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Siriani, iracheni, afghani… Le storie dei disperati arrivati con ogni mezzo fin nel cuore dell’Europa. di Fausta Speranza

PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

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Sair l’iracheno (sinistra) con padre e figlia incontrati lunga la strada (foto F. Speranza)

Sair è un ragazzo sui 25 anni. Cammina accanto al suo amico e si gira spesso a controllare che l’anziano dietro, sottobraccio a una ragazza, lo segua. Gli chiediamo se sono familiari, esita un attimo e poi ci dice: “Speriamo ci considerino tali e ci facciano salire sullo stesso autobus ma in realtà non lo siamo”. Sair ci racconta di provenire da Baghdad, capitale dell’Iraq infiammato ormai da oltre 20 anni di guerra e terrorismo e ci spiega che ha deciso di scappare quando uomini del sedicente Stato islamico lo hanno contattato chiedendogli di arruolarsi tra loro. “Uccidono innocenti – taglia corto –  non vorrei mai essere con loro, ma so che se rifiuti ti ammazzano e mio padre ha venduto qualcosa per darmi i soldi necessari al viaggio”. Sulla via – ci racconta – ha incontrato questo anziano e sua figlia, che invece vengono dalla Siria e, chiedendoci di non parlare a voce alta,  aggiunge che ormai non vorrebbero separarsi.

“Per gli ungheresi, noi parliamo la stessa lingua – sostiene – e dunque possono credere che siamo familiari”.  Sair sorride. E’ ben vestito e ci confida con fiducia che finora non ha speso tanti soldi, solo 2500 euro per la traversata dalla Turchia alla Grecia. Sorride soprattutto al pensiero di ritrovare suo fratello, partito dopo di lui, per la stessa tratta. “Appena potrò acquistare una sim telefonica che funziona in Europa – afferma – potrò parlarci e sapere che sta bene”.  “Sono sicuro che sta bene, e che non gli è successo come quelli partiti tre giorni prima di noi: affogati in 33”. “No, a mio fratello non è successo, sono sicuro”.  Ci saluta dicendo nel suo buon inglese: “Sai, la situazione a Baghdad è peggio di quanto raccontano tutte le news, non farti mai venire in mente di andarci”.
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Ragazzo che non parla inglese (foto F. Speranza).

Ha i capelli tinti di biondo e una maglietta un po’ attillata. Mentre ripete che avrà una nuova vita, ostenta un sorriso che definiremmo sfacciato se non fosse palese la reazione eccitata che segue una grande paura. Ha circa 40 anni e non vuole dirci il suo nome né farsi fotografare. Ci dice che vuole fare il parrucchiere e poi,  dopo qualche minuto di conversazione,  si para dietro un sorriso diverso, pacato e ci dice: “Sono afghano, per quelli come me non c’è proprio posto in Afghanistan”. Tamas Lederer di Migraion Aid ci spiega: “Dall’Afghanistan sono tanti gli uomini soli, senza famiglia, anche perchè sono tanti gli omosessuali che scappano”.

Una donna, al cenno di un poliziotto, fa un passo avanti ma il marito vicino reagisce in modo quasi scomposto e la trattiene. Lui ha capito che il poliziotto in inglese ha accompagnato il gesto di via con l’indicazione precisa che su quell’autobus c’è posto ancora solo per due persone. Loro sono quattro: ci sono le due figlie piccole. Abbiamo osservato la scena e l’uomo si gira a spiegarci che sono partiti dalla Siria in venti, tutti familiari. In Turchia si sono persi: sono rimasti loro quattro e mai – ci dice – potrebbe separarsi dalla moglie e dalle figlie. Tira un sorriso di sollievo quando il poliziotto capisce e  lascia tornare indietro la moglie che sembra persa.

Un altro uomo sui trent’anni ci passa davanti a testa bassa per accedere agli autobus. Gli sorridiamo e gli chiediamo in inglese se ha qualcosa da raccontarci perchè i cittadini europei conoscano di più le storie di chi chiede di essere accolto. Ci dice con un’espressione sofferente: “no English”. Riabbassa la testa. Poi la rialza e inizia a parlare nella sua lingua, che non conosciamo. Ci fermiamo ad ascoltarlo, con un auspicio nel cuore: che l’Europa sappia comprendere quello che c’è da capire al di là delle parole.

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Una mamma, troppo stanca per farsi intervistare (foto F. Speranza).

Una donna cammina accanto al marito con un bambino in braccio ma poi si avvicina a noi lasciando il marito un po’ indietro, con un gesto che si distingue dal modo di fare delle altre donne che non fanno un passo se non accanto ad un uomo. Ha capito che stiamo facendo interviste e in inglese ci dice: “Peccato che sono troppo stanca per parlare”. Un attimo dopo è di nuovo vicino al marito, avvolta nella coperta e – ci sembra – in una nuvola di dolore

Dalla fila si stacca un ragazzino di dieci anni suscitando la reazione immediata ma molto composta di un poliziotto austriaco. Il ragazzino raccoglie un marsupio da terra. Il poliziotto non lo perde di vista un attimo ma lo lascia esultare con un compagno di giochi.

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Una ragazza siriana in attesa di salire sull’autobus per un’altra destinazione europea (foto F. Speranza).

da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015

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