante esplosione al porto di Beirut – con la visita del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin. A Vaticannews il rettore del Seminario Redemptoris Mater della capitale, don Guillaume Bruté, parla delle cruciali sfide che attendono il Libano, chiamato a importanti riforme, e racconta della speranza rinnovata nel Paese, tra tutti e non solo tra i cristiani, dall’iniziativa del Papa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Progetti di pace e non di sventura per concedervi un futuro pieno di speranza”: sono parole di Papa Francesco, che cita il Profeta Geremia. Sono contenute nel messaggio portato in Libano dal segretario di Stato cardinale Pietro Parolin con la sua visita,  venerdì 4 settembre, esattamente a un mese dall’esplosione al porto di Beirut, che ha causato oltre 220 morti, 6000 feriti e 300.000 sfollati.

Il forte incoraggiamento

“I libanesi ricostruiranno il loro Paese, con l’aiuto degli amici e con lo spirito di comprensione, dialogo e convivenza che li ha sempre contraddistinti”: così il cardinale Parolin nell’omelia della Messa celebrata davanti al Santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa. Il segretario di Stato ha sottolineato la capacità dimostrata dai libanesi di resistere e di rialzarsi dalle enormi difficoltà incontrate nel corso della sua storia. Anche questa volta sapranno farlo: “La ricostruzione del Libano non avverrà solo a livello materiale. Beirut, ‘madre delle leggi’, rinascerà dalle sue ceneri assistendo alla nascita di un nuovo approccio alla gestione della cosa pubblica, la res publica. Nutriamo tutti la speranza che la società libanese si baserà maggiormente sul diritto, i doveri, la trasparenza, la responsabilità collettiva e il servizio del bene comune”.

Dell’importanza e del significato dell’iniziativa per il popolo libanese abbiamo parlato con don Guillaume Bruté, rettore del seminario Redemptoris Mater a Beirut:

Don Guillaume racconta dell’emozione di accogliere nel Paese il rappresentante del Papa, di ascoltare l’incoraggiamento da parte del cardinale Parolin per un cammino di riforme nel Paese dei cedri, che anche Papa Francesco ha definito con la definizione data nel 1989 da Papa Giovanni Paolo II, poi Santo, e cioè: “il Libano non è solo un Paese ma è un messaggio di convivenza”. E Don Guillaume spiega che il cardinale Parolin è venuto a dare speranza a quanti guardano al possibile lungo processo di riforma del sistema di governance definito confessionalismo, che ha assicurato al Paese un equilibrio ma che ormai è tempo di cambiare per correggere alcuni limiti. Non sarà un impegno da poco, ma è importante che il processo sia avviato, dice il rettore. E Don Guillaume sottolinea che è emozionante sapere che il cardinale Parolin ha ascoltato, valuta, segue le proposte che emergono, come quella del Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï, che ha parlato di status di neutralità. Don Guillaume spiega che l’obiettivo è far sì che il Libano non sia condizionato da ingerenze straniere, ma che piuttosto trovi uno spazio di autonomia che gli permetta di “compiere la sua missione”.

Il cardinale Parolin tra le macerie di Beirut

E, oltre le parole, c’è poi un’immagine che Don Guillaume racconta di conservare di questa visita: è stato particolarmente colpito dal vedere il segretario di Stato, inviato del Papa, tra le macerie di Beirut. Non si tratta di macerie di una guerra – dice – ma comunque frutto di una distruzione: l’esplosione devastante del 4 agosto al porto, infatti, oltre al disastro dal punto di vista umano – oltre 200 morti, migliaia di feriti e decine di migliaia di sfollati – ha sgretolato vetri di case e di macchine in una vasta area della città e ha poi davvero distrutto il quartiere di Karantine, “uno dei più antichi e belli di Beirut”. E, a questo proposito, Don Guillaume oltre a riferire il dramma di chi ha avuto perdite di persone care, sottolinea che ci sono le difficoltà economiche di chi non ha le risorse per mettere a posto la casa o la macchina con cui dovrebbe magari andare a lavorare, nel caso sia tra quanti hanno ancora un lavoro. La situazione finanziaria del Paese è davvero difficile da mesi e mesi e l’esplosione ha colpito una popolazione già stremata, con la lira libanese che ha perduto oltre l’80 per cento del suo valore.  In tutto questo – afferma Don Guillaume – l’iniziativa della giornata di preghiera e digiuno di Papa Francesco, che ha toccato l’animo non solo delle persone religiose ma di tutti, ha rinnovato lo slancio di speranza. E don Guillaume esprime l’auspicio che anche i leader che gestiranno aiuti per il Libano lo facciano con uno spirito rinnovato dalla consapevolezza di cosa rappresenti il Paese: un messaggio di convivenza, come diceva San Giovanni Paolo II e come ha ribadito Papa Francesco, per la Regione e per il mondo.

da Vatican NEWS del 6 settembre 2020