Fausta Speranza – Città del Vaticano
Si chiama “Il Ponte” l’associazione nata mesi fa per rendere concreta la proposta di assicurare una casa ad una famiglia della Siria, da oltre nove anni in una situazione di conflitto e distruzione. L’idea è proprio quella di gettare un ponte di solidarietà, ma c’è anche il richiamo a Pontevalleceppi, la località in provincia di Perugia, in Umbria, dove tutto si svolge. L’idea iniziale è stata della famiglia Rossi, subito abbracciata dalla famiglia Lombardi. Ma loro vogliono che si parli soprattutto della realizzazione che vede la partecipazione di tanti. L’esperienza, infatti, è realmente comunitaria, come emerge da alcune delle persone che abbiamo intervistato, a partire dal parroco di Pontevalleceppi, don Domenico Lucchiari:
Don Domenico racconta che la famiglia siriana, arrivata a fine ottobre, si è recata in chiesa più di una volta e spiega che sono cristiani ortodossi. Non potendo dialogare con loro per via della diversa lingua, le persone della parrocchia hanno cercato di assicurare quella che don Domenico definisce “una corona di tenerezza”. Spiega che in particolare si è impegnato il gruppo che è nato chiamandosi Laudato si’ Don Domenico racconta che alcuni parrocchiani sono andati a trovarli e a portare loro i tanti regali che la gente ha offerto, insieme con Massimo Pieroni, della Caritas, che si è occupato delle prime necessità. Il sacerdote sottolinea la priorità di trovare un lavoro, una fonte di reddito per i genitori mentre i figli – dice – sono già stati introdotti nei rispettivi percorsi scolastici. E poi – afferma – passo dopo passo, saranno presto a pieno titolo una delle famiglie del territorio.
Importante il contributo dei volontari della Comunità di Sant’Egidio, il primo dei quali è Luciano Morini:
Morini racconta come ha sostenuto le famiglie di Giampaolo Rossi e Mario Lombardi grazie all’esperienza fatta da Sant’Egidio con i corridoi umanitari, sottolineando che però, negli altri casi, a farsene carico sono stati Comuni, o parrocchie, o altre istituzioni, mentre in questo caso tutto è nato dall’acquisto di una casa fatto da parte di privati. Luciano Morirni sottolinea l’importanza dell’integrazione, soffermandosi sul valore di costruire insieme un percorso, che è fatto in primis di conoscenza della lingua, che nelle altre forme di arrivo non viene incoraggiata o aiutata. E poi – dice – c’è il contesto sociale, di una piccola comunità che è un elemento chiave del successo dell’iniziativa dei corridoi umanitari. E’ una goccia nel mare – riconosce Morini – e i numeri non possono essere grandi anche per via della normativa in materia ma – sottolinea – dimostrano che è possibile un’altra forma di accoglienza senza i traffici di esseri umani.
Il richiamo ai Corridoi umanitari
La Comunità di Sant’Egidio è protagonista insieme con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la Cei-Caritas, del programma dei cosiddetti Corridoi umanitari avviato nel 2016 grazie al coinvolgimento dello Stato italiano. E’ un programma completamente autofinanziato, che permette il rilascio di visti per profughi dalla Siria, e di recente anche dall’Etiopia, in condizioni di maggiore vulnerabilità. Sono accolti a spese delle associazioni firmatarie in strutture o case e viene avviato per loro un percorso di integrazione. I Corridoi umanitari sono iniziati in Italia ma alcuni sono ora in via di realizzazione anche in Francia, in Belgio e Andorra. Finora hanno mosso 2600 persone, salvandole da situazioni di invivibilità. Offrono garanzie utili anche per chi accoglie perché il rilascio dei visti umanitari prevede i necessari controlli da parte delle autorità. I principali obiettivi sono evitare i viaggi dei profughi con i barconi della morte nel Mediterraneo; contrastare il disumano business degli scafisti e dei trafficanti di uomini, donne e bambini; concedere a persone in condizioni di vulnerabilità (ad es. vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, donne sole, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario, e successiva presentazione della domanda di asilo.
Giampaolo Rossi, giurista che, con sua moglie e i suoi figli, per primo ha messo in campo risorse, energia e entusiasmo per l’esperienza nei pressi di Perugia, dove vive, avrebbe voluto non comparire ma lo abbiamo convinto a parlarci dell’iniziativa da giurista quale è, proprio in considerazione del quadro giuridico dei Corridoi umanitari:
Il professor Rossi ci spiega che all’inizio la primissima risposta alla sua iniziativa è stata di scetticismo e di perplessa contrarietà. Sono arrivati – spiega – commenti sulle difficoltà e suggerimenti di fare offerte in denaro per varie associazioni. Sconvolgeva – afferma – l’idea di un coinvolgimento da vicino. Ma Rossi racconta che in modo davvero sorprendente le stesse persone che avevano cercato di dissuaderlo, poi, non appena la macchina si è messa in moto hanno immediatamente trovato il modo di contribuire. Ci confida il rammarico di aver pensato che le parole avessero perso di senso: può accadere di parlare di fratellanza, ma di rifiutare l’idea che uno straniero sia fratello. Ma poi riferisce di un’esplosione di generosità di fronte a persone vere e concrete e un’iniziativa possibile. Rossi sottolinea che è importante, dunque, riscoprire il valore delle parole spiegando che è proprio quello che insegna Papa Francesco con tutto il suo apostolato. Da giurista, Rossi distingue in un certo senso i ruoli, sottolineando le responsabilità degli Stati e delle società civili. Si sofferma sull’importanza di un ruolo promotore da parte della società civile, per poi ribadire la possibilità a livello giuridico che l’Unione europea faccia propria l’iniziativa dei Corridoi umanitari. La solidarietà messa in moto dal basso può istituzionalizzarsi – spiega – dando l’occasione all’Europa di dare una risposta ai flussi di persone e un’alternativa di civiltà allo sfruttamento dei trafficanti, peraltro anche rispondendo alla questione della denatalità nel vecchio continente.
La fede e la solidarietà impressa nel dna
Ha seguito tutto dall’inizio dando un contributo sul piano spirituale che tutti definiscono importantissimo Don Saulo Scarabattoli:
Noi vediamo un frutto, l’accoglienza, ma – dice don Saulo – c’è una radice ed è certamente la fede delle famiglie che hanno avuto l’idea. Poi – spiega – vediamo altri frutti in persone che magari non hanno la fede così esplicita, ma hanno sensibilità umana, una sorta di fede nella fraternità. Tutti – sostiene – hanno impresso nel dna naturale la sensibilità per aiutare persone in difficoltà. Si tratta di riconoscere quell’impronta. Don Saulo ribadisce: la fede è la sorgente di tutto questo e quelli che l’hanno esplicita sono portatori per gli altri. E il sacerdote sottolinea quanto sia sorprendente che intorno alle prime due famiglie si siano moltiplicati, come fuochi, gli interventi, l’entusiasmo, la distribuzione dei compiti. Don Saulo racconta che nel gruppo social di interconnessione brulicano messaggi e – dice – è meraviglioso vedere una luce che si diffonde dal basso. Il bene – afferma – è davvero contagioso. E poi don Saulo sottolinea come la famiglia accolta sia diventata un’occasione di arricchimento per chi accoglie: accogliere arricchisce, sottolinea. E richiama l’attenzione proprio sul concetto di ponte: sul ponte lo scambio è da una parte all’altra, ma anche viceversa. E dunque sottolinea che, se sul piano delle cose materiali ora è chiaro chi doni e chi riceva, invece sul piano spirituale – dice – non si riesce più a distinguere. Lo scambio – assicura – è reciproco.
Il sorriso della famiglia siriana
La famiglia siriana, attraverso il figlio che parla inglese, ci ha dato appuntamento presto per un incontro dal vivo, che vorrebbero avvenisse anche nella lingua italiana, che stanno cercando di imparare. Le emozioni per loro sono state e sono tante. Per il momento raccontiamo qualcosa dei loro sorrisi molto dolci nelle fotografie della nuova casa, e del calore con cui dicono e ripetono “grazie”, la prima parola che hanno imparato. Precisamente provengono da Homs, che è stata protagonista delle cronache nel 2012 per il massacrante assedio e per la drammatica offensiva sferrata, da febbraio a luglio, dall’esercito di Damasco perché la città era considerata la roccaforte dei ribelli. Zahir dei suoi diciannove anni ne ha vissuti oltre nove nel terrore e l’orrore della guerra, la piccola Maryam di 10 anni finora non aveva conosciuto altro. La mamma e il papà chiedono preghiere: per tutti i posti nel mondo dove non c’è pace.