Le due yazide vincitrici del premio Sacharov sfuggite all’Is

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Da schiave a paladine della lotta al razzismo

di Fausta Speranza

            «È sempre difficilissimo raccontare di essere state schiave del sesso, ma è diverso sentir parlare di numeri o incontrare vittime, ed è per questo che siamo qui a ricordare».  Sono parole delle due ragazze yazide che sono state per mesi nelle mani di uomini del cosiddetto Stato islamico (Is) in Iraq. Raccontano in un’intervista in esclusiva all’Osservatore Romano che «l’Is odia ciò che più è umano, a partire dal valore della persona» e  «perseguita soprattutto yazidi e cristiani». Mettono in guardia sui «gravissimi rischi del radicalismo e del terrorismo» ma anche sui «pericoli delle risposte sbagliate a tutto ciò e di ogni forma di razzismo».

            Nadia Murad Basse e Lamya Haji Bashar appartengono alla comunità degli yazidi, una minoranza religiosa, di etnia curda, con 4000 anni di storia. Hanno ricevuto il premio Sacharov per i difensori dei diritti umani dal Parlamento europeo, nei giorni scorsi. Le abbiamo incontrate subito dopo: hanno rispettivamente 23 e 18 anni e lo stesso sofferto, ma intenso, proposito di denunciare, perché «ancora 3000 giovani yazide sono in schiavitù». C’è tanto coraggio e tanta dignità nelle espressioni di queste due ragazze minute, dagli occhi addolorati ma determinati. Dalla comunità internazionale si aspettano «la creazione di zone protette per il mezzo milione di yazidi che altrimenti moriranno o si riverseranno in Europa» e il giudizio della Corte penale internazionale sui «crimini contro l’umanità che l’Is commette».

            Nadia e Lamya vivevano a Kocho, un villaggio vicino alla città di Sinjar, nel nord dell’Iraq, a poca distanza dal confine siriano. Il 3 agosto del 2014 miliziani dell’Is hanno portato l’orrore: hanno ucciso gli uomini, hanno catturato i bambini e le donne, che hanno passato in rassegna, «per poi uccidere quelle che non avrebbero reso soldi al mercato delle schiave del sesso». La madre di Nadia è stata freddata da colpi di arma da fuoco davanti ai suoi occhi, insieme con altre 85 madri di famiglia o sorelle maggiori. Lamya ha visto calpestare i cadaveri di disabili e anziani ed è stata catturata con le sue sei sorelle, che sono ancora  nelle mani dell’Is, «se non si sono uccise». Sia Nadia che Lamya raccontano di tante ragazzine che «appena possono si tolgono la vita», non sostenendo tanto strazio. Le giovanissime in pubertà vengono «iniziate alla schiavitù con il rituale dello stupro di gruppo». Rituali e pratiche si ritrovano teorizzati in un agghiacciante manuale di 32 pagine scoperto in vari covi dell’Is e pubblicato nei mesi scorsi dai media. Emerge una “burocrazia” delle violenze, listini prezzi e contratti d’acquisto delle schiave “notarizzati” da giudici.  Si legge di «jihad sessuale» con le «femmine bottino di guerra». Proprio così si sono sentite appellare più volte le due ragazze, fragili nel fisico e forti nello spirito, che sono riuscite a scappare in momenti diversi, dopo essere state vendute più volte.

            Nadia, dopo tre mesi, è stata aiutata da una famiglia vicina a un campo profughi. Non vuole svelare maggiori dettagli perché ha paura per loro. Dal campo profughi è giunta in Germania.  Il 20 dicembre del 2015 ha ripetuto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la sua storia. A settembre di quest’anno è stata nominata ambasciatrice dell’Onu in tema di tratta di esseri umani. Confida che i riconoscimenti ricevuti le «restituiscono quell’onore che l’Is voleva sopprimere», ma avverte: «Il radicalismo e il terrorismo sono ovunque e si deve fare di più». Quando le chiediamo se crede ancora nel Bene dopo aver conosciuto tanto male, ci risponde senza esitazione: «Più il male mi toccava e più trovavo in me la forza di Dio che mai mi ha abbandonata; e più trovavo il Bene». E aggiunge: «Hanno ucciso mia madre, ma non hanno cancellato i suoi insegnamenti ad amare e a pregare».

            Lamya è riuscita a fuggire dopo otto mesi e al suo terzo tentativo,  dopo vessazioni e violenze ogni volta peggiori. Ha oltrepassato la zona controllata dall’Is con altre due compagne, ma, a due passi da lei, una delle due è saltata in aria su una mina delle tante disseminate dai miliziani. È sopravvissuta solo Lamya, che ha perso l’uso di un occhio ed è rimasta gravemente ferita al volto, su cui porta i segni dell’esplosione, dello choc per la morte atroce delle amiche, delle torture cui è stata sottoposta. Per lei è difficile anche abbozzare un sorriso. Ripete, con pacatezza ma fermezza, che «esseri umani non possono essere ridotti a merci». Con voce tremolante, aggiunge:  «Non ho mai visto un barlume di pietà in nessuno dei tanti uomini che mi ha violata o costretta a confezionare cinture esplosive». E aggiunge: «L’Is non è l’islam: l’islam è un’altra cosa».

            Nadia ci lascia con una raccomandazione. Chiede di «spiegare bene al mondo» che «oggi si devono fronteggiare due grandissimi rischi: il pericolo del radicalismo e del terrorismo ma anche il pericolo di risposte sbagliate in cui cresce lo spazio per qualche forma di razzismo». Il suo appello è chiarissimo: «Bisogna prevenire ogni forma di radicalismo e razzismo, sempre più pericolosi ovunque».

L’Osservatore Romano, 20 Dicembre 2016

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