Consiglio d’Europa settembre 2009

Aperto a Strasburgo il Consiglio d’Europa: clima e Caucaso tra i temi centrali

Un protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo per difendere il diritto ad un ambiente sano: è tra le proposte in tema di cambiamenti climatici dei quali discute il Consiglio d’Europa. L’Assemblea parlamentare si è aperta stamane a Strasburgo e prevede, oltre all’elezione del prossimo Segretario Generale, la discussione di molti altri argomenti. Ce ne parla la nostra inviata a Strasburgo Fausta Speranza.

 28 settembre 2009 ore 14.00

 28 settembre 2009 ore 18.00 in inglese

La situazione  nel Caucaso del Nord e la posizione della Russia sono tra i principali temi di dibattito all’Assemblea  del Consiglio d’Europa che si è aperta a Strasburgo. All’ordine del giorno anche l’elezione del nuovo segretario generale. Ce ne parla la nostra inviata a Strasburgo, Fausta Speranza:

 29 settembre 2009 ore 8.00

 29 settembre 2009 ore 12.00

29 settembre 2009 ore 14.00

  29 settembre 2009 ore 19.30

Pronunciamento forte stamane sulla situazione del Caucaso all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, che ieri pomeriggio ha eletto il suo nuovo segretario generale, il laburista norvegese Thorbojorn Jagland. Il servizio da Strasburgo della nostra inviata Fausta Speranza:

 30 settembre 2009 ore 14.00

 30 settembre 2009 ore 19.30

Al Consiglio d’Europa si discute oggi dei poteri della delegazione russa: un gruppo di 72 parlamentari ha chiesto di rimetterli in discussione per il mancato rispetto di alcuni impegni da parte di Mosca. Ieri è stato chiesto a Mosca di autorizzare l’accesso in Abkhazia e Ossezia del Sud degli aiuti umanitari. All’Assemblea parlamentare, che si concluderà venerdì, domani si parlerà anche del futuro del Consiglio d’Europa alla luce dei 60 anni di esperienza compiuti quest’anno. Priorità del Consiglio d’Europa è la tutela dei diritti umani. Dell’importanza della difesa della dignità della persona e delle sfide attuali Fausta Speranza ha parlato con mons. Aldo Giordano, Osservatore Permanente della Santa Sede a Strasburgo:

  1 ottobre 2009

Dall’aiuto umanitario a un’esperienza di condivisione

Dall’aiuto umanitario a un’esperienza di condivisione: accade in una parrocchia e in un  Centro dei Gesuiti  di Londra, tra  cattolici e musulmani
◊ Uno sciopero della fame che va da Roma a Parigi, da Londra a Toronto. E’ la scelta di tanti iraniani che vivono nel mondo per esprimere solidarietà a un gruppo di loro che vive in una particolare situazione in Iraq. Il servizio di Fausta Speranza:

Si tratta di 3500 dissidenti al regime di Teheran, da 30 anni nel campo iracheno per rifugiati di Ashraf. Sotto gli anni di Saddam Hussein hanno vissuto indisturbati anche se tra loro c’erano diversi appartenenti al gruppo dei Mujaheddin del popolo che in passato è stato coinvolto in episodi di terrorismo. Per questo il gruppo è ancora sulla lista nera degli Stati Uniti, mentre l’Unione Europea ha riconosciuto nel gennaio scorso che hanno assolutamente messo al bando scelte di violenza. Uomini, donne e bambini di Ashraf durante la guerra scoppiata nel 2003 hanno goduto della Convenzione IV di Ginevra, come persone non coinvolte nel conflitto, e hanno accettato il disarmo totale ma dal ritiro delle forze internazionali, non hanno pace. Il campo è stato isolato con pesanti conseguenze sul piano umanitario, verificate anche da una delegazione di parlamentari europei nella scorsa primavera. Nel mese di agosto ci sono stati degli attacchi e 36 persone sono state portate via dalle forze dell’ordine irachene. E’ per sapere qualcosa di queste persone e delle altre isolate nel campo di Ashraf, che parenti e amici iraniani nelle principali città del mondo stanno facendo lo sciopero della fame, con dimostrazioni davanti alle ambasciate. A Londra il gruppo, che, ormai su sedie a rotelle, chiede l’attenzione internazionale davanti all’ambasciata statunitense ha trovato conforto dal punto di vista umano dai parrocchiani della vicina chiesa dell’Immacolata Concezione e dal vicino Mount Street Jesuit Centre. Abbiamo raggiunto telefonicamente padre William Pearshall, responsabile del Centro:

17 settembre 2009

Una lettera al Papa è l’ultima speranza dei disperati di Ashraf

Sono disperati e chiedono aiuto al Papa. Fin qui niente di strano. Si rivolgono a Benedetto XVI con un’intensa, e allo stesso tempo semplice, lettera firmata da 36 nomi arabi. Sono iraniani, membri dei Mojaheddin del Popolo, l’organizzazione che fino a gennaio scorso stava nella lista nera dei terroristi dell’Unione Europea e che compare ancora nella black list degli Stati Uniti. Al Papa chiedono di “evitare una catastrofe umanitaria”. Si definiscono “vittime di ingiustizie e di oppressione” e dichiarano di essere “indeboliti da giorni di sciopero della fame”. Sono abitanti di Ashraf, il campo profughi in Iraq dove da 25 anni sono rifugiati dissidenti del regime islamico di Teheran. Il campo ospita 3400 persone di cui 1000 donne e centinaia di bambini. I 36 di cui parliamo sono stati prelevati dal campo dalle forze dell’ordine irachene il 28 luglio scorso e da allora sono nel carcere iracheno di Al-Khalis, a 30 Km da Ashraf. Nella lettera datata 12 settembre, si definiscono “ostaggio” delle forze dell’ordine irachene e si appellano al “Grande leader religioso della Chiesa Cattolica Romana e difensore dell’eredità di Cristo”. Raccontano al Papa, con asciutta drammaticità, di aver subito “torture” e di soffrire “condizioni igienico sanitarie disumane”. Giurano di essere “tenuti in carcere illegalmente e con false e inesistenti accuse”. Raccontano che il Tribunale locale, esattamente un mese dopo l’arresto, il 28 agosto, ha ordinato la scarcerazione in assenza di accuse, ma che dall’ufficio del premier iracheno Al Maliki è giunto l’ordine di continuare a trattenerli. Da quel momento hanno iniziato lo sciopero della fame. “Umilmente” chiedono “a Sua Santità il Papa” di “adottare tutte le misure in suo potere” per aiutarli, cominciando da “un appello perché intervengano funzionari dell’ONU”. Per loro stessi incarcerati, chiedono il rilascio ma anche, nell’immediato, l’assistenza medica adeguata “per i sette di loro che sono seriamente feriti”. Per la popolazione di Ashraf, denunciano il rischio di ulteriori violenze. Gli abitanti del campo profughi, così ostili al regime islamico di Teheran,  hanno vissuto indisturbati sotto il laicissimo Saddam Hussein. Allo scoppio del conflitto nel 2003, hanno accettato di consegnare ogni tipo di arma e hanno, dunque, goduto della IV Convenzione di Ginevra in quanto persone non coinvolte nella guerra. Non hanno avuto problemi fino al passaggio di poteri alle autorità irachene, al momento del ritiro delle forze statunitensi a inizio 2009. In primavera è cominciato un isolamento che è diventato assedio, con scarsità di beni alimentari e mancanza di qualunque tipo di carburante. Assedio confermato anche da una delegazione di parlamentari europei. Quindi, il 28 luglio scorso, l’attacco da parte delle forze dell’ordine irachene. Nella lettera, i 36 raccontano che “al momento della loro cattura sono state uccise 11 persone e sono state ferite altre 500”. “Considerata l’influenza del dittatoriale regime in Iran sull’Amministrazione dell’Iraq – affermano nella lettera – abbiamo grande paura e preoccupazione”. A parte la situazione attuale, quello che angoscia di più è la prospettiva di una “estradizione di massa in Iran”. Spiegano al Santo Padre che “già in molte occasioni il regime iraniano ha fatto richiesta in tal senso”. “In attesa di forze dell’ONU ad Ashraf, – scrivono – le forze militari statunitensi ancora presenti in Iraq dovrebbero assicurare protezione agli abitanti del campo”. Dovrebbero farlo – spiegano – “in base agli accordi sottoscritti dalle autorità USA proprio con tutti gli abitanti di Ashraf”. Per ottenere tutto ciò, l’appello al Papa: “Il suo impegno per le persone in carcere e per la popolazione di Ashraf eviterà un’altra catastrofe umanitaria e solleverà dalle pene e dalle sofferenze le famiglie e i parenti degli abitanti del campo che protestano e si sono uniti allo sciopero della fame in 19 differenti città del mondo”. Tra queste città ci sono Londra, Parigi, Toronto, ma pur essendoci decine di persone ormai sulle sedie a rotelle di fronte a varie Ambasciate, perché segnate da 50 giorni senza cibo, non se ne è parlato granchè. Da qui la scelta disperata ma nello stesso tempo carica di speranza di appellarsi a Benedetto XVI, con una citazione di un brano del Vangelo di Luca in cui si dice che Gesù è stato mandato per proclamare che gli oppressi saranno liberati dagli oppressori.

15 settembre 2009

Terra Santa: straordinaria scoperta archeologica di reperti del tempo di Gesù

Potrebbe essere una riproduzione del candelabro a sette bracci che si trovava nel Tempio di Gerusalemme il bassorilievo scoperto in questi giorni a Migdal, sulle rive del lago di Tiberiade, nel nord di Israele. Una straordinaria scoperta. Il servizio di Fausta Speranza.

13 settembre 2009

Migrazioni, clima, crisi, valori.Le priorità del presidente del Parlamento europeo Buzek

La cooperazione di tutta l’Europa per le politiche che riguardano il Mediterraneo è doverosa ed è nell’interesse di tutti: lo ha detto il presidente del Parlamento Europeo Jerzi Buzek che si trova in visita ufficiale in Italia. Oggi pomeriggio il colloquio con il presidente della Camera, Fini, e domani quello con il presidente della Repubblica Napolitano. Inoltre, in questi giorni a Roma prenderà parte all’incontro con i presidenti delle Camere Basse dei Paesi membri del G8. All’incontro con i giornalisti ha partecipato per noi Fausta Speranza:

12 settembre 2009

Israele-Usa: il braccio di ferro sui coloni e i miti da sfatare

Conversazione con David Makovsky
di Fausta Speranza

Intervista al direttore del Washington Institute’s Project on the Middle East Peace Process, uno dei più stretti consulenti di Obama sulla questione palestinese: la strategia Usa dei piccoli passi, Netanyahu, i coloni, l’Iran, il nucleare, il Pakistan.

E’ aperta la partita tra Stati Uniti e Israele sugli insediamenti, dopo il colloquio senza frutti in Europa tra il premier Netanyahu e l’inviato speciale Usa per il Medio Oriente, Mitchell. Lo stop a nuove colonie in territori palestinesi è un punto fermo della strategia di Obama per il Medio Oriente, secondo uno dei suoi più stretti consulenti: David Makovsky, direttore del Washington Institute’s Project on the Middle East Peace Process.

MAKOVSKY Obama ritiene che, perché si arrivi ad una pace tra due popoli e due Stati, non ci può essere ambiguità sul territorio. Chiede una linea di demarcazione chiara: qui c’è Israele e qui i territori palestinesi. Dunque Israele deve concretamente e prontamente smetterla con gli insediamenti. L’espansione non se la possono permettere. Ma basta anche razzi contro il territorio israeliano da Gaza.

DOMANDA Ma per Netanyahu non è facile: i coloni rappresentano un potere enorme, dalle compagnie di costruzione arrivano soldi per la campagna elettorale, in molti casi i figli di coloni si arruolano come volontari ed è difficile che accettino di partecipare a evacuazioni…

MAKOVSKY E’ vero ma con un braccio di ferro sugli insediamenti si arriverà all’impasse. Io conosco Netanyahu dagli Anni Novanta, quando ero inviato in Israele e ho lavorato anche al Jerusalem Post. Credo che il personaggio politico da allora sia cambiato. Allora era un personaggio più polarizzante, ora cerca più il consenso. E credo che in Israele le cose siano mature per dire no alle espansioni e sì a due Stati. Ma devono farlo presto e non solo a parole ma nei fatti.

DOMANDA Secondo lei, qual è la via da percorrere per il negoziato e quali le posizioni da superare? Lei nel suo ultimo libro appena edito dalla Viking Penguin parla di miti da sfatare…

MAKOVSKY Bisogna lavorare per il negoziato israelo-palestinese senza aspettare di partorire la grande idea, rinunciando alla soluzione delle soluzioni. Ci vuole maggiore umiltà per studiare meglio le dinamiche locali che non sono le stesse di alcuni anni fa e che cambiano in continuazione. Altro mito da sfatare è che la pace tra palestinesi e israeliani sia la panacea per tutti i mali del Medio Oriente. Non è vero che solo risolvendo il conflitto, che peraltro rappresenta una tragedia immane da 50 anni e che chiede drammaticamente la pace, si possa guardare alle altre problematiche della regione. In qualche modo questo falso mito blocca una seria politica regionale: essere in attesa della grande teoria risolutrice del conflitto per eccellenza è un alibi.
Inoltre, dopo la scuola dei neoconservatori che pensano di poter imporre la democrazia e la cosiddetta scuola del realismo che punta al petrolio e cerca di imporre la pace, è ora di rinunciare a imporre qualunque cosa.

DOMANDA Il presidente USA Obama è su questa lunghezza d’onda?

MAKOVSKY Sì. Credo che Obama veda chiaramente che noi non siamo sul campo, che non possiamo risolvere tutto insieme, che non c’è un’azione risolutiva da fare e sta investendo anche nei piccoli passi. Ma c’è un punto fermo: Israele deve interrompere l’espansione delle colonie.

DOMANDA Nella regione c’è anche la variabile niente affatto da poco dell’Iran…

MAKOVSKY Se l’Iran mette a punto la bomba atomica cambia tutto il quadro del Medio Oriente. Cambia il ruolo di Hamas o dei Fratelli musulmani ai quali per troppo tempo abbiamo guardato come ad un fenomeno solo egiziano. Bisogna lavorare per un accordo sul nucleare e, anche se il negoziato fallisse, gli Stati Uniti avrebbero fatto un passo in avanti: si dovrebbe prendere atto del fatto che la negoziazione non funziona.

DOMANDA Ma è possibile dare una scadenza all’Iran? Obama ha teso la mano prima della rivolta interna all’Iran e ha fatto capire di aspettare settembre per primi segnali di risposta e la fine dell’anno per segnali più concreti. Dopo i fatti interni all’Iran a seguito delle elezioni del 12 giugno, cambia la prospettiva di una deadline?

MAKOVSKY Credo di no. Il prossimo Summit del G20 a Pittsburgh marcherà già una scadenza. E poi entro dicembre è l’orizzonte che Obama si è dato. C’è da dire che l’Iran è più vulnerabile. Il popolo è più arrabbiato con il regime di quanto già fosse. E’ più difficile per la diplomazia. Se l’Iran vuole essere parte della comunità internazionale, trova davvero la porta aperta con Obama. Non credo che ci siano criteri dal punto di vista statunitense da rivedere. E’ impossibile sapere se lo scossone che ha avuto il potere in Iran provochi maggiore inflessibilità sul piano delle relazioni con l’esterno. Nessun analista può dirlo: potrebbe esserci maggiore ripiegamento o qualcosa potrebbe mettersi in moto.

DOMANDA Cosa risponderebbe alle accuse di ingerenza straniera mosse da Teheran?

MAKOVSKY E’ chiaro che gli Stati Uniti simpatizzano per quanti si oppongono a un regime o soffrono una tirannia. Ma è folle pensare che tutte le insurrezioni ai regimi nel mondo sono incoraggiate dalla Cia: è una barzelletta. Chiaramente l’Iran tenta di far originare tutte le proteste da fuori. Non dovrebbero essere sorpresi dalle ribellioni, visti i metodi usati. Credo, in ogni caso, che gli Stati Uniti abbiano messo a fuoco molto bene che l’opposizione in un Paese deve venire dall’interno e non da fuori. I diritti umani sono una priorità per Obama così come l’accordo sul nucleare, ma è consapevole che non possono essere imposti.

DOMANDA In questo momento parlando di nucleare non si può dimenticare che il Pakistan che detiene l’arma atomica è in una situazione di estrema precarietà politica e sociale. E’ drammatico quanto sta accadendo con la presa del potere di vaste zone dei talebani e la destabilizzazione di altre aree…

MAKOVSKY E’ molto pericoloso quanto sta accadendo in Pakistan! Molto pericoloso. Posso dire che gli Stati Uniti hanno messo in campo il diplomatico migliore di cui dispongono, Richard Holbrook. Holbrook sta viaggiando in continuazione tra Afghanistan, Pakistan e India. Dunque è tutta un’area da considerare.

DOMANDA Dopo alcuni mesi di presidenza, come si vede in concreto l’intenzione dichiarata di Obama di scegliere il multilateralismo?

MAKOVSKY Nella politica di Obama è evidente: con questa amministrazione gli Stati Uniti non vogliono essere soli in Iran e in Afghanistan e guardano appunto molto seriamente al G20. Tra l’altro la situazione economica impone il multilateralismo. E’ vero però che già il secondo mandato di Bush aveva visto qualcosa cambiare in questo senso.

DOMANDA Cosa è cambiato o cosa sta cambiando dalla campagna elettorale alla fase di governo del primo presidente afroamericano della storia statunitense? Già si parla di cali di consenso…

MAKOVSKY In campagna elettorale tutto può essere bianco o nero ed è bello vedere il presidente prendere posizioni chiare e nette. Obama rappresenta il nuovo e porta idee fresche su tante questioni esterne o interne ma ora è il momento di mettere insieme persone che la pensano diversamente. Quando si governa si passa dalle parole alle soluzioni concrete. Lo vediamo in questi giorni con la riforma sanitaria. Dopo i discorsi impeccabili deve riuscire ad ottenere voti per un progetto di riforma concreto.

Iraq: il dramma dei Mujaheddin iraniani

Le violenze nel campo di Ashraf

 

di Fausta Speranza

Il governo iracheno filo iraniano non protegge più i dissidenti iraniani in Iraq. Ne pagano le conseguenze i 35mila mujaheddin – considerati  terroristi dagli Usa ma non dall’Ue – a suo tempo protetti da Saddam Hussein.

Trentacinquemila iraniani racchiusi in un campo di 36 Kmq in Iraq stanno scrivendo un capitolo della storia del conflitto tra l’islamica Teheran e la laica Baghdad, nell’indifferenza della comunità internazionale. Quel campo rappresenta da sempre un termometro di quanto avviene in Iran, anche in questa lunga, strisciante, duramente repressa rivolta che non si placa.

Parliamo del campo di Ashraf, che per 30 anni ha accolto i dissidenti del regime di Teheran, legati ai Mujaheddin del Popolo, gruppo di opposizione che è stato cancellato dalla lista nera dei gruppi terroristici dell’Unione Europea lo scorso gennaio ma che è rimasto in quella degli Stati Uniti.

Si tratta di un gruppo con un altissimo tasso di laureati. Hanno goduto dello status di rifugiati sotto Saddam Hussein e della Quarta Convenzione di Ginevra dallo scoppio della guerra del 2003, in quanto popolazione non coinvolta nel conflitto e avendo consegnato alle forze internazionali tutte le armi.

Ma da gennaio scorso, dal passaggio di consegne da parte dei militari statunitensi alle forze irachene, le cose sono cambiate decisamente. Sono stati isolati per mesi e in molti giurano che, se non fosse stato per la visita di alcuni parlamentari europei, le porte del campo sarebbero rimaste bloccate con conseguenze disastrose.

Poi ad agosto diversi attacchi armati da parte dell’esercito iracheno: 11 morti, 450 feriti e 16 persone portate via senza che se ne sappia ancora nulla. Video con testimonianze agghiaccianti di violenze giungono al Consiglio Nazionale della Resistenza iraniana, l’opposizione all’estero al regime dei Mullah, che ha sede a Parigi.

Si tratta di un dramma annunciato: il regime iraniano dopo la caduta di Saddam Hussein è diventato molto influente in Iraq. Ciò ha provocato la repressione dei dissidenti iraniani.

Già prima del conflitto del 2003 – ci spiega la presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza iraniana, signora Rajavi, esibendo documenti – 32.000 iracheni erano in busta paga dei Mullah: ricevevano e continuano a ricevere lo stipendio da Teheran. Dalla Rivoluzione islamica del 1979 – spiega – il primo territorio dove “esportare” la rivoluzione è stato l’Iraq, poi entrato in guerra con l’Iran. Poi sono venuti i Fratelli musulmani in Egitto, Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina. Il progetto di “esportazione” non si è mai fermato.

L’invasione dell’Iraq nel 2003 ha riaperto i giochi e il riacutizzarsi della violenza sta facendo il resto. La presidente, signora Rajavi, lancia un appello alla comunità internazionale chiedendo che gli abitanti del campo di Ashraf non vengano uccisi e soprattutto che, se verranno rimandati come sembra in Iran, trovino l’ombrello della protezione internazionale. Il punto non è solo la difesa, pur importante, di vite umane ma – avverte la Rajavi – ad Ashraf si sta giocando una partita importantissima e si sta giocando nell’indifferenza generale.
(25/08/2009)

A 40 anni dallo sbarco sulla luna

A 40 anni dallo sbarco dell’uomo sulla Luna, intervista di Fausta Speranza al responsabile dei laboratori del Centro aereospaziale del MIT: altro che Marte – dice – la tecnologia deve essere al servizio della salute del nostro pianeta

Alla NASA hanno annunciato il taglio di 400 posti di lavoro due giorni fa. Alla maggior parte dei dipartimenti del MIT nel 2009 si taglia il budget dell’8%, l’anno scorso era stato già tagliato del 10% e anche nel 2010 ci sarà un ulteriore 10% in meno di finanziamenti. Non si può parlare di andare su Marte con questi presupposti. Così taglia corto il discorso sul secondo sogno spaziale dell’umanità John Hoffnar, del Dipartimento di Astrofisica e Ricerca Spaziale del mitico Massachuttes Institute of Technology di Boston. Lo abbiamo incontrato nel suo Space Laboratory alla vigilia del 40esimo anniversario dello sbarco sulla Luna. E’ vero che l’Amministrazione Bush nel 2005 ha commissionato alla NASA gli studi per una possibile missione umana fino a Marte, ma non è così facile pensarla oggi, anche se lo sbarco sulla Luna è avvenuto con un computer che praticamente equivale al software di un telefonino di oggi. Ma poi Hoffnar ci spiega che in questi 40 anni dalla camminata lunare qualcosa è cambiato nell’approccio della tecnologia: oggi è più “con i piedi per terra”. Se è proprio uno scienziato spaziale a dirlo, c’è da crederci. John Hoffnar, gentile e informale come la sua Tshirt, ci conferma: la tecnologia deve migliorare la qualità della vita di tutti i giorni delle persone. Certamente andare sulla Luna ha significato aprire a studi importanti: sono 30.000 i diversi oggetti prodotti utilizzando tecnologie messe a punto negli anni della corsa alla Luna, dal goretex delle giacche a vento al rivestimento in teflon per pentole antiaderenti, dai microchip che hanno permesso di concepire il personal computer ai cibi liofilizzati, dalle tecnologie alla base dei satelliti meteorologici e delle telecomunicazioni ai pacemaker e agli spettrometri di massa in chirurgia. Ma Hoffner raccomanda: oggi dobbiamo concentrarci di più sul nostro pianeta: studiare lo spazio non tanto per “camminarci” ma per capire come ridurre l’impatto negativo dell’inquinamento sul nostro pianeta Terra. E ci tiene a precisare che, almeno al MIT, “è cambiata la mentalità di ingegneri, scienziati, professori: più proiettati su “soluzioni vere” – spiega – anche perchè la società esercita su di loro una certa pressione in questo senso, che non c’era negli anni Sessanta. “Oggi siamo più pragmatici: pensiamo che ci vogliono grandi iniziative per l’energia pulita e per il risparmio di energia”. Siamo ad un punto di svolta: non possiamo trascurare ulteriormente la salute del nostro pianeta. Mentre dice questo,  scuote la testa e aggiunge: “Se ce lo fanno fare”. Il problema è quello dei finanziamenti. Hoffner ricorda che tra il 1958 e il 1975 sono stati spesi almeno 25 miliardi di dollari, pari a circa 150 miliardi di oggi, e sono state coinvolte centinaia di migliaia di persone, a diverso titolo, nell’impresa spaziale. Un’impresa che rappresenta il più grande investimento di tecnologie della storia, un’impresa che ha significato credere come non mai nella ricerca. A parte la crisi attuale, scoppiata nei mesi scorsi, “gli Stati Uniti negli ultimi dieci anni hanno accumulato un crescente deficit innovativo, investendo meno in informatica, micromeccanica e biotecnologie”: queste sono parole di Paul Krugman, Nobel dell’economia 2008, che denuncia, dunque, un trend negativo per la ricerca iniziato ben prima della crisi dei subprime. Insomma la situazione non è rosea. Facciamo presente a John Hoffnar che nelle sue parole c’è un evidente scetticismo velato di pessimismo che non ci aspettavamo nel cuore della ricerca mondiale e soprattutto nell’era di Obama. E appena sente nominare il presidente Obama, cambia espressione: “La nuova amministrazione rappresenta la speranza per la ricerca, ha priorità diverse rispetto alla precedente e l’ambiente sta realmente tra queste”. Obama può dare un’accelerata e contribuire a saldare quel deficit innovativo, che anni di esborsi per le guerre hanno lasciato in eredità. E’ una speranza,  ribadisce Hoffner spiegando però che “Obama non potrà tradurla in realtà senza cambiare il corso dell’economia”.
Dopo l’impronta dell’uomo sulla Luna è sembrato quasi che l’umanità raggiungesse l’apice delle proprie potenzialità: il presidente John Fitzgerald Kennedy, che morirà sei anni prima dell’allunaggio, di fronte alla prospettiva dello sbarco sulla Luna, scriveva: “Se riusciremo a superare la serie infinita di difficoltà, a partire da quella di un viaggio a una temperatura che è la metà di quella del sole, dobbiamo essere orgogliosi e audaci”. Oggi, ci conferma Hoffner, sono i robot a rappresentare  l’ennesima frontiera per l’immaginario. Al MIT se ne stanno mettendo a punto di straordinari, con applicazioni dal contesto medico al contesto domestico. Sostituire l’uomo stesso è l’ennesima frontiera della sfida dell’umanità a se stessa ma – aggiunge Hoffner – sempre a patto di non dimenticare dove l’uomo vive.

Il Riformista 21 luglio 2009

Proclami anticristiani nelle violenze in Somalia

Violenti combattimenti tra insorti e truppe governative hanno interessato oggi il distretto di Abdal Asis, nell’area nord di Mogadiscio. Impreciso per ora il bilancio delle vittime: fino a qualche giorno fa, nella sola capitale – in seguito agli scontri iniziati il 7 maggio – si contavano 350 morti, ma si combatte anche nel centro-sud del Paese. Dall’Alto commissario Onu per i Diritti umani, è giunta ieri la denuncia di gravi violazioni alle leggi internazionali umanitarie, di violenze perpetrate a danno di donne e bambini, in particolare con proclami anticristiani. Maggiori responsabili sarebbero i fondamentalisti islamici del gruppo degli Shabaab, secondo gli Usa legati ad al Qaeda. L’Unione Europea condanna l’escalation di violenza e spinge per la ripresa del processo di pace di Gibuti, ”che altrimenti rischia di scomparire”. In particolare, il vicepresidente dell’Europarlamento, Mario Mauro, nell’intervista di Fausta Speranza, parla di un disegno di persecuzione:

11 giugno 2009