Fausta Speranza – Città del Vaticano
Nel nord del Kosovo è iniziata ieri la rimozione delle barricate e dei blocchi stradali eretti tre settimane fa dalla locale popolazione serba per protesta contro l’arresto ritenuto ingiustificato di alcuni serbi e contro l’invio al nord a maggioranza serba di ingenti forze di polizia da parte della dirigenza di Pristina. La prima barricata ad essere stata rimossa è stata quella al posto di Merdare, il valico di frontiera più importante fra Kosovo e Serbia. Il presidente serbo Vučić, al termine dell’incontro giovedì con i serbi del Kosovo, che ha portato all’intesa e alla distensione, ha chiarito che sarebbero servite 24-48 ore perché la situazione si potesse normalizzare, con l’eliminazione dei numerosi blocchi e barricate in varie zone del nord del Kosovo. Dietro alle proteste per gli arresti c’era la questione delle targhe kosovare richieste a tutti i residenti, anche serbi, come spiega Giuseppe Morabito, generale dell’esercito in riserva e membro del Direttorato della Nato Defence College Foundation:
La questione delle targhe di per sé non è così grave – afferma Morabito – ma il punto è che in una situazione di latente tensione qualunque cosa può fungere da scintilla. A sbloccare la situazione di paralisi nei trasporti e nelle comunicazioni, in un’atmosfera di alta tensione – spiega il generale – è stato un incontro che Vučić ha avuto nella serata di giovedì con i rappresentanti dei serbi del Kosovo. L’incontro si è tenuto a Raska, località del sud della Serbia a pochi chilometri dalla frontiera con il Kosovo, con Vučić che è intervenuto in prima persona per evitare una escalation della tensione con conseguenze imprevedibili. La primo ministro serba Ana Brnabić aveva parlato nei giorni precedenti di situazione sull’orlo di un nuovo conflitto armato nei Balcani. Sempre nella serata di giovedì era stato rilasciato Dejan Pantic, il primo serbo ad essere arrestato il 10 dicembre scorso, posto sotto sorveglianza domiciliare e che potrà difendersi a piede libero. Morabito ricorda che l’intesa si basa sulle garanzie date da Unione europea e Stati Uniti su alcuni punti fondamentali e di grande rilevanza per la popolazione serba del Kosovo. Come ha detto stamane alla tv privata serba Pink Petar Petkovic, capo dell’Ufficio governativo serbo per il Kosovo, Ue e Usa garantiscono tra l’altro che non ci saranno altri arresti di serbi, compresi quelli coinvolti nelle proteste con blocchi stradali e barricate. Non vi potrà essere alcuna lista di serbi da arrestare, anche se i serbi non credono fino in fondo che ciò non avverrà e non sono certi che le garanzie internazionali verranno rispettate. Il generale Morabito ricorda che in Kosovo c’è il contingente Nato mentre la fase di pacificazione in Bosnia Erzegovina è stata affidata alla cura dell’Unione europea. Il Kosovo – spiega il generale – è l’area più problematica dei Balcani e succede in continuazione che ci siano momenti di confronto acceso e poi di distensione. In questo momento, vista la drammatica contingenza della guerra in Ucraina, Morabito concorda con quanto sostengono diversi analisti e cioè che a scatenare le proteste, a soffiare sul fuoco, possa essere stata la pressione estera di chi è interessato a tenere occupata la Nato sul fronte Balcani.
Il desiderio di pace dei giovani
Morabito, che insegna Studi strategici in un’Università privata di Pristina, spiega che in Kosovo i giovani sono moltissimi, soprattutto sono per la maggior parte nati dopo la conclusione del conflitto nei Balcani. Hanno tutti – assicura – il desiderio forte di vivere in pace, di costruirsi un futuro. Tanti – dice – guardano all’estero per approfondire gli studi oppure per avere maggiori opportunità di lavoro. Non hanno vissuto anagraficamente la guerra – afferma – e non vogliono che la storia torni indietro.
L’incoraggiamento dell’Ue
“La diplomazia ha prevalso nella riduzione delle tensioni nel nord del Kosovo”, ha affermato l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell, sottolineando che la violenza non può mai essere una soluzione e ribadendo che “ora c’è bisogno di progressi urgenti nel dialogo”.
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