Alla ricerca delle radici d’autore ne «La cetra e la penna»
Non sono tutte «solo canzonette», come diceva, ironizzando, un autore del calibro di Edoardo Bennato. Anche se è difficile definire confini e stabilire il livello di “nobiltà intellettuale”, la poesia, quando c’è, si impone. È con questa consapevolezza che ormai dagli anni Cinquanta siamo abituati a fare distinzioni tra prodotti diversi che rientrano in ogni caso nella cosiddetta popular music, che era e resta strettamente connessa all’industria dell’intrattenimento e della comunicazione. L’obiettivo è intravedere la poesia, viva ma nascosta in luoghi da cui è sempre più difficile estrapolarla, anche perché in sostanza gli strumenti tradizionali con cui veniva analizzata e giudicata non funzionano più. In questo contesto offre spunti di riflessione il libro di Marco Testi La cetra e la penna (Roma, Àncora, 2024, pagine 206, euro 19) che mette in luce tracce del filo rosso che ci porta «dalla letteratura alla canzone d’autore», come si legge nel sottotitolo.
Anche nell’ambito del fenomeno di massa, le canzoni possono regalare più di quello che un suggestivo passaggio sonoro o una strofa riuscita o un ritornello efficace siano in grado di offrire. L’esplorazione del significato per così dire autentico di un brano pop passa però attraverso la sensibilità o insensibilità di critici e tempi. E troppo spesso, ad esempio, si è cercato tra le note e tra le righe la valenza politica, mettendo l’accento esclusivamente sui cantautori impegnati sul piano sociale. È stato fatto non senza forzature o pregiudizi, come ha messo in luce lo storico Eugenio Capozzi nel volume Innocenti evasioni. Uso e abuso politico della musica pop (2013), che ha aperto a un’operazione di tipo diversa: ricercare, liberi dalla lente della politica, quello che può essere riconosciuto in termini di significati e cultura. Meno soggettiva, nonché molto interessante, può essere, dunque, l’individuazione di radici o spunti di quel ricchissimo bagaglio culturale che l’Occidente offre dall’Ecclesiaste in giù.
Indubbiamente l’intreccio tra note e parole di alcune canzoni che si sono imposte nella cultura contemporanea tradisce l’eco di espressioni e immagini “d’autore”. In La cetra e la penna i richiami vengono proposti in chiave tematica, cioè in capitoli dedicati a grandi orizzonti esistenziali come il viaggio, la noia, la solitudine, la morte, la follia. C’è anche il tema della risposta a meccanismi imperanti pure nell’ambito culturale: le famose leggi del mercato, secondo le quali, come affermava Oscar Wilde «tutti conoscono il prezzo delle cose ma pochi ne conoscono il valore».
Come illustra l’autore, considerando l’ambito italiano, tra i testi di artisti come Battiato, Dalla, De André, De Gregori, Vecchioni ritroviamo impronte letterarie di tutti i tempi, da Dante a Joice, da Omero a Baudelaire. E c’è anche il «grande codice dell’Occidente», come il cardinale Gianfranco Ravasi ha definito la Bibbia, ricordando che ha insegnato «a intrecciare nel pensare, scrivere e cantare, spirito e corpo, mito e storia, mistica e amore, sacro e profano, ma soprattutto Dio e uomo».
Nei secoli sono diverse e affascinanti le variabili della declinazione musicale dell’agone poetico, di cui la cetra e la penna sono gli emblemi. Ad esempio, la studiosa Ester Pietrobon nel libro intitolato proprio La penna interprete della cetra (2019) si è soffermata sugli anni del Rinascimento, cruciali per la storia della cristianità occidentale e per la letteratura italiana. Si tratta degli anni dei “volgarizzamenti” biblici, e dunque anche della riproposizione in lingua volgare della poesia dei Salmi, e meglio che in altri contesti si avverte la ricchezza del rapporto dinamico tra metrica, sintassi, ipotesto. Una ricchezza da non dimenticare.
Tornando a tempi più recenti, si può dire che, pur tra diversi limiti e distinguo da fare, a partire dalla seconda metà del Novecento, la canzone ha progressivamente occupato gran parte del ruolo sociale che prima spettava alla poesia. È difficile per le nuove generazioni immaginare come agli inizi del secolo scorso un liceale, ovviamente della minoranza che aveva accesso allo studio, cercasse nei libri di contemporanei, da D’Annunzio a Montale, quello che il suo equivalente moderno cerca oggi nei testi di cantanti preferiti. Il punto è che con il tempo, ci piaccia o non ci piaccia, i confini fra cultura “alta” e “bassa” si sono fatti più sfumati. Si usa il termine middlebrow per individuare un tipo di produzione culturale e artistica che si situa subito al di sotto della tradizionale cultura “alta” e che però è adatta all’intrattenimento delle grandi masse alle quali si dice che, a seconda dei punti di vista, fornisca la possibilità o l’illusione di accedere facilmente a prodotti culturali socialmente prestigiosi. Secondo gli studiosi, il middlebrow comprende anche la fascia più “nobile” che si è creata nell’ambito della musica leggera e che per quanto riguarda l’Italia si identifica proprio con i cantautori “storici” del secondo Novecento. Anche per questo può essere importante individuare tracce del bagaglio culturale del passato di cui si sono “nutriti” questi cantautori, sperando che continui a essere fonte di ispirazione per quell’affascinante magia che in tutti i tempi fonde parole, note, pause e intervalli.
di FAUSTA SPERANZA