«Fine di una madre» di Paola Pastacaldi
di Fausta Speranza
«Ho messo in questo diario tutta la mia paura che ho blandito a fianco di una madre autarchica che conosceva benissimo l’uso del potere, tanto da intimidirmi tutta la vita, che all’improvviso non avrebbe più potuto camminare e tantomeno comandare. L’ho fatto perché vincere la paura della sua angosciosa condizione e scegliere di starle accanto mi ha regalato un’occasione unica». Con queste parole Paola Pastacaldi, autrice di saggi e di romanzi storici, ci spiega la scelta di portare alla stampa un libro diverso dagli altri: Fine di una madre (Varzi, Fiorina Edizioni, 2023, pagine 119, euro 16) infatti, come lei stessa lo definisce, è un diario autobiografico. La parabola segnata dalla malattia e dalla medicina si immagina facilmente, compreso le perplessità per un inaccettabile accanimento terapeutico, quello che invece colpisce di più nel testo è il coraggio di condividere pensieri semplici ma potenti come questo: «Il tempo strappato alla morte può diventare un tempo prezioso per i familiari: il tempo della condivisione del significato di vivere».
Anche se nelle vicende familiari ci sono dettagli particolarissimi di esistenze intrecciate alle vicende delle colonie italiane in Africa a inizio secolo scorso, il racconto ha come punto focale l’esperienza universale della vecchiaia, che viene definita così senza inutili ipocrisie di stampo politically correct. È facilmente condivisibile lo choc di chi vive repentinamente il passaggio dall’anzianità del proprio genitore, fatta di rallentamenti e incertezze ma di sostanziale autonomia, alla vecchiaia in cui si dipende da altri, a volte da un sondino. «La qualità della loro vita è lì, sotto gli occhi di chi li guarda. Sempre più rattrappiti su se stessi, scheletrici, mani e gambe ossute che si chiudono sul corpo, quasi a difenderlo da aggressioni esterne.»
Pastacaldi racconta «un’inquietudine che non so più come nascondere a me stessa (…) nessuno mi ha preparata a questo momento, nessuno mi ha detto “ti accompagno io”». Da qui la scelta di mettere nero su bianco frammenti di un’esperienza che tutti sappiamo essere estremamente intima, come può esserlo tenere la mano a chi ti ha dato la vita mentre la sua vita si spegne.
Pastacaldi spiega di aver voluto scrivere qualcosa che possa aiutare in modo concreto chi si trovi di fronte ad un anziano fragile da aiutare. Si parte da una amara constatazione: «Non ci sono dati, pensieri, riflessioni, valutazioni, propositi; calcolando che l’Italia è un popolo di anziani, sembra incomprensibile. Come non esistessero. Perché ciò che riguarda gli anziani è coperto da omissis o afasia? È paura o incapacità di gestire l’enorme problema che avanza?». Gli anziani rischiano di diventare «vittime di Ageismo, come razzismo, sessismo».
Dal punto di vista strettamente fisico c’è qualcuno deputato a venire in soccorso di qualunque infermo: sono i medici e ce ne sono tantissimi straordinari. Pastacaldi però fotografa il fenomeno nella sua complessità che comprende anche «la medicina che si crede onnipotente». È la tecnomedicina che dimentica «per interesse» che la vecchiaia non è una malattia da estirpare, ma da «blandire con gentilezza». In certi momenti prossimi alla fine la cura inutile protratta all’infinito ha «il sapore di una camera a gas» nella riflessione della figlia/scrittrice. «Quanto diventiamo crudeli — afferma — quando la tecnomedicina si divora per volgare interesse la nostra morte e per indifferenza anche la nostra capacità di essere pietosi e di esercitare la meravigliosa compassione». Il suo è un grido per rivendicare che «di fronte alla fine ogni gesto deve avere un sapore diverso». Dobbiamo offrire a chi se ne va un momento di pace, un momento di memoria e di amore.
«Amarla è il mio modo di proteggerla e di proteggermi, fino all’ultimo giorno». Resta centrale il messaggio ai familiari: non scappare. Anche se «era come se la sua morte fosse anche la mia», la scrittrice non fugge e la sua esperienza la racconta così: «Eppure qualcosa mi dice che il segreto della vita è racchiuso in questi pochi giorni di umile attesa a casa». Un’attesa in cui si può scoprire la preziosità di gesti semplicissimi, come quello della badante Katerina che «in piedi, a mani giunte, vicina alle sponde del letto, prega per i defunti». Pastacaldi scrive: «Mia madre tace, poi in un soffio supplica “Ancora”. Ondate di tepore gioioso mi scaldano sino alla punta dei piedi.» E confida: «La semplicità della fede di Katerina mi disarma e mi rende rispettosa». Nella sua «onestà sana e pulita» Katerina, che ha lasciato l’Ucraina per bisogno di lavorare ben prima della guerra, «per ogni dolore ha una poesia, per ogni dolore ha un pensiero saggio, per ogni dolore ha una consolazione o una canzone».
Quella che appare come «una vita artificiale priva di sapore» spalanca orizzonti di comprensione: «L’immagine di un bambino che nasce, le sue grida, le sue lacrime e il respiro faticoso di un anziano sembrano due parti di una unica sfera, due metà impossibili da separare».
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