Israele-Usa: il braccio di ferro sui coloni e i miti da sfatare

Conversazione con David Makovsky
di Fausta Speranza

Intervista al direttore del Washington Institute’s Project on the Middle East Peace Process, uno dei più stretti consulenti di Obama sulla questione palestinese: la strategia Usa dei piccoli passi, Netanyahu, i coloni, l’Iran, il nucleare, il Pakistan.

E’ aperta la partita tra Stati Uniti e Israele sugli insediamenti, dopo il colloquio senza frutti in Europa tra il premier Netanyahu e l’inviato speciale Usa per il Medio Oriente, Mitchell. Lo stop a nuove colonie in territori palestinesi è un punto fermo della strategia di Obama per il Medio Oriente, secondo uno dei suoi più stretti consulenti: David Makovsky, direttore del Washington Institute’s Project on the Middle East Peace Process.

MAKOVSKY Obama ritiene che, perché si arrivi ad una pace tra due popoli e due Stati, non ci può essere ambiguità sul territorio. Chiede una linea di demarcazione chiara: qui c’è Israele e qui i territori palestinesi. Dunque Israele deve concretamente e prontamente smetterla con gli insediamenti. L’espansione non se la possono permettere. Ma basta anche razzi contro il territorio israeliano da Gaza.

DOMANDA Ma per Netanyahu non è facile: i coloni rappresentano un potere enorme, dalle compagnie di costruzione arrivano soldi per la campagna elettorale, in molti casi i figli di coloni si arruolano come volontari ed è difficile che accettino di partecipare a evacuazioni…

MAKOVSKY E’ vero ma con un braccio di ferro sugli insediamenti si arriverà all’impasse. Io conosco Netanyahu dagli Anni Novanta, quando ero inviato in Israele e ho lavorato anche al Jerusalem Post. Credo che il personaggio politico da allora sia cambiato. Allora era un personaggio più polarizzante, ora cerca più il consenso. E credo che in Israele le cose siano mature per dire no alle espansioni e sì a due Stati. Ma devono farlo presto e non solo a parole ma nei fatti.

DOMANDA Secondo lei, qual è la via da percorrere per il negoziato e quali le posizioni da superare? Lei nel suo ultimo libro appena edito dalla Viking Penguin parla di miti da sfatare…

MAKOVSKY Bisogna lavorare per il negoziato israelo-palestinese senza aspettare di partorire la grande idea, rinunciando alla soluzione delle soluzioni. Ci vuole maggiore umiltà per studiare meglio le dinamiche locali che non sono le stesse di alcuni anni fa e che cambiano in continuazione. Altro mito da sfatare è che la pace tra palestinesi e israeliani sia la panacea per tutti i mali del Medio Oriente. Non è vero che solo risolvendo il conflitto, che peraltro rappresenta una tragedia immane da 50 anni e che chiede drammaticamente la pace, si possa guardare alle altre problematiche della regione. In qualche modo questo falso mito blocca una seria politica regionale: essere in attesa della grande teoria risolutrice del conflitto per eccellenza è un alibi.
Inoltre, dopo la scuola dei neoconservatori che pensano di poter imporre la democrazia e la cosiddetta scuola del realismo che punta al petrolio e cerca di imporre la pace, è ora di rinunciare a imporre qualunque cosa.

DOMANDA Il presidente USA Obama è su questa lunghezza d’onda?

MAKOVSKY Sì. Credo che Obama veda chiaramente che noi non siamo sul campo, che non possiamo risolvere tutto insieme, che non c’è un’azione risolutiva da fare e sta investendo anche nei piccoli passi. Ma c’è un punto fermo: Israele deve interrompere l’espansione delle colonie.

DOMANDA Nella regione c’è anche la variabile niente affatto da poco dell’Iran…

MAKOVSKY Se l’Iran mette a punto la bomba atomica cambia tutto il quadro del Medio Oriente. Cambia il ruolo di Hamas o dei Fratelli musulmani ai quali per troppo tempo abbiamo guardato come ad un fenomeno solo egiziano. Bisogna lavorare per un accordo sul nucleare e, anche se il negoziato fallisse, gli Stati Uniti avrebbero fatto un passo in avanti: si dovrebbe prendere atto del fatto che la negoziazione non funziona.

DOMANDA Ma è possibile dare una scadenza all’Iran? Obama ha teso la mano prima della rivolta interna all’Iran e ha fatto capire di aspettare settembre per primi segnali di risposta e la fine dell’anno per segnali più concreti. Dopo i fatti interni all’Iran a seguito delle elezioni del 12 giugno, cambia la prospettiva di una deadline?

MAKOVSKY Credo di no. Il prossimo Summit del G20 a Pittsburgh marcherà già una scadenza. E poi entro dicembre è l’orizzonte che Obama si è dato. C’è da dire che l’Iran è più vulnerabile. Il popolo è più arrabbiato con il regime di quanto già fosse. E’ più difficile per la diplomazia. Se l’Iran vuole essere parte della comunità internazionale, trova davvero la porta aperta con Obama. Non credo che ci siano criteri dal punto di vista statunitense da rivedere. E’ impossibile sapere se lo scossone che ha avuto il potere in Iran provochi maggiore inflessibilità sul piano delle relazioni con l’esterno. Nessun analista può dirlo: potrebbe esserci maggiore ripiegamento o qualcosa potrebbe mettersi in moto.

DOMANDA Cosa risponderebbe alle accuse di ingerenza straniera mosse da Teheran?

MAKOVSKY E’ chiaro che gli Stati Uniti simpatizzano per quanti si oppongono a un regime o soffrono una tirannia. Ma è folle pensare che tutte le insurrezioni ai regimi nel mondo sono incoraggiate dalla Cia: è una barzelletta. Chiaramente l’Iran tenta di far originare tutte le proteste da fuori. Non dovrebbero essere sorpresi dalle ribellioni, visti i metodi usati. Credo, in ogni caso, che gli Stati Uniti abbiano messo a fuoco molto bene che l’opposizione in un Paese deve venire dall’interno e non da fuori. I diritti umani sono una priorità per Obama così come l’accordo sul nucleare, ma è consapevole che non possono essere imposti.

DOMANDA In questo momento parlando di nucleare non si può dimenticare che il Pakistan che detiene l’arma atomica è in una situazione di estrema precarietà politica e sociale. E’ drammatico quanto sta accadendo con la presa del potere di vaste zone dei talebani e la destabilizzazione di altre aree…

MAKOVSKY E’ molto pericoloso quanto sta accadendo in Pakistan! Molto pericoloso. Posso dire che gli Stati Uniti hanno messo in campo il diplomatico migliore di cui dispongono, Richard Holbrook. Holbrook sta viaggiando in continuazione tra Afghanistan, Pakistan e India. Dunque è tutta un’area da considerare.

DOMANDA Dopo alcuni mesi di presidenza, come si vede in concreto l’intenzione dichiarata di Obama di scegliere il multilateralismo?

MAKOVSKY Nella politica di Obama è evidente: con questa amministrazione gli Stati Uniti non vogliono essere soli in Iran e in Afghanistan e guardano appunto molto seriamente al G20. Tra l’altro la situazione economica impone il multilateralismo. E’ vero però che già il secondo mandato di Bush aveva visto qualcosa cambiare in questo senso.

DOMANDA Cosa è cambiato o cosa sta cambiando dalla campagna elettorale alla fase di governo del primo presidente afroamericano della storia statunitense? Già si parla di cali di consenso…

MAKOVSKY In campagna elettorale tutto può essere bianco o nero ed è bello vedere il presidente prendere posizioni chiare e nette. Obama rappresenta il nuovo e porta idee fresche su tante questioni esterne o interne ma ora è il momento di mettere insieme persone che la pensano diversamente. Quando si governa si passa dalle parole alle soluzioni concrete. Lo vediamo in questi giorni con la riforma sanitaria. Dopo i discorsi impeccabili deve riuscire ad ottenere voti per un progetto di riforma concreto.

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