L’acqua al centro della disputa tra Etiopia, Egitto e Sudan

E’ stata avviata la produzione di energia elettrica della grande diga costruita da Addis Abeba sul Nilo Azzurro a partire dal 2011. Il Cairo e Khartoum lamentano la sottrazione di preziose risorse idriche. Una crisi da non sottovalutare, come avverte l’esperto di relazioni internazionali Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’Etiopia ha iniziato, domenica 20 febbraio, a produrre energia elettrica dalla maxi-diga sul Nilo che ha costruito a partire dal 2011 e che riduce la portata d’acqua a disposizione di Sudan ed Egitto. L’Etiopia la ritiene essenziale per la propria elettrificazione e sviluppo economico. La diga, chiamata Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd), cioè diga del grande rinascimento etiope, è il più grande impianto idroelettrico mai costruito in Africa. Le opere principali dell’impianto idroelettrico lungo il Nilo Azzurro – a circa 700 chilometri a nord-ovest della capitale Addis Abeba nella località di Guba – comprendono la realizzazione di una diga in calcestruzzo rullato compattato (Rcc), una diga ausiliaria di sella e due centrali idroelettriche posizionate sulle due rive opposte del fiume a valle della diga principale. Il bacino idrico ha una superficie di 1.875 chilometri quadrati e un volume di 74 miliardi di metri cubici.

Il punto di vista di Addis Abeba

Il primo ministro etiope, Abiy Ahmed Ali, ha avviato la prima turbina della diga Gerd, spiegando che l’impianto supporterà il Paese nel suo percorso di sviluppo economico e di avvicinamento all’obiettivo sostenibile di diventare carbon neutral entro il 2025 grazie ad una produzione massiccia di energia da fonti rinnovabili. Secondo Addis Abeba, una volta ultimato, porterà alla nascita di un vero e proprio polo energetico per la regione, che ha bisogno di energia, permettendo al Paese di generare ed esportare energia pulita e rinnovabile, evitando l’emissione di oltre 2 milioni di tonnellate di CO2 l’anno.

Dei punti di vista e dell’importanza della questione abbiamo parlato con Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:

Con uno sguardo al passato, De Luca richiama alla mente il ruolo fondamentale che ha sempre avuto il Nilo. I corsi d’acqua sono sempre fondamentali per lo sviluppo di una civiltà e l’importanza del Nilo è proverbiale proprio anche sul piano geopolitico, sottolinea. Inoltre, De Luca mette l’accento sul fatto che l’acqua da sempre è cruciale in tema di energia. Dunque, una diga come questa rafforza i rapporti tra Paesi oppure mette in crisi i rapporti. Il professore ricorda che dall’inizio della costruzione della diga, e sempre di più con l’avanzamento dei lavori, sono stati evidenti i piani etiopi per il riempimento, a partire dal 2020, del bacino creato dalla struttura, che significa molta acqua.

La preoccupazione dell’Egitto

La preoccupazione dell’Egitto – spiega De Luca – è che la raccolta d’acqua nel bacino possa compromettere le risorse idriche egiziane per qualche anno. Negli ultimi anni, i governi dei due Paesi si sono accusati reciprocamente di non rispettare le norme internazionali sulla gestione e lo sfruttamento dell’acqua del Nilo.

La complicazione per il Sudan

Dal novembre del 2020 i rapporti con il Sudan, a sua volta preoccupato per l’approvvigionamento d’acqua, si sono poi ulteriormente complicati – afferma il docente – perché il conflitto civile in corso nella regione del Tigray, nel nord dell’Etiopia, ha portato decine di migliaia di persone a rifugiarsi in Sudan, già alle prese con numerosi problemi interni, politici ed economici dal colpo di Stato dell’ottobre 2021. Tra Sudan ed Etiopia c’è inoltre una disputa territoriale a proposito della regione di Fashaqa, coltivata da agricoltori etiopi ma rivendicata dal governo sudanese.

Non c’è intesa sugli accordi

L’Egitto ha sostenuto che un progetto come la diga non potesse essere realizzato senza il suo consenso, a causa di due accordi internazionali con il Sudan, uno risalente al 1929, durante l’età coloniale, e l’altro al 1959: il primo dà all’Egitto il potere di veto sulla costruzione di infrastrutture lungo il corso del Nilo; il secondo stabilisce che all’Egitto spetti circa il 66 per cento delle acque del Nilo, e il 22 per cento al Sudan. Il governo etiope ha replicato di non riconoscere gli accordi, dato che furono firmati senza coinvolgere l’Etiopia, e di avere quindi il diritto di sviluppare il proprio progetto. Nel 2010 si era accordato con gli altri Paesi in cui è diviso il bacino del Nilo – Egitto e Sudan esclusi – per realizzare progetti lungo il fiume anche senza il consenso egiziano. Inoltre l’Etiopia ha sempre sostenuto che la nuova diga non avrà nessun impatto sulla quantità d’acqua che arriva all’Egitto, contrariamente a quanto temuto dagli egiziani. L’Unione Africana, l’organizzazione intergovernativa dei Paesi del continente africano, aveva cercato di mediare tra Etiopia, Egitto e Sudan affinché si trovasse una soluzione di compromesso sulle tempistiche di riempimento del bacino della diga, ma non ha avuto successo, anche perché l’Etiopia non ha accettato di concordare con gli altri Paesi quantità minime di acqua da far passare attraverso la diga.

Sullo sfondo altre questioni

Daniele De Luca ricorda che una situazione come questa è anche una cartina tornasole che lascia emergere altre conflittualità latenti o altri motivi di confronto e di tensione tra Stati. Si tratta, evidenzia, di rapporti complicati anche perché, ad esempio, un Paese come il Sudan è cambiato: è cambiata la percezione da parte dell’Occidente che prima lo considerava uno “stato canaglia” per il terrorismo. In definitiva, De Luca avverte che situazioni come questa disputa intorno all’acqua non possono essere trascurate dalla comunità internazionale che, invece, in questo momento è estremamente concentrata sulla crisi ucraina.

I numeri dell’impianto

Al momento la costruzione è completa per l’84 per cento. Secondo i media statali etiopi, domenica le turbine dell’impianto hanno cominciato a produrre 375 megawatt. L’inaugurazione è avvenuta in presenza del primo ministro Abiy Ahmed. Era presente Pietro Salini, amministratore delegato di WeBuild, la multinazionale di costruzioni italiana che ha realizzato l’impresa e che fino al 2020 si chiamava Salini Impregilo. Proprio la società WeBuilt con un comunicato ha confermato l’avvio della prima turbina e ha sottolineato che l’impianto avrà una capacità installata complessiva di 5.150MW e che potrà garantire una produzione media stimata di 15.700 Gwh/anno. Il progetto Gerd ha un valore complessivo di 3,48 miliardi. Per la realizzazione sono state coinvolte mediamente ogni anno circa 10 mila persone.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/diga-etiopia-nilo-egitto-sudan-acqua-energia.html

Cambiamenti climatici e precarietà rurale: l’appello dell’Ifad

I contadini dei Paesi poveri producono un terzo del cibo del mondo ma ricevono solo sei centesimi per ogni dollaro di prodotto che generano. Lo denuncia l’Ifad chiedendo soluzioni innovative e finanziamenti urgenti, come sottolinea Romina Cavatassi, esperta di sviluppo e risorse naturali dell’organismo stesso dell’Onu ribadendo che il cuore del problema è l’iniquità

Fausta Speranza – Città del Vaticano

I leader mondiali chiedono investimenti urgenti e innovativi per aiutare le comunità rurali dei Paesi più poveri del mondo ad adattarsi ai cambiamenti climatici. E’ quanto emerso dalla riunione annuale del Consiglio dei Governatori cui hanno partecipato, in settimana, 177 Stati membri del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad) delle Nazioni Unite. Non può passare inosservata la vulnerabilità dei piccoli agricoltori ai gravi eventi meteorologici, come le tempeste che hanno devastato il Madagascar nelle ultime settimane uccidendo almeno 121 persone e distruggendo più di 176.000 ettari di terreno.

Finanziamenti irrisori

I piccoli produttori sono colpiti duramente da una crisi che non hanno creato, eppure attualmente ricevono solo l’1,7 per cento dei finanziamenti per il clima. Lo ha denunciato il presidente dell’Ifad, Gilbert F. Houngbo, sottolineando che “il cuore del problema è l’iniquità”. Sulle conseguenze della pandemia e degli effetti dei cambiamenti climatici si sofferma Romina Cavatassi, esperta di sviluppo e risorse naturali dell’Ifad:

La pandemia e il cambiamento climatico hanno messo a nudo la vulnerabilità dei piccoli produttori, afferma Cavatassi, sottolineando la situazione di iniquità per cui le persone che producono un terzo del cibo del mondo ricevono solo sei centesimi per ogni dollaro di prodotto che generano. Non c’è sostenibilità o resilienza – sostiene – senza una maggiore equità. L’agricoltura impiega due terzi delle popolazioni dell’Africa sub-sahariana e rappresenta quasi un terzo del PIL. Eppure i piccoli produttori rurali sono sistematicamente sotto finanziati e – ricorda Cavatassi – lo sono ancora di più dopo la pandemia. L’esperta spiega che la vulnerabilità degli agricoltori di fronte a situazioni climatiche estreme non si può trascurare, aggiungendo che sradicare la povertà rurale richiede un approccio radicalmente nuovo per costruire resilienza rurale. Il punto è che, essendo alcune delle nazioni più vulnerabili del mondo, i piccoli Stati richiedono un’attenzione speciale, un rapido accesso alle risorse e soluzioni su misura. Molte di queste soluzioni – avverte Cavatassi – richiedono l’accesso alla finanza che dovrebbe essere inclusiva. Nel 2020, la fame nel mondo è aumentata – ricorda – in gran parte a causa del cambiamento climatico, della povertà oltre all’impatto della pandemia da Covid-19. Una persona su 10 nel mondo oggi soffre la fame. Oltre alle doverose considerazioni sul piano umanitario, questo – sottolinea l’esperta Ifad – non può non avere conseguenze in termini di squilibri a livello globale.

L’impegno dell’Italia

In risposta alla minaccia che il cambiamento climatico rappresenta per le popolazioni rurali, il ministro dell’Economia e delle Finanze italiano, Daniele Franco, ha detto che quest’anno l’Italia aumenterà il suo impegno finanziario internazionale per far fronte ai cambiamenti climatici di tre volte, raggiungendo circa 1,5 miliardi di dollari all’anno fino al 2026.  “Il cambiamento climatico, il degrado ambientale e la perdita di biodiversità rappresentano una minaccia immediata per le risorse naturali, così come per la vita e i mezzi di sussistenza delle popolazioni rurali”, ha detto. E ha aggiunto: “I sistemi alimentari risentono fortemente degli shock climatici in rapido aumento. I loro effetti sono più gravi per le comunità rurali povere ed emarginate che pur essendo le più colpite, sono quelle che contribuiscono meno a tali fenomeni. Invertire queste tendenze richiede soluzioni innovative. Dobbiamo evitare che i progressi fatti all’interno dell’Agenda 2030 siano resi vani, a tal fine il Fondo svolge un ruolo chiave”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/poveri-agricoltori-contadini-zone-rurali-onu-iniquita.html