Dieci anni fa la marea nera nel Golfo del Messico

E’ stato subito considerato il più grave disastro ambientale nella storia degli Stati Uniti, ma i danni causati dalla perdita di petrolio dalla piattaforma Deepwater Horizon nell’aprile del 2010, nelle acque del Golfo del Messico, sono stati il 30 per cento superiori a quanto stimato allora. Le interviste a Emanuele Riccardi, giornalista sul luogo, e Giorgia Monti di Greenpeace

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo l’esplosione, avvenuta esattamente il 20 aprile di dieci anni fa sulla piattaforma della British Petroleum (Bp) e costata la vita a 11 dei 126 uomini a bordo, per 87 giorni proseguì lo sversamento in mare del petrolio. Il mondo si allarmò e la compagnia petrolifera si impegnò a contenere i danni e a gestire la bonifica. Ma lo studio pubblicato nei giorni scorsi su “Science Advances” – redatto da ricercatori delle Università di Miami, della Georgia e del South Florida – documenta che “il petrolio tossico e invisibile si diffuse ben oltre l’impronta satellitare resa nota subito dopo la fuoriuscita di petrolio dalla Deepwater Horizon”. I danni della marea nera nel Golfo del Messico, dunque, sono stati sottostimati.

L’impatto sul momento

Il 15 luglio 2010, la BP dichiarava di essere riuscita a tappare la perdita del greggio, pur non essendo ancora sicura di quanto tempo avrebbe potuto resistere quest’ultima soluzione. Secondo le stime della BP stessa, al 15 luglio erano già stati riversati in mare tra i 3 e i 5 milioni di barili di petrolio, ovvero tra le 460.000 e le 800.000 tonnellate. Due mesi dopo, a settembre, il pozzo sarebbe stato definitivamente sigillato. La pubblicazione su “Science Advances” fa notare che subito dopo il disastro furono valutate le immagini satellitari che si basavano sui dati del National environmental satellite, data, and information service (Nesdis). Era difficile rendersi conto dell’entità della fuoriuscita non recuperabile, come conferma Emanuele Riccardi, corrispondente dell’agenzia Ansa inviato sul luogo subito dopo la notizia dell’esplosione:

La reale entità delle conseguenze per l’ecoambiente

Oggi il team di ricerca delle tre università statunitensi ha utilizzato simulazioni al computer tridimensionali per tracciare il petrolio, notando discrepanze sostanziali tra i nuovi risultati e le stime precedenti, perché alcune concentrazioni di petrolio più piccole spesso sfuggono alle rilevazioni satellitari. Hanno confrontato i dati emersi dalle tecniche di modellazione del trasporto di petrolio con i dati di telerilevamento e campionamento in mare per fornire una visione completa dello sversamento di petrolio. E’ emerso che una parte della perdita di petrolio è rimasta invisibile per i satelliti ma non per questo meno “tossica per la fauna marina”. La Bp ha fatto sapere di aver stanziato nei due anni successivi circa sette miliardi per risarcire privati e circa 25 miliardi per i governi degli Stati coinvolti. Nulla può cancellare i danni per l’ecosistema marino, per le specie animali aquatiche ma anche per uccelli migratori, per le popolazioni interessate, per le attività produttive,  come spiega Giorgia Monti, responsabile della campagna mare di Greenpeace-Italia:

Il petrolio e le sostanze chimiche disperdenti rilasciate sul luogo del disastro contaminano la popolazione locale nel breve e medio termine per via inalatoria; nel lungo termine per via orale, come conseguenza dell’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare. Le prime specie animali vittime del disastro sono state quelle di dimensioni più piccole e alla base della catena alimentare, come ad esempio il placton. Sono seguite le specie di dimensioni via via maggiori che sono state contaminate direttamente dagli idrocarburi e dalle sostanze chimiche disperdenti oppure indirettamente per essersi alimentate di animali contaminati. Fra le specie coinvolte, numerose specie di pesci e varie specie di uccelli delle rive o migratori come i pellicani. Gli agenti disperdenti,  ovvero le sostanze chimiche utilizzate per disperdere gli idrocarburi in parti più piccole e per farli precipitare sul fondale del mare, hanno consentito di eliminare la marea nera della superficie tuttavia non riducendo la quantità di greggio disperso nell’ambiente e depostosi sul fondo a oltre 1600 metri di profondità.

Il più grave ma non l’ultimo dei disastri nella zona

Lo sversamento di dieci anni fa superò oltre dieci volte per entità quello della petroliera Exxon Valdez che era avvenuto nel 1989, diventando il disastro ambientale più grave, noto come la “marea nera”. Ma non è stato l’ultimo in ordine di tempo nel Golfo del Messico. Ce ne sono stati almeno due molto seri. Il primo, anche se contenuto nei danni, è avvenuto solo quattro mesi e mezzo dopo quello della Deepwater Horizon. Un’altra piattaforma petrolifera è andata in fiamme nel Golfo del Messico, a pochi chilometri dal luogo dell’esplosione della piattaforma della Bp. Il panico si è diffuso rapidamente tra la popolazione del Golfo all’idea di un’altra catastrofe ambientale, ma l’incidente non ha causato vittime e non ha provocato forti perdite di petrolio nel mare. Salvi i 13 operai presenti. Ci sono state invece conseguenze quando tra l’11 e il 12 ottobre 2017, oltre 9.000 barili di petrolio si sono riversati nelle acque del Golfo del Messico a causa dello scoppio di condutture sottomarine avvenuto a circa 65 chilometri di distanza dalle coste di Venice, in Louisiana.

da Vatican NEWS del 21 aprile

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