di Fausta Speranza
Iniziano le operazioni di scrutinio per le elezioni che hanno chiuso una delle più sanguinose campagne elettorali in Messico, ma già gli exit poll hanno decretato il ridimensionamento del partito di Obrador. In attesa dei risultati definitivi, è utile riflettere su vari aspetti al di là del consenso espresso al presidente che tre anni fa aveva ottenuto quasi un plebiscito e che non è rieleggibile.
Nel Paese dell’America Latina a nord dell’Equatore, per il capo dello Stato, dopo il mandato di sei anni, non è prevista una seconda candidatura. Anche per questo non si deve ridurre ad un referendum su Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, il voto di mid-term più ampio di sempre: oltre 93 milioni di messicani sono stati chiamati alle urne domenica 6 giugno e lunedì 7 per il rinnovo del Congresso e di un numero mai così alto di autorità locali. In ballo c’erano 15 governatori dei 32 in ruolo nel Paese e 20.000 incarichi tra sindaci e presidenti di municipalità.
Morena resta il primo partito nel Paese che ha quattro fusi orari, anche se Juntos Hacemos Historia, la coalizione tra Morena, Partido del Trabajo e Verdi, ha ottenuto 279 seggi, contro i 313 che aveva la precedente coalizione. Senz’altro è importante ribadire che sembra non ci sia più una maggioranza qualificata, in grado ad esempio di cambiare la Costituzione. Certamente non si è ripetuto l’en plein che si è visto nel luglio 2018 quando Obrador è stato eletto presidente a furor di popolo e la sua coalizione aveva conquistato due terzi dei seggi al Congresso.
In ogni caso, il Movimiento Regeneración Nacional, che nel suo acronimo ricorda la “vergin morena” o morenita, come la popolazione messicana, tutta e non solo i credenti, chiama la Madonna di Guadalupe, se è vero che ha perso due terzi dei rappresentanti nella Città del Messico che controllava quasi interamente, ha comunque conquistato ben 10 dei 15 governatori sul territorio nazionale. Spetterà in prima battuta a Mario Delgado, leader nazionale del Partito Morena, fare i conti con questa sorta di vittoria a metà.
Colpisce il successo dei Verdi che è l’elemento nuovo della coalizione di governo. Nello schieramento che sostiene il presidente, a Morena e al Partito dei lavoratori si sono uniti i Verdi che, secondo gli exit poll, sono la vera rivelazione. E potrebbero esserlo non solo per il Messico: potrebbero indicare una tendenza a promuovere l’impegno ecologista nelle Americhe mentre avanza in Europa. Va detto che hanno sostituito Encuentro Social, il partito degli evangelici che, praticamente dopo l’exploit accanto a Morena nel 2018, si è andato dissolvendo. E anche questo è un elemento da considerare.
L’avanzamento della contro-coalizione segna il ritorno dei partiti tradizionali, fenomeno tutto da studiare. Non si può definire del tutto inedito, ma certamente il raggruppamento dei partiti che hanno fatto per decenni la storia del Messico moderno e che tre anni fa sembravano spazzati via ha dell’insolito. Dagli Anni Ottanta non si vedevano alleati e comunque lo erano stati per tatticismi di governo. Per questa elezione, si sono compattati nell’intento, in parte riuscito, di frenare la coalizione di governo. Si parla del Pri, del Pan e del Prd. Il Pri, il Partido Revolucionario Institucional, ha guidato il Paese per settant’anni dopo la rivoluzione che nel 1920 cacciò il generale Porfirio Diaz, chiudendo 35 anni di governo assoluto. Il Pan, il Partido Acción Nacional, che a volte erroneamente la stampa italiana definisce di centro destra, è semplicemente un antagonista storico del Pri. E poi c’è il progressista Prd, il Partido de la Revolución Democrática che è nato da una costola del Pri di dichiarato stampo socialdemocratico.
In attesa dei risultati definiti, c’è un dato certo: il 52 per cento di affluenza, che ha superato il 48 per cento delle precedenti elezioni di mid-term del 2015. Racconta di un popolo che ha raggiunto i seggi dopo che, in pochi mesi, 90 candidati sono stati uccisi. Tra questi, c’era Alma Barragan, che si presentava per il ruolo di sindaco a Moroléon nello Stato centrale di Guanajuato, freddata come tanti altri alla fine di un comizio. Era legata al Movimento Ciudadano, che, almeno secondo le dichiarazioni di voto, ha poi conquistato, a sorpresa, il governatorato a Nuevo Léon.
La violenza, che non si è fermata neanche durante le operazioni di voto, non ha fermato l’accesso alle urne. Cinque dipendenti dell’Istituto elettorale sono stati colpiti a morte in Chiapas, alcuni seggi sono stati presi d’assalto a Puebla e nello Stato del Messico. Poco importa stabilire se sia stata o no la campagna elettorale più violenta di sempre, di fatto, dopo la lieve flessione del numero di omicidi negli ultimi tempi, – relativa in un Paese che segna il drammatico record di 100 uccisioni al giorno – l’accanimento contro i candidati che più si sono esposti contro corruzione e narcotraffico ha avuto il sapore della minaccia. Ma non ha fermato il popolo messicano che ha dato al mondo ancora una volta una lezione di speranza.