Un volume ripercorre la vita di Arminio Wachsberger, uno dei pochi sopravvissuti
16 Ottobre 2023
di FAUSTA SPERANZA
Il dramma della Shoah, declinato a Roma in particolare con “il sabato nero”, per tanto tempo è stato accompagnato da una sorta di afasia collettiva. Per anni i testimoni diretti non sono riusciti a trovare le parole adatte a riferire quello che nell’immaginario anche verbale non sembrava essere stato concepito. Nessun termine poteva essere all’altezza del vissuto e nessuno sembrava davvero interessato ad ascoltare narrazioni dall’abisso di disumanità che era stato raggiunto. Una voce ha fatto eccezione proprio in riferimento al 16 ottobre 1943, quella di Arminio Wachsberger, uno dei pochi sopravvissuti tra gli arrestati nel quartiere ebraico. Conosceva il tedesco e ha fatto da interprete e forse proprio questo paradossale avvicendarsi di traduzioni lo ha aiutato a trovare anche il linguaggio comprensibile per un’esperienza al limite della comunicabilità.
«Un testimone d’eccezione della deportazione degli ebrei di Roma», si legge nel sottotitolo del volume dello storico Gabriele Rigano, intitolato L’interprete di Auschwitz (Milano, Edizioni Guerini e Associati 2015, p. 254). È il lavoro scientifico di uno studioso e ha tutte le caratteristiche di un saggio rigoroso che ricostruisce dettagli e risvolti della vicenda di Arminio Wachsberger attraverso un minuzioso esame delle carte e dei documenti, ma trasuda l’emotività di una presa diretta.
Rigano lo definisce «un testimone loquace e appassionato di buona memoria», che ha lasciato varie testimonianze scrivendo e parlando sin da subito dopo la fine della guerra, pur avendo un carattere riservato. «A suo modo un protagonista delle vicende che ha vissuto, senza lasciarsi mai schiacciare dal senso di impotenza, che doveva essere un macigno sulla vita degli ebrei perseguitati». La conoscenza delle lingue e la sua intraprendenza gli hanno conquistato il ruolo di intermediario tra i deportati e le autorità naziste, anche con Mengele ad Auschwitz e poi in tutti i luoghi di detenzione dove si è trovato tra il 1943 e il 1945. Successivamente, nella Germania liberata tra il 1946 e il ‘49 ha testimoniato nelle aule dei tribunali. «Io, naturalmente, come al solito, fungevo anche da interprete», racconta Arminio.
Dal confronto con gli strumenti dello storico emerge un quadro in cui Arminio ha cercato di ritrovare sempre il linguaggio dell’umanità. Nato nel 1913 a Fiume, figlio del rabbino capo di questa città cosmopolita e aperta dove era normale parlare diverse lingue, si trasferisce a Roma nel 1936 dove sposa Regina Polacco da cui avrà, poco dopo, una figlia. Viene sorpreso dalla razzia di quel sabato 16 ottobre con la sua famiglia. Durante il trasferimento al Collegio militare e nei due giorni successivi prima della partenza del treno dalla stazione Tiburtina verso Auschwitz, da subito tenta di salvare più vite possibile. Consegna un bimbo a una donna non ebrea che, intercettato lo sguardo della mamma ebrea sul camion, chiede di riavere «suo figlio». Arminio convince le SS confermando la versione delle due donne. Dichiara, sotto la sua responsabilità, che alcuni dal nome non prettamente ebraico sono stati presi per errore. Portato ad Auschwitz, scampa alle selezioni ma non riesce a salvare invece la moglie e la figlia. Lavorando per il famigerato Mengele, riesce invece a salvare altri procacciando medicine e viveri. Porta conforto ai malati. Trasferito a Varsavia insieme con altri ebrei romani, per lavorare allo sgombero delle macerie del ghetto distrutto dai tedeschi dopo la rivolta, nell’estate del 1944 è tra quanti vengono trasferiti con una terribile marcia al campo di Dachau. Nell’aprile del 1945 viene liberato. Continuerà a collaborare nella ricerca dei sopravvissuti e a testimoniare nei processi contro gli aguzzini. Tornerà in Italia nel 1949, dove morirà nel 2002.
«Grazie al suo instancabile ruolo di testimone, Arminio Wachsberger — scrive Rigano — ci restituisce con precisione l’ambiente ebraico di Fiume, la Roma fascista durante le leggi razziali, Auschwitz, le marce della morte, la liberazione dei campi». Lo storico definisce i suoi racconti «fondamentali perché tra i 16 sopravvissuti del 16 ottobre è stato l’unico a parlare subito» e perché «il suo è un punto di vista particolare, diremmo pure “privilegiato”, rispetto a quello degli altri prigionieri, essendo in continuo contatto con i nazisti». Inoltre, «dopo la guerra la sua testimonianza fu importantissima per determinare il destino di tanti ebrei italiani deportati e morti che aveva incontrato».
A 80 anni da quei tragici eventi, restano pagine di storia da finire di ricomporre e, come sottolinea Rigano, «sono gli eredi che spesso si fanno promotori di ricerche, ma c’è la difficoltà per i testimoni — diretti o indiretti come gli eredi — di accettare di sottoporre le loro memorie ai meccanismi della verificabilità storica: lo vivono come una profanazione». Proviamo a immaginare di quanto tatto e sensibilità ci sia bisogno, mentre Rigano aggiunge una sorta di appello: «Oggi come oggi la contrapposizione tra storici e testimoni va superata: senza le storie individuali il lavoro degli storici perde la “carne”, si deumanizza, ma senza l’impegno degli studiosi le testimonianze possono essere svilite dai negatori della Shoah che si attaccano ai normali errori di memoria per delegittimare tutto il patrimonio di testimonianza sulla deportazione e lo sterminio». Lo storico li definisce «gli Eichmann di carta».
Incontrare di persona Rigano ci permette di ascoltare l’eco particolare del suo lavoro oltre le pagine del libro: «Spesso noi storici ci occupiamo di grandi numeri e eventi collettivi, soffermarsi sulle vicende di una singola persona ci permette di addentrarci nella quotidianità, nelle passioni, paure, speranze delle persone che vivendo fanno la storia». Confrontarsi con le narrazioni dei deportati è sempre «destabilizzante» — ci confida — perché «ci richiama alla tragica capacità di odio di cui è capace l’uomo». Ma non finisce tutto lì: «Ci mette anche di fronte alla capacità di opporsi al male, che ci richiama alla possibilità di poter fare sempre qualcosa, anche nelle situazioni più estreme».