La revisione del regolamento sul diritto di asilo

di Fausta Speranza

Sulla questione migrazioni è drammaticamente evidente la mancanza di una risposta comune dell’Europa. E il rischio è che ogni nuova mossa confermi la stessa carenza. Dalle bozze di revisione del regolamento di Dublino, infatti, sembra emergere una preoccupante rinnovata fermezza nel chiudere le frontiere verso l’Europa settentrionale.

Tra i tanti aspetti da affrontare, c’è l’urgenza di ridefinire i regolamenti sulle richieste di diritto di asilo, dopo il riconoscimento da parte di tutti dell’inadeguatezza del trattato firmato nella capitale irlandese nel 1990, e già riformulato nel 2003 e nel 2013. Un lungo percorso, che dice la complessità del tema e il continuo evolversi delle emergenze, ma che racconta anche la difficoltà di trovare intese tra i paesi dell’Ue.

La crisi migratoria, iniziata molto prima ma esplosa nel 2015 e aggravatasi nel 2016, ha infatti messo in luce tutte le carenze di un sistema concepito nell’impianto un quarto di secolo fa. Se ne è parlato molto e la questione è allo studio della commissione europea. Ed è doveroso chiedersi in quale direzione si vada.

Tra i nodi da sciogliere, c’è quello delle liste dei paesi ritenuti «non sicuri». Solo provenendo da uno di questi, infatti, si ha diritto allo status di rifugiato. Con fatica si è arrivati a una lista comune, ma ogni stato continua a fare riferimento alla propria. Un solo esempio: se il richiedente asilo è un afghano, in Italia può vedersi riconosciuto lo status di protezione internazionale con un tasso del 100 per cento, in Bulgaria con un tasso del quattro per cento.

Ma il vero rebus da risolvere è decidere quale stato debba esaminare la domanda di protezione internazionale. Finora si è sempre indicato lo stato di primo arrivo. Ma, con gli sbarchi di migliaia di profughi, gli stati di ingresso si sono ritrovati di fronte a una mole di lavoro insostenibile. Basti pensare alle emergenze nel canale di Sicilia, che gravano sull’Italia, e a quelle sulla rotta balcanica riversatesi sulla Grecia.

C’è anche un altro aspetto da considerare. In base alla normativa vigente, neanche chi ha ottenuto l’asilo ha diritto a spostarsi in un altro stato. È per questo che i richiedenti rifiutano spesso di presentare domanda o di adempiere agli obblighi di identificazione nel primo luogo di approdo, perché non vogliono rimanere lì. È successo ai tanti che, sbarcati in Grecia e in Italia, volevano raggiungere la Germania o la Svezia e sono rimasti praticamente “intrappolati”. Molti di loro ancora lo sono sulle isole greche.

Da tutte queste situazioni è nata l’urgenza di rivedere le norme di Dublino. E ci si aspetterebbe, dunque, innanzitutto una modifica che porti verso una qualche forma di distribuzione delle responsabilità. Ma le bozze dei nuovi regolamenti, di cui si discute a Bruxelles, suscitano perplessità, perché contengono una serie di «deterrenti» e «vere e proprie punizioni» per i migranti che vogliano spostarsi all’interno dell’Unione.

A lanciare l’allarme è il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), un’organizzazione umanitaria indipendente costituitasi nel 1990, su iniziativa delle Nazioni Unite. Al Cir spiegano che scongiurare i cosiddetti movimenti secondari non può essere la priorità assoluta. Mettono in luce alcuni punti positivi delle bozze: il primo è l’assicurazione dell’assistenza legale gratuita per ogni richiedente asilo, che al momento non è garantita ovunque; il secondo è il riconoscimento di eventuali nuclei familiari formatisi nei lunghi viaggi che questa gente deve affrontare o nelle lunghe permanenze nei centri di accoglienza. Ma il punto è che, al di là di questi elementi positivi, nell’impianto generale manca un’assunzione di responsabilità comune. Al Cir parlano di «ossessione» contro i movimenti secondari.

Torna, dunque, la stessa guerra agli spostamenti dichiarata dopo l’ipotesi dei ricollocamenti, cioè della ridistribuzione tra gli stati europei di quote di migranti. È stato il consiglio che riunisce tutti i capi di stato e di governo dell’Ue a prendere questa decisione, ma poi alcuni paesi, in particolare quelli del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia), hanno alzato un muro. E la ridistribuzione di 160.000 profughi, prevista entro settembre 2017, non procede, con conseguenze gravissime sugli hotspot in Italia. Ancora una volta manca un’assunzione comune di responsabilità.

Osservatore Romano 16 Novembre, 2016

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