Lama Hourani

I fondamentalismi uccidono la democrazia

di Fausta Speranza

Dopo la visita del Segretario di Stato americano Condoleeza Rice in Medio Oriente e poi l’incontro, tra il premier israeliano Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen, al di là delle intenzioni ribadite in questi giorni di un accordo entro il 2008, si confermano lo stallo dei negoziati e l’esasperazione della situazione sul terreno. A Gaza è assedio e in Cisgiordania  il territorio è sempre più frantumato a causa di insediamenti e check point israeliani. Non si intravedono novità nella strategia di Israele, mentre tra i palestinesi, dopo l’esperienza di governo di unità nazionale, è ormai piena frattura tra Hamas, che controlla Gaza, e Fatah che ha il suo quartier generale a Ramallah.
Lama Hourani è una palestinese attivista per i diritti umani e in particolare per i diritti delle donne. Non senza difficoltà, da poco ha lasciato  Gaza, dove viveva da anni. Si è distaccata da familiari e amici per fuggire da Hamas. L’abbiamo incontrata a Gerusalemme e ci ha motivato così la sua scelta:

Sono scappata non per paura degli israeliani ma per paura del fondamentalismo di Hamas. Ho portato avanti diverse battaglie per la condizione della donna e mai avrei portato il velo, perché sono laica. Ho avuto paura per me e per mio figlio, perché il fondamentalismo combatte proprio le persone come me. Il fondamentalismo uccide proprio quello per cui io combatto, quello in cui io credo: diritti e democrazia. Io credo che un po’ tutte le religioni, in fondo, non possano andare d’accordo con la democrazia, perché si fondano su una verità fuori discussione. Ma la discriminante è se i leader vogliano o non vogliano imporre a tutti la verità politica che pensano di dedurre dalle verità di fede. L’islam, poi, viene dopo giudaismo e cristianesimo e qualche suo esponente è convinto di aver elaborato il meglio in assoluto. In ogni caso, io penso che siamo, in generale nel mondo, in una fase di esasperazione, di fondamentalismo. Le donne devono studiare la legge islamica perché ci sono leggi in diversi paesi basate sulla Sharia che a sua volta ha la pretesa di basarsi sul Corano. Le donne devono studiare molto e conoscere bene la Sharia e il Corano, per capire fino a che punto il Corano viene strumentalizzato per mantenere in vita un sistema politico, che va contro i diritti basilari delle persone.

Che ne pensi della divisione tra Hamas e Fatah?

Non è una lotta di potere, ma è una frattura che nasce da differenti visioni politiche. L’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina,  e il partito di Fatah vogliono uno stato nazionale palestinese, sostanzialmente basato sui confini che c’erano prima della guerra del 1967. Gli islamici di Hamas, invece, non vogliono uno stato nazionale palestinese ma vogliono uno stato islamico. Che potrebbe essere Gaza o tutta la Palestina o tutto il mondo. La loro non è una battaglia nazionalista: questa è la grande questione di fondo.

Secondo te, perché Fatah ha perso alle elezioni di gennaio 2006?

Secondo me, la prima ragione sta nel collasso del processo di pace. Il popolo palestinese ha capito che Israele non è pronto ad accettare uno stato palestinese e a rispettare le risoluzioni o lo proposte della comunità internazionale. C’è stato poi anche il problema della corruzione all’interno di Fatah, che aveva deluso, ma non è tra le principali motivazioni. Anche l’Autorità Nazionale Palestinese non è riuscita, agli occhi della gente, a conciliare i negoziati per la pace con la resistenza per costruire lo stato palestinese. Essere impegnati in negoziati non può significare fermare ogni manifestazione di resistenza. Resistenza non significa per forza rockets, razzi. Ci sono tante modalità di resistenza che secondo la legge internazionale sono pienamente legittime. Il punto è: come e quando arrivare ad uno stato palestinese. Questo è uno dei principali punti caldi con Hamas. I rockets non aiutano. Uccidono e hanno come reazione da parte di Israele l’uccisione di palestinesi e la confisca di terra. Tutto ciò distrugge, non aiuta la soluzione di due stati. Comunque, l’unico a beneficiare della divisione tra palestinesi è Israele.

Anche tu, come tanti, affermi che Hamas è utile per Israele. Tu eri a Gaza quando Hamas ha preso il completo potere: Israele ha aiutato in qualche modo Hamas?

Indirettamente sì. Almeno indirettamente perché non ho prove per dire altro. Hanno cominciato prima delle elezioni e ti spiego come: Abu Mazen è sempre stato contro i lanci di razzi contro la città israeliana di Sderot ed era stato eletto nelle precedenti elezioni con il 63% dei voti. Quello era il momento di trattare seriamente con Abu Mazen ma Israele non si è impegnato affatto. Israele e gli Stati Uniti non hanno affatto approfittato del momento, anzi. Israele ha continuato a costruire il muro, non ha negoziato con Abu Mazen. Sembra evidente che Israele vuole la Terra Santa e basta, senza i palestinesi. Porta avanti una sola politica: rendere i palestinesi tanto disperati da lasciare la propria terra, come praticamente è successo di recente a Hebron.  Per quanto riguarda Hamas, il problema è che non considerano la realtà sul terreno, sono presi solo dall’ideologia. Il problema di Hamas non è solo che non riconosce Israele. Se ci pensi bene, l’Autorità Nazionale Palestinese, nata dopo gli accordi di Oslo, riconosce Israele ma già il Partito di Fatah dichiara di poter riconoscere Israele solo dentro i confini precedenti il 1967. Il fatto che Hamas non riconosce Israele non è il vero problema. Piuttosto, il dramma è che non riconoscono l’evidenza dei fatti e non concepiscono una giusta strategia. Il punto importante è proprio quello di elaborare una strategia che porti alla soluzione dei due stati. L’operato di Hamas distrugge questa possibilità.

Tu non sei un politico ma fai parte del mondo dell’associazionismo palestinese…Ritieni che ci siano contatti in corso tra esponenti di Hamas e di Fatah per cercare di ritrovare un’unità?

Non credo che i leader stiano comprendendo che la priorità è ritrovare l’unità. Il problema è mettere insieme due politiche completamente diverse. I leader non stanno lavorando per questo. Ma dobbiamo ricordarci che non sono gli unici attori della scena. Protagonisti in Medio Oriente sono Israele, Stati Uniti, Siria, Iran, gli Hezbollah del Libano, l’Arabia Saudita, l’Egitto. Se parliamo di divisione, dobbiamo parlare di divisione del Medio Oriente e della comunità internazionale. Intanto, il popolo palestinese continua a sperare che un giorno i leader supereranno le differenze e troveranno un compromesso, ricreando un fronte comune, che sia sotto la sigla dell’OLP o di altro. Io preferirei l’OLP perché ha già una legittimità internazionale,  ma qualunque altra sigla andrebbe bene. Il punto è che tutta la partita non è solo in mano ai palestinesi. 

Qualcuno riconoscendo come legittimo il risultato delle libere elezioni, afferma che bisogna trattare con Hamas e non rifiutarlo come organizzazione terroristica. Secondo te, è possibile? Ci sono rischi?

Certo che ci sono rischi. Ma il punto è: perché non è stato detto e fatto subito dopo le elezioni? C’è stato un governo di unità nazionale e invece di aiutarlo hanno messo l’embargo. Trattare ora significherebbe  aumentare la divisione tra palestinesi. Tutti già si chiedono chi rappresenti i palestinesi. La comunità internazionale ora dovrebbe lavorare per rimuovere gli ostacoli che stanno di fronte ad Abu Mazen sulla via del negoziato e prima ancora sulla via del ritrovamento dell’unità. Se Abu Mazen dialoga con Hamas, Unione Europea e Stati Uniti tagliano gli aiuti economici, che significa il deterioramento della già difficile situazione in Cisgiordania. La comunità internazionale dovrebbe aiutare Abu Mazen a dialogare con Hamas, piuttosto che ostacolarlo, e nello stesso tempo dovrebbe anche fare seria pressione su Israele per il rispetto delle risoluzioni. Non credo che si voglia seriamente tutto questo.

Palestinesi in trappola

 Gaza vs Cisgiordania

di Fausta Speranza

Intervista a Jamal Zakhouta, consigliere politico del primo ministro palestinese Salam Fayyad, incontrato nel suo studio a Ramallah

Nove mesi dopo lo scontro sul campo, e due anni dopo la vittoria alle elezioni di Hamas, quali sono i contatti politici tra leader di Fatah a Ramallah e uomini di Hamas a Gaza?

Anche i politici di Ramallah che lavorano per l’unità e per il futuro del popolo palestinese sono sotto minaccia se si recano a Gaza, non soltanto per gli israeliani ma per i fratelli che controllano Gaza con la loro ideologia. Io ho fatto parte di delegazioni per incontri a Gaza, prima dell’assedio, ma in questi giorni a Gaza nessuno può uscire e nessuno può entrare.

Come è maturata, secondo lei, la frattura tra i palestinesi?

I palestinesi continuano una lotta disperata dopo 40 anni di occupazione per costruire il loro Stato e per vivere in pace vicino ad Israele. Durante l’occupazione sono stati arrestati mezzo milione di palestinesi: consideri che, compreso Gaza e Cisgiordania, sono 3 milioni e mezzo. Praticamente non ci sono adulti palestinesi che non abbiano avuto un’esperienza in carcere. Quando c’è stata l’opportunità di Oslo, i combattenti palestinesi hanno fermato le ostilità. Si lottava contro l’occupazione non per odio ma per il dovere di lottare e di fronte a una finestra di opportunità di pace noi ci impegniamo fortemente. Io sono stato un testimone di quella opportunità non soltanto come attivista politico ma come negoziatore e posso dire che, dopo 14 anni di ricerca della pace, il governo israeliano siede al tavolo dei negoziati come fosse a un match. Chi vincerà? Ai match ci sono vinti e vincitori. Io lo ripeto sempre: questo processo di pace non può concludersi con un vincitore e un vinto. O vinciamo entrambi, superando occupazione, depressione e paura, o entrambi perderemo.

Negli ultimi 7 o 8 anni, in particolare, l’establishment israeliano ha preso decisioni unilaterali, dettando le regole del gioco. Non cercano un mutuo accordo basato sulle condizioni del negoziato che prevedono la fine dell’occupazione, iniziata nel 1967. Questa è stata la ragione principale già del fallimento di Camp David, nel 1978. Il punto è che noi palestinesi dobbiamo capire come fronteggiare questa strategia senza cadere in trappola, in un vortice di violenza. Noi abbiamo il diritto di resistere all’occupazione, ma come possiamo far sì che la nostra popolazione sia in grado di affrontare questa strategia israeliana? Come possiamo rendere la resistenza efficace e nello stesso tempo accettabile per la comunità internazionale? Tutto questo ha segnato l’inizio della divisione tra palestinesi. Alcuni di noi hanno preso il fallimento di Camp David come una svolta e hanno cominciato a sviluppare la loro politica non soltanto contro Israele ma anche contro i palestinesi che continuavano a cercare la pace. Guardando a tempi più recenti, considero gli ultimi 7 anni una trappola per tutti i palestinesi pronti a sacrificare la loro vita. Il nodo è questo: a causa della sproporzione nel rapporto di forza, noi non possiamo raggiungere i nostri obiettivi. Ma noi possiamo ottenere qualcosa soltanto se lavoriamo insieme, cercando nuovi sostenitori non solo nella comunità internazionale ma anche in Israele.

Dunque è vitale ricucire la frattura tra palestinesi e ritrovare l’unità?

E’ fondamentale l’unità nazionale ma basata su quali presupposti? Non voglio unità con qualcuno che non accetta due stati, perché questa posizione non porta a niente di buono. Questa radice della divisione si manifestava già ai tempi della prima intifada, che io ho vissuto. Hamas va avanti facendo a Gaza quello che vuole. Fatah ha fatto degli errori ma Hamas ha proprio la strategia sbagliata. Quelli di Hamas smantellano il sistema giudiziario e si basano su criteri non democratici per il parlamento. Qualcuno in Hamas deve essere pragmatico e capire che uno stato islamico in Gaza è solo sotto assedio e va contro una soluzione complessiva palestinese.

Le condizioni a Gaza sono quelle di una terra sotto assedio, dove ogni giorno aumenta la disoccupazione e diventa più tragica la situazione negli ospedali. E’ stata definita un carcere a cielo aperto. In Cisgiordania nuovi insediamenti frammentano il territorio ed è sempre più difficile la mobilità.
Perché la popolazione in favore di Hamas aumenta?

La popolazione non mangia gli ideali. La vita di ogni giorno in Cisgiordania va sempre peggio. Le persone normali voglio andare a lavorare in pace. Vogliono migliorare la loro vita e non solo avere giustizia. Le persone disperate si chiedono: da che parte stare? Con Stati Uniti e Unione Europea che non fanno nulla? Oppure con l’Iran? Il risultato è stato un cambiamento di voto, un cambiamento di mappa politica palestinese. Certamente noi di Fatah dobbiamo rispettare i risultati delle elezioni ma non abbandoniamo i nostri obiettivi: anche con la vittoria di Hamas dobbiamo continuare a lavorare per due Stati. Tutti quelli che non cercano la soluzione di due Stati vogliono la vittoria di Israele.

Quale vittoria vuole Israele?

Israele continuando a costruire insediamenti in Cisgiordania non lavora per due Stati. Israele ha lasciato Gaza a Hamas, perché gli israeliani si sentono molto sicuri di fronte alla debolezza dei palestinesi, anche se i palestinesi non possono accettare meno di un ritorno ai confini che c’erano prima dell’invasione del 1967. Con la scusa di non negoziare con Hamas perché non li riconoscono, aiutano Hamas. Creare situazioni differenti a Gaza e in Cigiordania è un’opportunità d’oro per Israele per scongiurare il ritorno ai confini del 1967. Che si può fare con questa che io chiamo la “black map”? Il mondo e Israele vogliono punire Hamas ma la strategia di Israele è di distruggere lo spirito dei palestinesi, di spezzare la loro forza di andare avanti. Non è di distruggere Hamas. La strategia piuttosto è di usare Hamas. Hamas e Israele hanno interessi in comune.

Lei crede che Israele abbia supportato o stia supportando concretamente Hamas?

Se parliamo di un supporto diretto di armi, la risposta è no. Ma Israele lavora sistematicamente, con l’assedio o con altre misure, per radicalizzare la posizione dei palestinesi nella Striscia di Gaza, per esasperarli con la povertà, per dividere e indebolire tutti i palestinesi. Quello che fanno è chiudere gli occhi sulle armi che arrivano e che servono per armare fratelli contro fratelli. Molte delle armi di cui dispone Hamas anche in Cisgiordania, sono armi israeliane. Penso agli M16. Io non dico che Israele consegni queste armi ai palestinesi, ma se queste armi creano guerra civile, creano pubblicità negativa per i palestinesi nel mondo, perché non chiudere un occhio? La causa palestinese era più forte prima della seconda intifada e prima di giugno scorso. Noi siamo responsabili per questo ma c’è da chiedere perché Israele non blocca l’importazione delle armi da Rafah? Sono armi per uccidersi tra fratelli…

Si può fare la pace senza negoziare con Hamas?

Israele non ha bisogno di Hamas per fare la pace: se volesse potrebbe farla con il presidente Abu Mazen. Io condanno molto Hamas ma non si può dare a Hamas tutta la colpa del fallimento del negoziato. Il fondamentalismo islamico di Hamas si distingue da altre espressioni in altri Paesi perché si nutre di nazionalismo, ma Hamas sventola solo la bandiera del suo movimento.

Che dire della tappa di Annapolis a novembre scorso?

L’incontro di Annapolis è stato organizzato non dai palestinesi ma da Stati uniti e Unione Europea. Si tratta di documenti americani. E’ evidente che Israele non è che non rispetta i palestinesi: non rispetta la comunità internazionale. La comunità internazionale deve far rispettare le sue risoluzioni. Tanto tempo è stato perso e diventa sempre più difficile la soluzione di dueStati, a causa degli insediamenti. Da parte palestinese sono stati fatti errori, ma la strategia non è sbagliata perché noi vogliamo rispettare i patti. Io chiedo una forza di peacekeeping internazionale per difendere la road map internazionale. Quando la leadership palestinese ha accettato di recarsi ad Annapolis voleva una cosa: sedersi allo stesso tavolo degli israeliani e firmare un trattato sotto l’ala internazionale. Questo è l’unico modo per una soluzione palestinese. Noi ribadiamo il fallimento dell’unilateralismo e il fallimento di ogni soluzione militare.
La divisione tra Gaza e Cisgiordania incoraggia Israele a non mantenere nessuna promessa presa ad Annapolis, anche se la comunità internazionale appoggia Abu Mazen.

Qual è il più grave di questi impegni mancati?

Il primo impegno in base ai patti dei Trattati era di bloccare gli insediamenti dappertutto, inclusa Gerusalemme. E invece Israele continua a inviare avamposti e a costruire insediamenti. Ritornare alle linee di confine di settembre 2000 sarebbe il minimo grazie al quale le autorità palestinesi potrebbero riottenere la fiducia della popolazione, per poter lavorare a riforme economiche e politiche, per poter creare le condizioni per una vita possibile. In particolare negli ultimi due anni tutti i palestinesi che possono se ne vanno, soprattutto da Gaza. Qualunque presidente o premier palestinese, Abu Mazen o Fayyad, o qualunque buona politica si facesse, senza il coinvolgimento della comunità internazionale non si vedrebbero buoni esiti. Non c’è granché da sedersi al tavolo. Gli israeliani dichiarano ai media che dal momento che le autorità palestinesi non sono in grado di controllare la violenza, Israele non può rispettare la road map. In realtà è la politica degli insediamenti che crea insicurezza e alimenta la violenza. Israele continua con questa politica e usa questa insicurezza. E’ una politica che non soddisfa il bisogno di sicurezza degli israeliani. Ci vorrebbe l’invio di una forza internazionale per un periodo per assicurare la sicurezza sul territorio. Questo sarebbe l’unico modo per garantire entrambi. Quattro settimane fa ho incontrato in Gaza il principale advisor di Hamas, Mahamed Yussef, e lui ha detto solo due parole: resistenza e rockets, cioè razzi contro Israele. Tre settimane dopo la stessa persona ha annunciato di fermare i rockets perché sono una scusa per Israele. Si discute se Hamas prende potere e se Fatah è debole, ma non è questo il punto: il punto è essere uniti. Essere veramente uniti e non solo cercare compromessi. Il mondo chiede a Hamas di rispettare le richieste di Israele ma nessuno sta chiedendo il rispetto dei diritti umani dei palestinesi. Palestinesi muoiono sotto interrogatorio in Cisgiordania o soffrono a Gaza le angherie dei poliziotti, ma se una persona è toccata a Sderot si fa la rivoluzione. E’ tempo di preoccuparsi della sicurezza di ogni palestinese, da proteggere non solo dagli israeliani ma anche da altri palestinesi, che siano spinti ufficialmente o siano cani sciolti. Bisogna intervenire sul campo.

Secondo lei, si fanno breccia tra la popolazione israeliana perplessità o dubbi sulla politica dei loro leader che lei illustra?

Ci sono spazi di dissenso ma sono sempre meno. La maggior parte degli israeliani vorrebbe vivere in pace, ma ci sono dei ma. C’è una contraddizione ad esempio in alcune dichiarazioni della popolazione: mentre ogni sondaggio dice che il 60-75% della popolazione è a favore del processo di pace basato sulla soluzione di sue stati, la stessa percentuale giustifica e sostiene la soluzione militare. In questa fase in particolare, c’è un modo di pensare molto pericoloso: la gente non vuole sapere cosa accade oltre il muro, è cieca e non si interessa. Questo rappresenta un pericolo non solo per noi palestinesi ma anche per gli israeliani.

Che ne dice del ruolo che giocano i Paesi arabi per una soluzione complessiva palestinese?

Qualcuno offre soldi e sostegno ma sono divisi e deboli. La Siria supporta Hamas.

A 4 anni dalla morte di Yasser Arafat, come lo ricorda?

Ho motivi di critiche, ma ricordo il più grande successo di Arafat: è riuscito a mantenere uniti i palestinesi ed è riuscito a portare avanti la questione palestinese evitando interferenze di altri paesi. Ha lasciato fuori Iran e Siria.

Commenti di alcuni lettori

inviato da Gianni il 06 aprile 2008 alle 12:27

Complimenti per l’intervista. Grazie per farci capire, in questi tempi pieni di facili slogan, la complessità della situazione palestinese in modo chiaro, equilibrato ed essenziale.

inviato da Roberta il 04 aprile 2008 alle 12:34

“O vinciamo entrambi, superando occupazione, depressione e paura, o entrambi perderemo”: mi sembra davvero questa la premessa da cui partire per ricucire la frattura palestinese. Un’intervista-testimonianza estremamente lucida e interessante. Complimenti!

inviato da Roberto il 01 aprile 2008 alle 21:17

Un’ottima intervista. Su queste premesse il conflitto israelo-palestinese è destinato ancora a durare moltissimi anni, sicuramente ancora decenni.

inviato da Luigi il 01 aprile 2008 alle 14:19

Faccio i complimenti al giornale e alla giornalista per la chiarezza dell’articolo su un tema molto difficile. E’ raro trovare su questo argomento equilibrio e competenza.

inviato da Agatoni Luca il 01 aprile 2008 alle 16:43

Mi unisco al giudizio di Luigi: l’intervista tocca con ottima lucidità tutti i punti principali dell’attuale situazione. Israele non vuole la pace e usa scuse ridicole per legittimare sul campo la politica del ‘fatto compiuto’. Molto razionale anche il giudizio su Hamas, che ha gravi responsabilità, ma non la totale colpa del fallimento della politica palestinese degli ultimi anni. Condivido anche il fatto che i palestinesi non debbano MAI abbandonare la lotta e la resistenza, ma trovo al contempo necessario che si torni ad avere un fronte comune e unito. Arafat ha commesso errori imperdonabili – in particolare chiedendo al suo popolo immani sacrifici senza poi aver ottenuto niente di concreto – ma, come si afferma alla fine dell’articolo, ha cmq avuto il merito di tenere i palestinesi uniti e di fare in modo che i vicini arabi non si intromettessero più del dovuto in una questione che rimane – e deve rimanere – una questione nazionale del popolo palestinese. E di nessun altro. Ancora complimenti per il vostro lavoro, tanto il cartaceo quanto questo sito!

8 Marzo 2008

 In occasione della Giornata internazionale della donna ho realizzato questa trasmissione speciale in diretta, sempre con il collega Fabio Colagrande, proponendo collegamenti live e interviste che avevo precedentemente realizzato a Bruxelles. Sono tutte fatte a donne, parlamentari europee che raccontano tante situazioni di donne nel mondo.

radio 105 dell’8/3/2008

Un altro Iran è possibile

2 Gennaio 2008

 di Fausta Speranza

Conversazione con Maryam Rajavi, presidente del Consiglio nazionale della resistenza iraniana. Le differenze fra Iran e Iraq. C’è un’alternativa alla politica delle concessioni e all’intervento militare: la svolta democratica. Scenari di un Iran post-mullah.

Aziende italiane e olandesi sono per il regime iraniano “persone molto amiche per il trasferimento di materiali proibiti in Iran”. E’ una delle denunce provenienti dalla resistenza al regime dei mullah, presentate l’8 novembre 2007 ai parlamentari britannici negli uffici di Westminster a Londra. L’iniziativa è del Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Cnri), e si basa su un presunto documento riservato del regime di Ahmadi-Nejad che sarebbe stato segretamente portato all’estero da una fonte della resistenza stessa. A sostenerlo è il responsabile per le relazioni esterne del Cnri a Londra, Hossein Habedini, che fa nomi e cognomi: le italiane Troy e Tesco, le olandesi Royal Boskalis e Royal Haskonig, la cinese Zmpc. L’anello di congiunzione in Iran sarebbe la Khatam ol-Anbia Construction Garrison, braccio economico del ministero della Difesa.

La principale richiesta del Cnri all’Europa è di adottare le stesse sanzioni decise dagli Stati Uniti il 25 ottobre scorso e cancellare dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche i Mujahidin del popolo iraniano (Pmoi), nucleo di resistenza che opera sul campo in Iran. Gli Stati Uniti hanno sanzionato il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc) e la sua unità extraterritoriale, conosciuta come Qods Force; nove altre entità affiliate all’Irgc, con i loro capi; tre importanti banche iraniane.
Il Cnri è stato creato nel 1981 e ha sede a Parigi e Londra. Il suo fondatore è Massud Rajavi. Per motivi di sicurezza non è dato sapere dove si trovi. La presidente è una donna, Maryam Rajavi, che Limes ha intervistato.

LIMES E’ favorevole a un attacco militare americano all’Iran?

RAJAVI La soluzione alla crisi iraniana non è né la politica delle concessioni al regime dei mullah, sostenuta negli ultimi due decenni dall’Occidente in generale e dall’Unione Europea in particolare, né la guerra e l’intervento militare straniero. Come ho detto anche al Parlamento europeo e al Consiglio d’Europa, esiste una terza opzione, l’unica percorribile: una svolta democratica nel paese grazie al sostegno al popolo iraniano e alla resistenza organizzata. La politica delle concessioni, basata su interessi economici di vita breve, su contratti lucrativi con i mullah, ha avuto dirette e terribili conseguenze: ha esasperato l’oppressione in Iran, ha spinto Teheran a cercare di dotarsi di armi nucleari, all’esportazione del fondamentalismo nel Medio Oriente e nel mondo, al punto di coinvolgere l’Europa stessa.

LIMES E’ possibile che la guerra rafforzi il potere di Ahmadi-Nejad?

RAJAVI Questa idea è frutto della propaganda del regime, interessato alla continuazione della politica delle concessioni. Un regime estremamente isolato e disprezzato all’interno dell’Iran. Solo l’estate scorsa abbiamo assistito a più di tremila manifestazioni o atti di protesta antigovernativi su tutto il territorio. Malgrado brutali repressioni e ripetuti arresti, studenti universitari hanno proseguito per parecchie settimane le loro dimostrazioni. Il 25 e il 26 giugno, nelle proteste per i razionamenti del gas, a Teheran e in molte altre città ci sono state rivolte di giovani e di gente comune. Secondo i funzionari del regime, un terzo degli impianti di gas del paese è stato danneggiato dalla resistenza popolare. La situazione è così esplosiva che negli ultimi mesi diversi giovani sono stati impiccati alle gru nelle piazze principali per spargere il terrore. In questa situazione il tallone di Achille del regime è il popolo iraniano e il suo movimento organizzato di resistenza: su questo bisogna contare. Far credere che rifiutare la politica delle concessioni sia uguale ad essere d’accordo con la guerra degli stranieri contro l’Iran è parte della propaganda dei mullah.

LIMES Che cosa pensa succederà in Iran in caso di attacco americano?

RAJAVI Non possiamo ragionare su situazioni ipotetiche. E’ cruciale evitare che si arrivi a quel punto. La realtà è che nel 2005 Khamenei ha nominato Ahmadi-Nejad presidente del regime islamico e che tale regime ha dichiarato guerra al popolo iraniano e alla comunità internazionale. Da allora, i pasdaran, braccio operativo dei mullah, hanno preso il controllo degli organi chiave del regime. Un controllo che diventa sempre più serrato. Oltre al presidente stesso e al primo vicepresidente, vengono dal bacino dei Guardiani della rivoluzione più di venti membri del gabinetto di Ahmadi-Nejad, dieci governatori di provincia, il capo e sei membri del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, i capi della radio e della televisione di Stato, il 70% dei viceministri, 25mila funzionari di medio livello del governo e 80 parlamentari. Allo stesso tempo, i Guardiani della rivoluzione hanno preso il controllo dell’economia iraniana. Controllano petrolio e gas, ma anche il 30% delle esportazioni non energetiche e il 57% delle importazioni. Fa tutto parte del consolidamento del fascismo religioso che governa il nostro paese da due anni. Di qui anche il tentativo di ottenere armi nucleari, oltre a quello di controllare l’Iraq. Il punto è quale reazione può essere appropriata da parte dell’Occidente. Finora la risposta è stata inadeguata e il tempo corre in fretta.

LIMES L’Iran può diventare come l’Iraq?

RAJAVI L’Iran è molto differente dall’Iraq. E’ vero che il nostro paese sta sviluppando il nucleare: secondo le nostre informazioni fra due anni disporrà di armi nucleari. E’ inconfutabile che il regime si stia intromettendo in Iraq: sappiamo per certo che in un’area della provincia irachena di Maysan uomini del regime iraniano addestrano gli iracheni all’uso di armi e materiale esplosivo. C’è una zona nei pressi di Teheran dove ci sono tre aziende che producono mine da strada per l’Iraq. Ben 32mila iracheni sono sulla busta paga del regime iraniano.
Ma in Iran -a differenza dell’Iraq di Saddam- c’è un’alternativa al regime ben visibile: è il Consiglio nazionale della resistenza iraniana. Una coalizione di forze democratiche che si oppongono al regime, con uno specifico programma per il futuro del paese. Il Cnri agisce come un Parlamento in esilio e include un vasto spettro di forze collettive e individuali, inclusi esponenti di varie minoranze etniche e religiose. E’ pronto, dopo la caduta dei mullah, a guidare il paese con metodi democratici, restando in carica sei mesi per poi lasciare il campo a un governo eletto dal popolo.
L’organizzazione dei Mujahidin del popolo gode di largo consenso all’interno dell’Iran. La stragrande maggioranza delle 120mila persone perseguitate dal regime perché sostenevano la causa dei diritti umani e della democrazia negli ultimi 25 anni appartiene a questa organizzazione. In occasione del più grande raduno della resistenza, svoltosi a Parigi il 30 giugno scorso, abbiamo contato più di 50mila partecipanti.
Dunque, ci sono tutti gli elementi per arrivare ad una svolta democratica. Ma l’Occidente deve adottare una politica ferma e decisa nei confronti dell’Iran. Deve imporre immediate e estese sanzioni su armi, tecnologie, petrolio, commercio, diplomazia. Deve rimuovere i Mujahidin del popolo dalla lista delle organizzazioni terroristiche, come hanno fatto il 25 ottobre scorso gli Stati Uniti e – torno a ripetere – assicurare sostegno morale e logistico alla resistenza iraniana.
I paesi europei, compresa l’Italia, non hanno ancora abbandonato la politica delle concessioni. Continuarla significa preparare il terreno ad una catastrofe. E’ tempo di svegliarsi e guardare in faccia questa realtà.

LIMES In caso di conflitto, l’Iran potrebbe dividersi su basi etniche?

RAJAVI In Iran la linea di demarcazione non è basata sulle divisioni etniche. Il punto è l’accettazione o meno del regime dei mullah. La stragrande maggioranza degli iraniani concorda sul fatto che la legge clericale e il fascismo religioso devono essere abbattuti e sostituiti con la democrazia e con uno Stato di diritto. Questo è esattamente ciò che il Cnri persegue. Ricordiamo che nel Consiglio sono rappresentate varie minoranze, inclusi azeri, curdi, arabi e altri.

LIMES Come immagina il suo paese dopo la caduta dei mullah?

RAJAVI Innanzitutto con un governo provvisorio che getti le basi per libere elezioni e un’assemblea costituente in sei mesi. Il voto popolare sarà l’unico arbitro. Io vedo un nuovo Iran, una società libera e avanzata, in cui saranno aboliti la pena di morte, i tribunali reazionari, le pene medievali, in cui ci sarà un governo basato sulla separazione tra religione e Stato. Finirà l’èra delle esecuzioni e delle torture, della discriminazione contro diverse fedi, finirà l’imposizione del velo e l’intrusione dello Stato nella vita privata dei cittadini; finirà l’èra dell’asservimento e dell’oppressione delle donne. Le donne devono ottenere l’uguaglianza rispetto agli uomini in tutti gli ambiti della legge. Posso dire che nel Consiglio della resistenza oltre la metà siamo donne. Sarà un paese in cui i giovani non saranno più umiliati nelle loro energie e creatività ma saranno arbitri del loro destino. Con tanto talento e tante potenzialità, il popolo iraniano non soffrirà più di povertà, fame e privazioni.

2 Lanci

ADN1430 3 EST 0 RTX EST NAZ

UCRAINA: DEPUTATA DENUNCIA, HO PAGATO 2 TANGENTI PER INTERVENTO CHIRURGICO =

Kiev, 4 ott. – (Adnkronos) – “Un fenomeno endemico che tiene

sotto scacco la meta’ dell’economia del Paese”. Lo ha detto il

presidente ucraino Viktor Yushenko, parlando della corruzione nel

Paese, una piaga che viene denunciata a tutti i livelli sociali. Tra

chi ammette di essere stata vittima della corruzione c’e’ anche

Natalia Prokopovich, presidente della commissione parlamentare per

l’integrazione in Europa, depuata del partito “Nostra Ucraina” di

Yushenko.

Parlando con la giornalista Fausta Speranza, che l’ha incontrata

a Kiev, la Prokopovich ha rivelato di aver pagato una doppia tangente

per subire un intervento chirurgico in uno degli ospedali pubblici

meglio funzionanti, il piu’ grande di Kiev. La parlamentare ha

affermato di aver pagato duemila corone per tutto il necessario per

l’operazione, di cui l’ospedale si dichiarava sprovvisto, e di aver

poi “dovuto” fare “una donazione” alla stessa struttura ospedaliera di

altre duemila corone.

La Prokopovich ha poi denunciato i privilegi del Parlamento,

un’eredita’ dell’era Kuchma mai messa in discussione: in un Paese in

cui il salario di un medico e’ di circa 1.200 corone, pari a 185 euro,

i membri del Parlamento ricevono 14mila corone al mese di stipendio

base, piu’ diecimila per spese che non e’ necessario documentare.

(Ses/Pn/Adnkronos)

04-OTT-07 19:08

 

ADN1521 3 EST 0 RTX EST NAZ

UCRAINA: ASSOCIAZIONE GIORNALISTI INDIPENDENTE DENUNCIA BROGLI =

Roma, 4 ott. – (Adnkronos) – Il vantaggio guadagnato nelle
ultime ore del conteggio dei voti alle elezioni di domenica in Ucraina
dal Partito delle regioni del premier filorusso Viktor Yanukovich sul
partito di Julia Timoshenko sarebbe frutto dei ritardi e delle
irregolarita’ nello spoglio dei voti nelle regioni roccaforte dello
stesso primo ministro, quelle del sud e dell’est. E’ quanto ha
denunciato Aleksey Soldatenko, dell’Independent journalist
association, che ha sede a Kharkiv.

Non ci sarebbero state dunque solo le 400 violazioni elettorali
riscontrate dalla polizia a Luhansk, citta’ dell’Ucraina sudorientale,
dove la corte amministrativa ha accolto il ricorso del blocco “Nostra
Ucraina – Autodifesa popolare”, contro la concessione del voto a
seimila cittadini che erano stati esclusi dalle in base alle
informazioni della polizia di frontiera.

(Fau-Spe/Ct/Adnkronos)
04-OTT-07 19:58

Le sanzioni di Israele contro Gaza preoccupano il Segretario dell’ONU

Da Gaza intervista a Luisa Morgantini, di Fausta Speranza

Le sanzioni di Israele contro gaza preoccupano il Segretario dell’ONU, il Parlamento europeo e il Custode di Terra Santa, mentre la Rice, in missione in MO, sembra prendere le distanze. Israele proclama l’intera Striscia di Gaza “entità nemica” e annuncia un piano di sanzioni economiche per il milione e mezzo di persone che vi abitano. Tel Aviv parla di reazione al lancio di razzi Qassam da parte di miliziani palestinesi. Le forniture di carburante ed energia verranno ridotte, le frontiere chiuse a persone e merci. Il segretario di Stato americano Condoleezza Rice, giunta oggi in Israele per preparare la conferenza internazionale di pace che gli Stati Uniti hanno convocato per novembre a Washington, ha detto che le sanzioni non agevolano il dialogo e ha precisato che “per il governo degli Stati Uniti l’entità nemica è Hamas”.
Da parte sua, Hamas fa sapere che il provvedimento di Israele “equivale a una dichiarazione di guerra”. Il presidente palestinese Abbas, parla di “punizione arbitraria”. Interviene anche il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon per dirsi “molto preoccupato” per la decisione del governo israeliano.

Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, sottolinea che questo tipo di decisioni “non porta soluzioni ma solo nuovi problemi a una popolazione palestinese stremata”. Intanto un ragazzo palestinese è stato ucciso nel corso di un’incursione dell’esercito israeliano nei pressi del campo profughi di El Burej, nel centro della striscia di Gaza.

E proprio a Gaza in questo momento c’è una delegazione del Parlamento europeo, che ha già fatto tappa a Gerusalemme e in Cisgiordania. Una missione sullo stato attuale dei progetti europei e l’efficacia degli aiuti.

Fausta Speranza ha raggiunto a Gaza la vice presidente del Parlamento europeo, Luisa Morgantini, e le ha chiesto innanzitutto una reazione all’annuncio di Israele:

Noi da sempre sosteniamo che è indispensabile e necessario che vengano applicate le risoluzioni delle Nazioni Unite, che vuol dire la fine dell’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e Gaza. Come parlamentari europei ci auguriamo davvero che i palestinesi possano trovare una soluzione al loro interno e trovare un’unità politica e territoriale. Qui diciamo che questa dichiarazione, fatta da Israele, è davvero una minaccia e soprattutto, è assolutamente una formula nuova anche nella legalità internazionale. Le dichiarazioni – per esempio – di voler bloccare l’elettricità e il combustibile rappresentano una punizione collettiva ad un milione e mezzo di persone che già vive strangolata, perché in realtà Gaza è una gabbia in cui nessuno o pochissimi possono entrare ed uscire. Ci sono centinaia di persone malate che devono andare a curarsi in Egitto e non possono uscire; ci sono 600 studenti che hanno avuto scholarship internazionali e perdono scholarship e borse di studio… Io credo che la comunità internazionale dovrebbe veramente intervenire! Certo, bisogna assolutamente bloccare i lanci di razzi che cadono su Sderot, ma sinceramente Israele sta continuando non soltanto a Gaza ma anche nella Westbank, a fare incursioni militari, ad uccidere…

A Gaza sono prigionieri, ma anche nella Westbank, dove ci sono più di 600 check-point con soldati e i palestinesi sono chiusi dentro le loro città.
o dal muro o dai check-point.

D. – Onorevole Morgantini, quanto è lontana nella percezione della gente, lì, la prospettiva della Conferenza che gli Stati Uniti stanno preparando per il Medio Oriente a novembre?

R. – E’ molto lontana! Nessuno crede, in realtà, a questa ipotesi. Se non vedono dei cambiamenti adesso, se non vedono sinceramente cambiare le loro condizioni di vita, vedono la conferenza di novembre come un’altra illusione e infatti ci sono centinaia di giovani israeliani, e non soltanto giovani, che insieme ai palestinesi – per esempio – manifestano da più di tre anni pacificamente, in modo non violento, a Belain, dove vi è un muro che toglie al villaggio di Belain il 65 per cento della terra …

D. – Che cosa ci dice degli altri posti visitati dalla vostra delegazione in questi giorni?

R. – In questo momento sono a Gaza e devo dire qualcosa dell’ospedale Shiffat: è desolante vedere questa città che sembra una città deserta.
Ieri siamo stati a Hebron e abbiamo visto il risultato di avere all’interno di quella città un insediamento di ortodossi israeliani che praticamente occupano il centro della città: hanno reso il centro di Hebron – un centro storico straordinario – praticamente deserto. Più di mille negozi palestinesi hanno dovuto chiudere per la presenza dei coloni, hanno dovuto abbandonare il centro. Abbiamo visto poi a Ramallah e a Betlemme le tragiche conseguenze del muro che viene costruito da Israele e che, anche se può aver sicuramente bloccato qualche attentato, è un muro in realtà di pura annessione coloniale. E’ un muro che divide palestinesi da palestinesi: abbiamo visto il muro attraversare cortili di case…

20/09/2007

Premio Sakharov 2006 (italiano e inglese)

Al dissidente bielorusso Alexander Milinkevich il premio Sacharov  per i diritti umani  2006

Il premio intitolato al dissidente sovietico inventore della bomba H Andrei Sakharov nell’edizione 2006 va a un altro studioso di fisica: Aleksandr Milinkevic, professore 59enne noto però per essere il capo dell’opposizione a Lukashenko, che USA e Parlamento europeo ritengono l’ultimo dittatore d’Europa. E’ appena cominciata a Strasburgo la cerimonia per la consegna del premio che il Parlamento Europeo assegna a chi si è distinto per la difesa dei diritti umani e in particolare della libertà di espressione. Dalla sede di Strasburgo del Parlamento europeo, Fausta Speranza:

ore 12.00 del 12/12/2006

Alexander Milinkevich is the winner of the 2006 Sakharov Prize. Every year, the European Parliament awards the Sakharov Prize for “Freedom of Thought” to exceptional individuals or organisations fighting against oppression, intolerance and injustice. Nelson Mandela, Kofi Annan and the UN are among former winners. The award is a visible means for Parliament to honour and support those who have put themselves at risk in the cause of liberty. From Strasburg Fausta Speranza:

 ore 12.00 del 12/12/2006

Si è svolta stamane a Strasburgo la cerimonia di consegna del premio Sakharov a Alexander Milinkevich, leader dell’opposizione a Lukashenko in Bielorussia. Il riconoscimento, intitolato al più famoso dei dissidenti dell’ex Unione sovietica, va a chi si è distinto per la difesa dei diritti umani e in particolare della libertà di espressione. Dalla sede di Strasburgo del Parlamento europeo, Fausta Speranza:

ore 14.00 del 12/12/2006

This morning the Belarusian leader Alexander Milinkevich received the Sakharov prize for his fight for democracy in the former Soviet republic. The ceremony  in Strasbourg, during the December session of the European Parliament. Fausta Speranza:

 ore 16 del 12/12/2006

Alexander Milinkevich, leader dell’opposizione a Lukashenko in Bielorussia, ha ricevuto ieri dal Parlamento europeo il premio  Sacharov. Intitolato al più famoso dei dissidenti dell’ex Unione sovietica, il riconoscimento va a chi si è distinto per la difesa dei diritti umani e in particolare della libertà di espressione. Da Strasburgo, Fausta Speranza:

{mp3}sacharov3{/mp3}   ore 8.00 del 13/12/2006

Londongrad

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Limes N. 6 2006

Vodga, caviale e affari all’ombra del Big Ben

di Fausta Speranza da Londra

Non è ancora ‘Londongrad’ ma la terza piazza borsistica al mondo parla sempre di più russo. Le case acquistate da ex oligarchi sono tra le più lussuose, compresa la residenza al numero 15 di Kensington Palace Gardens, accanto al palazzo numero due di Londra dopo Buckingham. A chi ha negli occhi la dimensione di bellezza e di esclusività del luogo è dato di capire di più la portata, anche simbolica, dell’acquisto. E di simbolico ci sarebbe anche che il vicino di casa è il principe Michael di Kent, noto in Russia per la sua somiglianza con lo zar Nicola II. Di molto concreto c’è il prezzo: 41 milioni di pound, cioè 105 milioni di dollari. E se il pensiero va a Abramovic, il famoso magnate russo proprietario del Chelsea Fooball Club, si deve correggere. C’è qualcuno che ha battuto la sua offerta, sempre con accento russo. Si chiama Leonard Blavatnik e testimonia, non da solo, che Abramovic, che ha 40 anni, rappresenta un fenomeno particolare ma non un’eccezione assoluta. Dietro la sua smisurata ricchezza ci sono altri, da meno ma non per molto. Approfondiremo questi nomi senza dimenticare il 58enne Boris Berezovsky, che dal Regno Unito ha ottenuto asilo politico e cittadinanza cambiando il nome in Platon Yelenin, ma che spesso si muove con passaporto israeliano.
Cercando una qualche indicazione della presenza russa, dall’Ambasciata di Mosca a Londra ci si sente dire che non c’è statistica neanche per quanto riguarda gli ingressi in Gran Bretagna. Il numero di permessi rilasciati risulta all’Ambasciata britannica a Mosca: 11.130 visti nei primi otto mesi del 2006, che segnano un incremento rispetto al 2004 del 40%. Va da sé che la cifra è sottostimata, ci spiegano, perchè mancano i clandestini. Attualmente sembra siano 70.000 i russi a Londra. Due anni fa, erano 40.000. C’è poi un dato che fotografa giovani e, quindi, di per sé proiettato al futuro: quest’anno sono 85 gli studenti russi alla London Economics and Political Sciences e, facendo il confronto ancora con due anni fa, si sfiora davvero il raddoppio. Erano infatti 44. Guardando invece alle cifre monetarie, ovviamente non ci sono statistiche. Si è parlato di più di 100 miliardi di dollari che hanno lasciato la Russia tra il 1998 e il 2004 per raggiungere, la maggior parte, conti offshore in Svizzera o altrove. Da lì è impossibile seguirne le tracce, ma non si possono dimenticare i vantaggi che la Gran Bretagna offre in tema
di tassazione a persone con conti offshore. Inoltre, nei soli primi sei mesi del 2005, compagnie russe hanno registrato 2,5 miliardi di dollari nella City.
In ogni caso, se non è dato sapere quanti soldi sono arrivati a Londra dalla Russia, si fotografano altri elementi che si traducono in soldi che girano. Ogni grande banca ha un impiegato che parla russo. Harvey Nichols, cugino più giovane di Harrods, ha diversi assistenti madrelingua. Ogni negozio a livello di firme, come Fendi, ha un commesso in grado di capire e orientare i gusti delle signore russe. Robert Bailey, della Robert Bailey Property, agenzia specializzata in case di lusso, assicura che “c’è una grande richiesta da parte di russi”. A contendere il primato dei costi, e anche l’attenzione dei russi, sono gli appartamenti in costruzione a Knightsbridge, che vantano misure di sicurezza da record.  Il progetto è stato approvato a febbraio 2006 dalle autorità:  prevede 86 appartamenti al prezzo di 20 milioni di pound l’una ed è una produzione dei giovani fratelli Nick e Christian Candy, designer e progettisti che vivono nel più costoso appartamento di Londra, 27 milioni di pound. Saranno dotati di ascensori con accesso direttamente a Hyde Park, sistemi biometrici che riconoscono l’iride, telecamere a prova di proiettili e altre sofisticatissime misure di sicurezza.  Viene in mente che Berezovisky ha ottenuto la cittadinanza dichiarando di essere in pericolo di vita in patria. Ma certamente non mancano seri motivi per difendersi a nessun miliardario o milionario.
Nel caso di altre due esclusive agenzie immobiliari, Savills Estate Agency e Harrods Estate, si parla di case e proprietà. Della Savills, basta dire che è leader del settore, della Harrods Estate, che ha due uffici: uno a Knightsbridge, che si occupa delle vendite a Chelsea, Belgravia, Knightsbridge e South Kensington,  e uno a Mayfair, che copre Regents Park, St James. Sono le zone di Londra più belle in assoluto e quelle che contano di più. Ed è significativo che entrambe le agenzie abbiano un desk per la clientela russa. Abbiamo provato a chiedere a Alexandra Lovel, riferimento per la prima, e a Tatiana Beker, riferimento per la seconda, qualche statistica di vendita ma il rispetto della privacy del cliente è assoluto. Si conferma la percezione di una presenza al top.
Passeggiando presso Gloucester Road o entrando in uno dei Pub di livello a
Tower Hill, non siamo più sul piano dei miliardari ma di operatori di borsa, agenti di cambio e assicuratori. All’Emperor Pub alcune sere senti parlare più russo che inglese. Ci spiegano che parecchi nightclub fanno venire da Mosca i DJ. Al Bar Aquarium in Old Street la notte si fa proprio russa: bande in costumi tipici, donne biondi e forti che danzano con seduzione. E’ tenuto da Andrei Lomin, che ci tiene a mettere sul piatto della conversazione la sua laurea in Oceanologia prima di altro, e da sua moglie Sonia, che fa la modella. E’ lì che ci siamo sentiti spiegare che un russo si sente accolto e amato dagli inglesi, perché si tratta di due grandi popoli, per poi sentir dire, quasi en passant, che il russo si distingue sempre per un eccezionale binomio di forza e cultura. E’ un businessman che, con l’aria di riaffermare quanto sostiene spesso,  spiega orgoglioso che un uomo russo può costruire una casa dalle fondamenta e citare Dostojevski. Per poi aggiungere, dopo una pausa, che in Inghilterra gli uomini devono chiamare un idraulico per una goccia d’acqua. Analoga sensazione vicina ad un’allucinazione da colbacchi puoi averla il giovedì sera a Vauxhall Station, ma la frequentazione scende ulteriormente di livello. Siamo su un piano difficile da definire perché si ostentano più o meno soldi ma in modi che a volte  tradiscono uno scarso livello culturale.
Questi sono angoli che si scoprono osservando  bene una città come Londra dove si parlano 300 lingue e dove  la multiculturalità è stata sperimentata prima che teorizzata. Ci sono, cioè, isole di città dove in certi momenti viene voglia di caviale e dove girano giornali e magazine russi, ma una città così inglese e così plurietnica come la città di Blackfriars e di Piccadilly Circus può anche contenere tutto ciò senza che il turista più curioso o il giornalista attento se ne accorgano a prima vista. Non può certo colpire più di tanto sapere che Trafalgar Square  ha ospitato a gennaio 2006 il secondo Festival invernale russo, perché vengono in mente manifestazioni di ogni genere.
Il punto è che, pur sapendo che ci sono almeno 7 pubblicazioni che escono a Londra in russo, è ben difficile trovarle. Hai molte chance se partecipi ad uno dei
possibili ritrovi. Già ne hai meno se frequenti uno dei ristoranti che si stanno moltiplicando all’ombra di Caviar House, o se fai acquisti in uno dei circa 40 negozi di
prodotti alimentari tipici russi. La Russian Media House, che può essere un punto di riferimento, non ha alcuna insegna esterna e neanche una scritta che la identifichi sul citofono. Ma se arrivi ad avere tra le mani  una delle patinate riviste, il target pubblicitario è ben definito e inequivocabile: una clientela di ben alto livello. Harrods viene menzionato solo per l’area dedicata ai gioielli e ti scopri a pensare che in effetti è un grande magazzino appena più folcloristico di altri, se ti fai una passeggiata cercando gli altri negozi citati nella rivista e concentrati nelle zone più ‘in’. L’universo acquisti comincia a Jermyn Street, strada di alta sartoria. Non mancano gli indirizzi precisi di tutte le firme a livello mondiale in tema di abiti, e di inglese c’è l’atelier delle costose e stravaganti creazioni di Scarlet Ribbon a Conduit Street. Per i cappelli l’indicazione è per Lock and Company in St. James Street. Un’altra strada che compare più volte è Pall Mall, la strada dei tradizionali elitari club inglesi. A proposito di club, per il golf è pubblicizzato il Stoke Park Club, che lasciamo all’immaginazione del lettore. Per un parrucchiere il suggerimento è ancora una volta a knightsbridge. Insomma è solo di questo tenore, visto che non ci sono cadute di livello,  quello che interessa  trovare alla maggioranza di russi presenti a Londra, se le riviste si focalizzano su questo. D’altra parte, la Exclusive London from Russia Media House, pubblicata in formato quaderno, si presenta subito in copertina con il logo rappresentato da un grande diamante, che traduce per l’immaginario il termine “exclusive”.
Se tutto ciò non è esattamente evidente al primo impatto, anche perché la clientela giapponese fa la sua parte nello svaligiare le gioiellerie di Bond Street, diverso è il punto di vista di uomini d’affari, commercianti  e soprattutto di consulenti finanziari. Loro sono ben consapevoli di questa clientela russa e stanno gestendo il tutto come una grande, scrupolosa “industria di soldi”. L’espressione è del legale Joe McDonald.  E come tale deve vederla  anche l’occhio politico, se un esponente come Gordon Brown fa trapelare di avere dei dubbi su qualche aspetto del fenomeno per poi bloccarsi. E sembra di capire che a fermarlo siano state le cifre spese da russi. Abbiamo già capito che i turisti spendono
come gli americani ma poi ci sono anche i più o meno residenti che, oltre a comprare intoccabili proprietà e a consumare in ristoranti d’elite, assicurano i salari a tutti i dipendenti, dal cuoco all’autista al traduttore. Tutto può servire: quando, a gennaio scorso, Abramovic ha avuto un infortunio al menisco ha prenotato un ricovero al Wellington Hospital pagando 700 pound a notte. Sono comodità obbligate per  chi può permettersi di vivere, o soggiornare, a un passo dai monumenti storici  della città con  un mercato immobiliare più costoso di New York. C’è anche chi “consuma” di passaggio, come Oleg Deripaska, uno dei dieci miliardari russi che almeno per un lungo periodo ha fatto tappa a Londra tutte le settimane, dichiarando di voler migliorare il suo inglese. Neanche a dirlo ha un punto di appoggio in una casa a Belgravia. Dove ne ha una  anche Abramovic. A Chelsea, invece,  ha comprato casa Berezovsky, mentre ha scelto Mayfair  Alexandre Gaydamak, il trentenne che a gennaio scorso ha fatto un’offerta impossibile da rifiutare per acquistare la metà del Portsmouth Football Club, anche se non è chiaro se rientri nei 36 miliardari russi o se apra la lista dei milionari.
Stiamo parlando di ex oligarchi che hanno fatto fortuna dai tempi delle liberalizzazioni selvagge di Eltsin e di nuovi ricchi russi. Nel 2003 il quasi sconosciuto  Abramovic arriva alla ribalta delle cronache  con l’assegno di 300 milioni di dollari con cui acquista il Chelsea Football Club. E’ evidente che dalla Piazza Rossa già si guardava a Westminster quando, due anni fa, il più ricco di tutti, Khodorkovsky,  è stato condannato, con la sua Yukos, per frode ed evasione fiscale e poi inviato in Siberia. Una mossa partita dal Cremlino dopo anni di espansione economica del miliardario ma solo dopo pochissimo tempo dal suo serio interessamento alla politica. Qualcosa di diverso dall’impegno di governatore della regione Chukotka assunto tempo fa per due anni da Abramovic. In ogni caso, dalla caduta di  Khodorkovsky in molti hanno pensato di navigare nel Tamigi. Nel 2005 Abramovic,  che deve sostanzialmente la sua fortuna al petrolio, ha venduto al governo russo per 7,4 miliardi di pound la Compagnia petrolifera Sibneft che aveva acquistato per poco meno di 100 milioni di pound insieme con Berezovisky. E, parlando di Abramovic, si deve ricordare che nel 2001 la polizia russa aveva aperto un’indagine contro la sua
Sibneft per un’evasione fiscale di circa 450 milioni di dollari, ma il caso è stato chiuso senza    procedimenti.

Va detto perché scelgono Londra, lasciando da parte il fascino e la vivibilità di una città fatta di tanti “villaggi” e di tante facce ma capace di un abbraccio particolare. Le ragioni vere stanno nell’essere un forte mercato di capitali molto vicino a Mosca, solo 4 ore di volo che in jet privati si riducono a tre, e poi ci sono il sistema fiscale favorevole e il sistema giudiziario che ben protegge gli investitori. Non è una novità che gli investimenti in Gran Bretagna sono largamente incentivati dal governo,  che gli investitori stranieri godono  dello stesso  trattamento dei locali e che soldi provenienti da conti offshore non sono indagati. Se provengono da affari non leciti non è un problema del Regno Unito dove arrivano.
Il commercialista di alto livello Humphrey Creed ribadisce, dal suo studio a Salisbury Square, che l’apertura assoluta agli investimenti è una scelta politica.  In testa tra gli investitori ci sono gli Stati Uniti, seguiti dall’India. La Russia – ci dice – non saprebbe collocarla. Del sistema inglese, Creed dice  che “si tratta delle tasse più basse rispetto al resto del mondo”. Ci ricorda la filosofia che ci sta dietro: “Tassare meno più persone porta più soldi che tassare di più meno persone, anche perché comporta meno evasione”. Sulla dimensione della clientela russa dei commercialisti, Creed non si sbilancia ma ammette che quasi tutti i più noti si avvalgono di personale che parla la lingua. Lui sembra fare eccezione ma poi spiega che il suo gruppo ha una partnership con una compagnia in Russia. Dunque la consulenza sembra essere a monte, piuttosto che a valle.
Il punto è che ci sono soldi che vengono spesi a Londra ma che in Gran Bretagna non sembrano arrivare. In realtà,  guadagni realizzati all’estero non sono tassabili ma lo diventano se entrano nel Paese, ad esempio con un acquisto. I conti offshore non sono un fenomeno russo-britannico ma ce ne occupiamo perché cerchiamo di capire se i ricchi russi, che continuano ad arrivare, pagano tasse a sua Maestà. E se questo può essere un bel motivo in più per amare il Big Ben. Va ricordato che chi è domiciliato in Russia, nel Regno Unito  può comprare e vendere senza pagare pegno, a meno che non controlli gli affari dalla Gran Bretagna. Rakesh Kapila,
commercialista insignito del titolo di membro dell’Accademia di esperti e specializzato
tra l’altro in investigazioni di frodi, ricorda il caso di Mohamed Al-Fayed che non intendeva pagare le tasse su affari esteri ma che ha perso la sua causa perché li gestiva dalla Gran Bretagna. Kapila aggiunge però che, con le nuove tecnologie, è molto difficile provare una cosa del genere. Ammette che l’espressione “grande industria di soldi” per consulenti ed esperti di tasse è giustificata. E offre solo alcuni esempi di stratagemmi per  evitare di pagare le tasse restando nella legalità: dichiarare che il 30% del tempo di gestione degli affari è all’estero; tenere nelle isole Cayman il 20-30% dei profitti; portare soldi nel Regno Unito ma tenere separati i conti per il capitale e per gli interessi. Ricordiamo che il non residente deve trascorrere meno di 183 giorni  l’anno su territorio britannico e, su 4 anni, meno  di 90 giorni di media. Non far timbrare il passaporto è lo stratagemma più elementare. Ovviamente non sono solo questi gli escamotage  che fruttano una fortuna ai consulenti della City, ma sono  esempi.
In tema sono ovviamente anche i paradisi fiscali che non nascono certo con il fenomeno dei miliardari russi a Londra, ma che rientrano nel capitolo stratagemmi. Si può comprare qualcosa in Cina a 10 pound, venderla in Jersey a 12 e poi in Gran Bretagna  a 13. Se si denuncia solo il prezzo in Jersey e nel Regno Unito il profitto, su cui si pagherà tassa, è solo di un pound. Kapila spiega che nel caso delle isole Jersey o  Guernsey c’è più di un legame con il mondo anglosassone e dunque può essere più  facile indagare. E fa l’esempio del gruppo bancario Barclays che per una questione di carte di credito ha ottenuto dati abbastanza riservati da autorità in Jersey. Ma per altri paradisi fiscali non c’è appiglio per investigazioni. E, sempre in tema di indagini, Kapila ammette che le risorse sono limitate e spiega che vengono indirizzate sui grandi gruppi: non ci si può permettere di puntare agli individui, per i quali tra l’altro è anche più difficile. Ci viene da pensare che ci sono individui che fatturano come, o più, di una grande compagnia farmaceutica e Kapila ci conferma che “il sospetto è che ce ne siano soprattutto dall’est Europa”. Ammette anche che “finora non c’è stata una focalizzazione su stranieri”. E poi c’è la situazione dei controlli che l’esperto di frodi fotografa così: prima c’erano due dipartimenti, uno per le frodi sulle tasse delle
entrate e uno per le frodi relative all’IVA. Sono stati accorpati e a farla da padrona è
l’IVA perché alimenta, nel Regno Unito, un’evasione di 5 miliardi l’anno. Non meraviglia perché si tratta di un fenomeno generalizzato: l’Unione Europea perde 50 miliardi l’anno per frodi relative all’IVA, una cifra pari a quanto spende in politica agricola.
In definitiva è Kapila stesso a citare Roman Abramovic, dicendo che “ci sono parecchie chiacchiere su di lui” ma che non si meraviglierebbe se dal punto di vista legale fosse  inattaccabile.  Aggiunge però che si tratta di un caso particolare perché è personaggio che definisce in inglese “too connected” per essere indagato, che si può tradurre in diversi modi ma significa sempre che ha buone conoscenze e relazioni. Sappiamo che è più ricco del duca di Westminster.
Di sicuro possiede una maestosa proprietà a Rogate nel West Sussex che si estende  per 10 kmq, con campi da polo tra i migliori d’Inghilterra, guardie del corpo scelte tra ex SAS, le teste di cuoio dei servizi segreti inglesi, e un edificio per sauna e piscina lungo 130 m. e ribattezzato dai vicini Roman Empire Building.  Ha comprato una casa storica nella Eaton Square di Londra, oltre a quella di Belgravia e, secondo  alcuni, altre case nella capitale. Ma Abramovic sembra proprio abbia evitato di prendere la residenza. In Gran Bretagna, precisamente a Weybridge, nel Surrey, ha base la sua Millhouse Capital, il gruppo societario per la gestione del capitale che, nato nel 2001, ha fatto parlare in particolare per l’accordo con la Gazprom, alla quale ha venduto oltre il 72% della Sibneft.  Anche Berezovisky  potrebbe non essere residente né nella casa a Londra né nella proprietà vicino Godalming in Surrey. Lo stesso sarà per il cantante russo Alsou, che ha un appartamento che affaccia su Lord’s Cricket Ground. O per il già citato Leonard Blavatnik, 47 anni,  che ha fatto soldi ancora una volta con il petrolio, ma anche con gas e metalli. Ha lasciato la Russia per New York nel 1978 ma poi, alla caduta del comunismo, è tornato in patria, in tempo per prendere parte alla spartizione della torta delle liberalizzazioni. Nel 2003 ha messo su la TNK-BP, terza compagnia di petrolio in Russia. Nel 2004 ha fatto l’acquisto più prestigioso, di cui dicevamo: la proprietà a Kensington Palace Gardens, nell’area delle ambasciate, tra cui quella russa, dove possono passare solo macchine autorizzate e
anche i pedoni sono strettamente controllati. Una zona lontana dal traffico londinese
come tanti incantevoli angoli  della città rappresentata dalla caotica Oxford Street ma anche dagli aristocratici cortili alle spalle di Fleet Street, ma non altrettanto frequentabile.
Abbiamo cercato di parlare con Abramovic, pur sapendo che ha sempre negato interviste e che in Russia un quotidiano offre una “taglia” per chi può esibire una sua foto recente. La parola d’ordine, dichiarata, è niente interviste, niente titoli nei media. Berezovisky non ha proprio risposto all’invito. Il suo avvocato  Andrew  Stephenson  ci ha ricordato la sua riservatezza e le sofferenze per le diffamazioni subite, ma – aggiungiamo – ben respinte al mittente, vista l’ultima causa vinta con il The Guardian, costretto, di recente, a pagare 20.000 pound, 35.000 dollari, e a porgere pubbliche scuse.
Non si tratta di diffamazioni, ma c’è qualcosa che Anya e Oleg, da alcuni mesi a Londra, rimproverano alla maggior parte degli inglesi: vedono in ogni russo un bevitore di vodga e intravedono alle sue spalle una famiglia di militari, per non parlare dell’allusione alla mafia. Insomma, luoghi comuni che – dicono – non sono sempre veri. Tanya da dieci anni lavora nella capitale britannica e fa presente di aver assistito alla nascita del primo giornale russo pubblicato all’ombra di Westminster. Veste con gusto occidentale raffinato e parla un ottimo inglese. Sembra propensa ad assolvere chi cade negli stereotipi e poi aggiunge che lei spesso ricorda ai suoi interlocutori che “l’Armata rossa ha salvato l’Europa da Napoleone e da Hitler”. Cerchiamo di usare la stessa clemenza da lei usata per gli stereotipi per quello che ci sembra un particolarissimo punto di vista.
A rivendicare un patrimonio di secoli è anche padre Vadim, della Chiesa ortodossa a Londra, ma la sua è una raccomandazione: “I russi devono salvaguardare la loro cultura e condividere con gli inglesi l’anima russa che hanno formato in centinaia di anni”.
E il pensiero corre a curiosità storiche in tema di relazioni Russia-Gran Bretagna. Pensiamo al 1555 quando Ivan il terribile concesse a un gruppo di inglesi un monopolio su pellame, legname e vestiti. Nasceva la MUSCOY Company. Ben più tardi
Lenin complotterà anche da Londra. E poi c’è il fatto che, dopo la presa di potere da
parte dei bolscevichi, aristocrazia e intellighenzia russa si ripararono nella capitale dell’Inghilterra. Immaginiamo conversazioni tra notabili, intramezzate da tartine al caviale e tazze di tè e scandite da un inglese perfetto e un inglese pronunciato con la forza della musicalità russa. Cadiamo in altri stereotipi, che possono darci, però, il senso dello spessore delle culture e delle occasioni di incontro nella storia.

Non è ancora ‘Londongrad’ ma la terza piazza borsistica al mondo parla sempre di più russo. Le case acquistate da ex oligarchi sono tra le più lussuose, compresa la residenza al numero 15 di Kensington Palace Gardens, accanto al palazzo numero due di Londra dopo Buckingham. A chi ha negli occhi la dimensione di bellezza e di esclusività del luogo è dato di capire di più la portata, anche simbolica, dell’acquisto. E di simbolico ci sarebbe anche che il vicino di casa è il principe Michael di Kent, noto in Russia per la sua somiglianza con lo zar Nicola II. Di molto concreto c’è il prezzo: 41 milioni di pound, cioè 105 milioni di dollari. E se il pensiero va a Abramovic, il famoso magnate russo proprietario del Chelsea Fooball Club, si deve correggere. C’è qualcuno che ha battuto la sua offerta, sempre con accento russo. Si chiama Leonard Blavatnik e testimonia, non da solo, che Abramovic, che ha 40 anni, rappresenta un fenomeno particolare ma non un’eccezione assoluta. Dietro la sua smisurata ricchezza ci sono altri, da meno ma non per molto. Approfondiremo questi nomi senza dimenticare il 58enne Boris Berezovsky, che dal Regno Unito ha ottenuto asilo politico e cittadinanza cambiando il nome in Platon Yelenin, ma che spesso si muove con passaporto israeliano.
Cercando una qualche indicazione della presenza russa, dall’Ambasciata di Mosca a Londra ci si sente dire che non c’è statistica neanche per quanto riguarda gli ingressi in Gran Bretagna. Il numero di permessi rilasciati risulta all’Ambasciata britannica a Mosca: 11.130 visti nei primi otto mesi del 2006, che segnano un incremento rispetto al 2004 del 40%. Va da sé che la cifra è sottostimata, ci spiegano, perchè mancano i clandestini. Attualmente sembra siano 70.000 i russi a Londra. Due anni fa, erano 40.000. C’è poi un dato che fotografa giovani e, quindi, di per sé proiettato al futuro: quest’anno sono 85 gli studenti russi alla London Economics and Political Sciences e, facendo il confronto ancora con due anni fa, si sfiora davvero il raddoppio. Erano infatti 44. Guardando invece alle cifre monetarie, ovviamente non ci sono statistiche. Si è parlato di più di 100 miliardi di dollari che hanno lasciato la Russia tra il 1998 e il 2004 per raggiungere, la maggior parte, conti offshore in Svizzera o altrove. Da lì è impossibile seguirne le tracce, ma non si possono dimenticare i vantaggi che la Gran Bretagna offre in tema
di tassazione a persone con conti offshore. Inoltre, nei soli primi sei mesi del 2005, compagnie russe hanno registrato 2,5 miliardi di dollari nella City.
In ogni caso, se non è dato sapere quanti soldi sono arrivati a Londra dalla Russia, si fotografano altri elementi che si traducono in soldi che girano. Ogni grande banca ha un impiegato che parla russo. Harvey Nichols, cugino più giovane di Harrods, ha diversi assistenti madrelingua. Ogni negozio a livello di firme, come Fendi, ha un commesso in grado di capire e orientare i gusti delle signore russe. Robert Bailey, della Robert Bailey Property, agenzia specializzata in case di lusso, assicura che “c’è una grande richiesta da parte di russi”. A contendere il primato dei costi, e anche l’attenzione dei russi, sono gli appartamenti in costruzione a Knightsbridge, che vantano misure di sicurezza da record.  Il progetto è stato approvato a febbraio 2006 dalle autorità:  prevede 86 appartamenti al prezzo di 20 milioni di pound l’una ed è una produzione dei giovani fratelli Nick e Christian Candy, designer e progettisti che vivono nel più costoso appartamento di Londra, 27 milioni di pound. Saranno dotati di ascensori con accesso direttamente a Hyde Park, sistemi biometrici che riconoscono l’iride, telecamere a prova di proiettili e altre sofisticatissime misure di sicurezza.  Viene in mente che Berezovisky ha ottenuto la cittadinanza dichiarando di essere in pericolo di vita in patria. Ma certamente non mancano seri motivi per difendersi a nessun miliardario o milionario.
Nel caso di altre due esclusive agenzie immobiliari, Savills Estate Agency e Harrods Estate, si parla di case e proprietà. Della Savills, basta dire che è leader del settore, della Harrods Estate, che ha due uffici: uno a Knightsbridge, che si occupa delle vendite a Chelsea, Belgravia, Knightsbridge e South Kensington,  e uno a Mayfair, che copre Regents Park, St James. Sono le zone di Londra più belle in assoluto e quelle che contano di più. Ed è significativo che entrambe le agenzie abbiano un desk per la clientela russa. Abbiamo provato a chiedere a Alexandra Lovel, riferimento per la prima, e a Tatiana Beker, riferimento per la seconda, qualche statistica di vendita ma il rispetto della privacy del cliente è assoluto. Si conferma la percezione di una presenza al top.
Passeggiando presso Gloucester Road o entrando in uno dei Pub di livello a
Tower Hill, non siamo più sul piano dei miliardari ma di operatori di borsa, agenti di cambio e assicuratori. All’Emperor Pub alcune sere senti parlare più russo che inglese. Ci spiegano che parecchi nightclub fanno venire da Mosca i DJ. Al Bar Aquarium in Old Street la notte si fa proprio russa: bande in costumi tipici, donne biondi e forti che danzano con seduzione. E’ tenuto da Andrei Lomin, che ci tiene a mettere sul piatto della conversazione la sua laurea in Oceanologia prima di altro, e da sua moglie Sonia, che fa la modella. E’ lì che ci siamo sentiti spiegare che un russo si sente accolto e amato dagli inglesi, perché si tratta di due grandi popoli, per poi sentir dire, quasi en passant, che il russo si distingue sempre per un eccezionale binomio di forza e cultura. E’ un businessman che, con l’aria di riaffermare quanto sostiene spesso,  spiega orgoglioso che un uomo russo può costruire una casa dalle fondamenta e citare Dostojevski. Per poi aggiungere, dopo una pausa, che in Inghilterra gli uomini devono chiamare un idraulico per una goccia d’acqua. Analoga sensazione vicina ad un’allucinazione da colbacchi puoi averla il giovedì sera a Vauxhall Station, ma la frequentazione scende ulteriormente di livello. Siamo su un piano difficile da definire perché si ostentano più o meno soldi ma in modi che a volte  tradiscono uno scarso livello culturale.
Questi sono angoli che si scoprono osservando  bene una città come Londra dove si parlano 300 lingue e dove  la multiculturalità è stata sperimentata prima che teorizzata. Ci sono, cioè, isole di città dove in certi momenti viene voglia di caviale e dove girano giornali e magazine russi, ma una città così inglese e così plurietnica come la città di Blackfriars e di Piccadilly Circus può anche contenere tutto ciò senza che il turista più curioso o il giornalista attento se ne accorgano a prima vista. Non può certo colpire più di tanto sapere che Trafalgar Square  ha ospitato a gennaio 2006 il secondo Festival invernale russo, perché vengono in mente manifestazioni di ogni genere.
Il punto è che, pur sapendo che ci sono almeno 7 pubblicazioni che escono a Londra in russo, è ben difficile trovarle. Hai molte chance se partecipi ad uno dei
possibili ritrovi. Già ne hai meno se frequenti uno dei ristoranti che si stanno moltiplicando all’ombra di Caviar House, o se fai acquisti in uno dei circa 40 negozi di
prodotti alimentari tipici russi. La Russian Media House, che può essere un punto di riferimento, non ha alcuna insegna esterna e neanche una scritta che la identifichi sul citofono. Ma se arrivi ad avere tra le mani  una delle patinate riviste, il target pubblicitario è ben definito e inequivocabile: una clientela di ben alto livello. Harrods viene menzionato solo per l’area dedicata ai gioielli e ti scopri a pensare che in effetti è un grande magazzino appena più folcloristico di altri, se ti fai una passeggiata cercando gli altri negozi citati nella rivista e concentrati nelle zone più ‘in’. L’universo acquisti comincia a Jermyn Street, strada di alta sartoria. Non mancano gli indirizzi precisi di tutte le firme a livello mondiale in tema di abiti, e di inglese c’è l’atelier delle costose e stravaganti creazioni di Scarlet Ribbon a Conduit Street. Per i cappelli l’indicazione è per Lock and Company in St. James Street. Un’altra strada che compare più volte è Pall Mall, la strada dei tradizionali elitari club inglesi. A proposito di club, per il golf è pubblicizzato il Stoke Park Club, che lasciamo all’immaginazione del lettore. Per un parrucchiere il suggerimento è ancora una volta a knightsbridge. Insomma è solo di questo tenore, visto che non ci sono cadute di livello,  quello che interessa  trovare alla maggioranza di russi presenti a Londra, se le riviste si focalizzano su questo. D’altra parte, la Exclusive London from Russia Media House, pubblicata in formato quaderno, si presenta subito in copertina con il logo rappresentato da un grande diamante, che traduce per l’immaginario il termine “exclusive”.
Se tutto ciò non è esattamente evidente al primo impatto, anche perché la clientela giapponese fa la sua parte nello svaligiare le gioiellerie di Bond Street, diverso è il punto di vista di uomini d’affari, commercianti  e soprattutto di consulenti finanziari. Loro sono ben consapevoli di questa clientela russa e stanno gestendo il tutto come una grande, scrupolosa “industria di soldi”. L’espressione è del legale Joe McDonald.  E come tale deve vederla  anche l’occhio politico, se un esponente come Gordon Brown fa trapelare di avere dei dubbi su qualche aspetto del fenomeno per poi bloccarsi. E sembra di capire che a fermarlo siano state le cifre spese da russi. Abbiamo già capito che i turisti spendono
come gli americani ma poi ci sono anche i più o meno residenti che, oltre a comprare intoccabili proprietà e a consumare in ristoranti d’elite, assicurano i salari a tutti i dipendenti, dal cuoco all’autista al traduttore. Tutto può servire: quando, a gennaio scorso, Abramovic ha avuto un infortunio al menisco ha prenotato un ricovero al Wellington Hospital pagando 700 pound a notte. Sono comodità obbligate per  chi può permettersi di vivere, o soggiornare, a un passo dai monumenti storici  della città con  un mercato immobiliare più costoso di New York. C’è anche chi “consuma” di passaggio, come Oleg Deripaska, uno dei dieci miliardari russi che almeno per un lungo periodo ha fatto tappa a Londra tutte le settimane, dichiarando di voler migliorare il suo inglese. Neanche a dirlo ha un punto di appoggio in una casa a Belgravia. Dove ne ha una  anche Abramovic. A Chelsea, invece,  ha comprato casa Berezovsky, mentre ha scelto Mayfair  Alexandre Gaydamak, il trentenne che a gennaio scorso ha fatto un’offerta impossibile da rifiutare per acquistare la metà del Portsmouth Football Club, anche se non è chiaro se rientri nei 36 miliardari russi o se apra la lista dei milionari.
Stiamo parlando di ex oligarchi che hanno fatto fortuna dai tempi delle liberalizzazioni selvagge di Eltsin e di nuovi ricchi russi. Nel 2003 il quasi sconosciuto  Abramovic arriva alla ribalta delle cronache  con l’assegno di 300 milioni di dollari con cui acquista il Chelsea Football Club. E’ evidente che dalla Piazza Rossa già si guardava a Westminster quando, due anni fa, il più ricco di tutti, Khodorkovsky,  è stato condannato, con la sua Yukos, per frode ed evasione fiscale e poi inviato in Siberia. Una mossa partita dal Cremlino dopo anni di espansione economica del miliardario ma solo dopo pochissimo tempo dal suo serio interessamento alla politica. Qualcosa di diverso dall’impegno di governatore della regione Chukotka assunto tempo fa per due anni da Abramovic. In ogni caso, dalla caduta di  Khodorkovsky in molti hanno pensato di navigare nel Tamigi. Nel 2005 Abramovic,  che deve sostanzialmente la sua fortuna al petrolio, ha venduto al governo russo per 7,4 miliardi di pound la Compagnia petrolifera Sibneft che aveva acquistato per poco meno di 100 milioni di pound insieme con Berezovisky. E, parlando di Abramovic, si deve ricordare che nel 2001 la polizia russa aveva aperto un’indagine contro la sua
Sibneft per un’evasione fiscale di circa 450 milioni di dollari, ma il caso è stato chiuso senza    procedimenti.

Va detto perché scelgono Londra, lasciando da parte il fascino e la vivibilità di una città fatta di tanti “villaggi” e di tante facce ma capace di un abbraccio particolare. Le ragioni vere stanno nell’essere un forte mercato di capitali molto vicino a Mosca, solo 4 ore di volo che in jet privati si riducono a tre, e poi ci sono il sistema fiscale favorevole e il sistema giudiziario che ben protegge gli investitori. Non è una novità che gli investimenti in Gran Bretagna sono largamente incentivati dal governo,  che gli investitori stranieri godono  dello stesso  trattamento dei locali e che soldi provenienti da conti offshore non sono indagati. Se provengono da affari non leciti non è un problema del Regno Unito dove arrivano.
Il commercialista di alto livello Humphrey Creed ribadisce, dal suo studio a Salisbury Square, che l’apertura assoluta agli investimenti è una scelta politica.  In testa tra gli investitori ci sono gli Stati Uniti, seguiti dall’India. La Russia – ci dice – non saprebbe collocarla. Del sistema inglese, Creed dice  che “si tratta delle tasse più basse rispetto al resto del mondo”. Ci ricorda la filosofia che ci sta dietro: “Tassare meno più persone porta più soldi che tassare di più meno persone, anche perché comporta meno evasione”. Sulla dimensione della clientela russa dei commercialisti, Creed non si sbilancia ma ammette che quasi tutti i più noti si avvalgono di personale che parla la lingua. Lui sembra fare eccezione ma poi spiega che il suo gruppo ha una partnership con una compagnia in Russia. Dunque la consulenza sembra essere a monte, piuttosto che a valle.
Il punto è che ci sono soldi che vengono spesi a Londra ma che in Gran Bretagna non sembrano arrivare. In realtà,  guadagni realizzati all’estero non sono tassabili ma lo diventano se entrano nel Paese, ad esempio con un acquisto. I conti offshore non sono un fenomeno russo-britannico ma ce ne occupiamo perché cerchiamo di capire se i ricchi russi, che continuano ad arrivare, pagano tasse a sua Maestà. E se questo può essere un bel motivo in più per amare il Big Ben. Va ricordato che chi è domiciliato in Russia, nel Regno Unito  può comprare e vendere senza pagare pegno, a meno che non controlli gli affari dalla Gran Bretagna. Rakesh Kapila,
commercialista insignito del titolo di membro dell’Accademia di esperti e specializzato
tra l’altro in investigazioni di frodi, ricorda il caso di Mohamed Al-Fayed che non intendeva pagare le tasse su affari esteri ma che ha perso la sua causa perché li gestiva dalla Gran Bretagna. Kapila aggiunge però che, con le nuove tecnologie, è molto difficile provare una cosa del genere. Ammette che l’espressione “grande industria di soldi” per consulenti ed esperti di tasse è giustificata. E offre solo alcuni esempi di stratagemmi per  evitare di pagare le tasse restando nella legalità: dichiarare che il 30% del tempo di gestione degli affari è all’estero; tenere nelle isole Cayman il 20-30% dei profitti; portare soldi nel Regno Unito ma tenere separati i conti per il capitale e per gli interessi. Ricordiamo che il non residente deve trascorrere meno di 183 giorni  l’anno su territorio britannico e, su 4 anni, meno  di 90 giorni di media. Non far timbrare il passaporto è lo stratagemma più elementare. Ovviamente non sono solo questi gli escamotage  che fruttano una fortuna ai consulenti della City, ma sono  esempi.
In tema sono ovviamente anche i paradisi fiscali che non nascono certo con il fenomeno dei miliardari russi a Londra, ma che rientrano nel capitolo stratagemmi. Si può comprare qualcosa in Cina a 10 pound, venderla in Jersey a 12 e poi in Gran Bretagna  a 13. Se si denuncia solo il prezzo in Jersey e nel Regno Unito il profitto, su cui si pagherà tassa, è solo di un pound. Kapila spiega che nel caso delle isole Jersey o  Guernsey c’è più di un legame con il mondo anglosassone e dunque può essere più  facile indagare. E fa l’esempio del gruppo bancario Barclays che per una questione di carte di credito ha ottenuto dati abbastanza riservati da autorità in Jersey. Ma per altri paradisi fiscali non c’è appiglio per investigazioni. E, sempre in tema di indagini, Kapila ammette che le risorse sono limitate e spiega che vengono indirizzate sui grandi gruppi: non ci si può permettere di puntare agli individui, per i quali tra l’altro è anche più difficile. Ci viene da pensare che ci sono individui che fatturano come, o più, di una grande compagnia farmaceutica e Kapila ci conferma che “il sospetto è che ce ne siano soprattutto dall’est Europa”. Ammette anche che “finora non c’è stata una focalizzazione su stranieri”. E poi c’è la situazione dei controlli che l’esperto di frodi fotografa così: prima c’erano due dipartimenti, uno per le frodi sulle tasse delle
entrate e uno per le frodi relative all’IVA. Sono stati accorpati e a farla da padrona è
l’IVA perché alimenta, nel Regno Unito, un’evasione di 5 miliardi l’anno. Non meraviglia perché si tratta di un fenomeno generalizzato: l’Unione Europea perde 50 miliardi l’anno per frodi relative all’IVA, una cifra pari a quanto spende in politica agricola.
In definitiva è Kapila stesso a citare Roman Abramovic, dicendo che “ci sono parecchie chiacchiere su di lui” ma che non si meraviglierebbe se dal punto di vista legale fosse  inattaccabile.  Aggiunge però che si tratta di un caso particolare perché è personaggio che definisce in inglese “too connected” per essere indagato, che si può tradurre in diversi modi ma significa sempre che ha buone conoscenze e relazioni. Sappiamo che è più ricco del duca di Westminster.
Di sicuro possiede una maestosa proprietà a Rogate nel West Sussex che si estende  per 10 kmq, con campi da polo tra i migliori d’Inghilterra, guardie del corpo scelte tra ex SAS, le teste di cuoio dei servizi segreti inglesi, e un edificio per sauna e piscina lungo 130 m. e ribattezzato dai vicini Roman Empire Building.  Ha comprato una casa storica nella Eaton Square di Londra, oltre a quella di Belgravia e, secondo  alcuni, altre case nella capitale. Ma Abramovic sembra proprio abbia evitato di prendere la residenza. In Gran Bretagna, precisamente a Weybridge, nel Surrey, ha base la sua Millhouse Capital, il gruppo societario per la gestione del capitale che, nato nel 2001, ha fatto parlare in particolare per l’accordo con la Gazprom, alla quale ha venduto oltre il 72% della Sibneft.  Anche Berezovisky  potrebbe non essere residente né nella casa a Londra né nella proprietà vicino Godalming in Surrey. Lo stesso sarà per il cantante russo Alsou, che ha un appartamento che affaccia su Lord’s Cricket Ground. O per il già citato Leonard Blavatnik, 47 anni,  che ha fatto soldi ancora una volta con il petrolio, ma anche con gas e metalli. Ha lasciato la Russia per New York nel 1978 ma poi, alla caduta del comunismo, è tornato in patria, in tempo per prendere parte alla spartizione della torta delle liberalizzazioni. Nel 2003 ha messo su la TNK-BP, terza compagnia di petrolio in Russia. Nel 2004 ha fatto l’acquisto più prestigioso, di cui dicevamo: la proprietà a Kensington Palace Gardens, nell’area delle ambasciate, tra cui quella russa, dove possono passare solo macchine autorizzate e
anche i pedoni sono strettamente controllati. Una zona lontana dal traffico londinese
come tanti incantevoli angoli  della città rappresentata dalla caotica Oxford Street ma anche dagli aristocratici cortili alle spalle di Fleet Street, ma non altrettanto frequentabile.
Abbiamo cercato di parlare con Abramovic, pur sapendo che ha sempre negato interviste e che in Russia un quotidiano offre una “taglia” per chi può esibire una sua foto recente. La parola d’ordine, dichiarata, è niente interviste, niente titoli nei media. Berezovisky non ha proprio risposto all’invito. Il suo avvocato  Andrew  Stephenson  ci ha ricordato la sua riservatezza e le sofferenze per le diffamazioni subite, ma – aggiungiamo – ben respinte al mittente, vista l’ultima causa vinta con il The Guardian, costretto, di recente, a pagare 20.000 pound, 35.000 dollari, e a porgere pubbliche scuse.
Non si tratta di diffamazioni, ma c’è qualcosa che Anya e Oleg, da alcuni mesi a Londra, rimproverano alla maggior parte degli inglesi: vedono in ogni russo un bevitore di vodga e intravedono alle sue spalle una famiglia di militari, per non parlare dell’allusione alla mafia. Insomma, luoghi comuni che – dicono – non sono sempre veri. Tanya da dieci anni lavora nella capitale britannica e fa presente di aver assistito alla nascita del primo giornale russo pubblicato all’ombra di Westminster. Veste con gusto occidentale raffinato e parla un ottimo inglese. Sembra propensa ad assolvere chi cade negli stereotipi e poi aggiunge che lei spesso ricorda ai suoi interlocutori che “l’Armata rossa ha salvato l’Europa da Napoleone e da Hitler”. Cerchiamo di usare la stessa clemenza da lei usata per gli stereotipi per quello che ci sembra un particolarissimo punto di vista.
A rivendicare un patrimonio di secoli è anche padre Vadim, della Chiesa ortodossa a Londra, ma la sua è una raccomandazione: “I russi devono salvaguardare la loro cultura e condividere con gli inglesi l’anima russa che hanno formato in centinaia di anni”.
E il pensiero corre a curiosità storiche in tema di relazioni Russia-Gran Bretagna. Pensiamo al 1555 quando Ivan il terribile concesse a un gruppo di inglesi un monopolio su pellame, legname e vestiti. Nasceva la MUSCOY Company. Ben più tardi
Lenin complotterà anche da Londra. E poi c’è il fatto che, dopo la presa di potere da
parte dei bolscevichi, aristocrazia e intellighenzia russa si ripararono nella capitale dell’Inghilterra. Immaginiamo conversazioni tra notabili, intramezzate da tartine al caviale e tazze di tè e scandite da un inglese perfetto e un inglese pronunciato con la forza della musicalità russa. Cadiamo in altri stereotipi, che possono darci, però, il senso dello spessore delle culture e delle occasioni di incontro nella storia.

Elezione Giorgio Napolitano

GIORGIO NAPOLITANO E’ IL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA:

IL PARLAMENTO LO HA ELETTO CON 543 VOTI, 38 IN PIU’ RISPETTO AL QUORUM

Giorgio Napolitano, 81 anni, è il nuovo presidente della Repubblica italiana, l’undicesimo. Il Parlamento lo ha eletto oggi alla quarta votazione. I voti a favore sono stati 543, ovvero 38 in più del quorum e pochi di più rispetto ai deputati e ai senatori dell’Unione. Un lungo applauso, giunto in particolare dagli scranni del centrosinistra, ma non solo, ha sottolineato, alle 13.00 circa, il raggiungimento dei 505 voti previsti dal quorum. Per Romano Prodi sarà il presidente garante di tutti gli italiani. Silvio Berlusconi fa gli auguri a Napolitano auspicando che svolga il ruolo di presidente con vera imparzialità, ma ha anche accusato la sinistra di aver occupato tutte le alte cariche istituzionali. Napolitano, nominato senatore a vita da Carlo Azeglio Ciampi nel settembre dello scorso anno, è stato presidente della Camera dal 1992 al 1994. Nel 1996 è divenuto ministro dell’Interno con il governo Prodi. Esponente DS, è stato dirigente di spicco del Partito Comunista Italiano, del quale ha sempre rappresentato l’ala riformista.
E ora vi riproponiamo l’intervista a Giorgio Napolitano che abbiamo trasmesso 5 giorni fa. Fausta Speranza gli aveva chiesto quale fosse il suo auspicio nell’attuale fase politica:

Mercoledì 10 maggio 2006