Il Papa e La Santa Sede

L’Europa può rinascere dalle radici cristiane: così il Papa all’udienza generale dedicata a San Colombano, l’abate irlandese che lottò contro la corruzione dei potenti.

Un Santo europeo: così Benedetto XVI definisce la figura di Colombano, l’abate irlandese cui ha dedicato la catechesi dell’udienza generale di oggi. Ricorda il suo rigore morale di fronte alla corruzione dei potenti e il contributo alle radici cristiane dell’Europa che nasceva. Il servizio di Fausta Speranza:

11/06/2008

Promuovere la verità nell’informazione rispettando la dignità della persona

E’ necessario “promuovere la verità nell’informazione” rispettando sempre “la dignità della persona”: è quanto ha detto stamani il Papa ai partecipanti al Congresso Internazionale delle Facoltà di Comunicazione nelle Università cattoliche, promosso dal Ponteficio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, e iniziato ieri a Roma presso la Pontificia Università Urbaniana. Il servizio di Fausta Speranza:

23/05/2008

A Napoli il primo Consiglio dei ministri del nuovo governo Berlusconi

Sicurezza e rifiuti sono solo due dei temi del primo Consiglio dei ministri che il premier Berlusconi ha voluto tenere a Napoli. In città per6 l’inizio del Consiglio dei ministri è stato accompagnato dall’avvio di alcune delle manifestazioni previste nell’arco della giornata: al passaggio di cortei di disoccupati sono stati rovesciati cassonetti della spazzatura. Delegazioni dei senza lavoro che con diversi cortei stanno manifestando a Napoli affermano che verranno ricevuti da un funzionario della presidenza del Consiglio. Dei primi prowedimenti nell’agenda del governo, ci parla nel servizio Fausta Speranza:

21/05/2008

Raid israeliano a nord di Gaza e disordini in Cisgiordania

Un miliziano di Hamas è rimasto ucciso e tre suoi compagni sono stati feriti la scorsa notte in un raid aereo israeliano condotto nella zona di Beit Lahya, a nord di Gaza. Nel villaggio cisgiordano di Qabatya, presso Jenin, invece, un palestinese di 21 anni è rimasto ferito in modo grave da un proiettile alla testa, durante disordini divampati mentre agenti dell’ANP cercavano di imporre l’ordine mediante l’istituzione di posti di blocco. Il servizio di Fausta Speranza:

6 maggio 2008

L’avvocato libera i bambini

Pubblicato da Famiglia cristiana n.° 16 – 20 aprile 2008

di Fausta Speranza da Israele

Tra i palestinesi cresce la violenza tra clan rivali e in ambito familiare. Lo denuncia Ray Dolphin, responsabile dell’OCHA, l’Ufficio dell’ONU per le questioni umanitarie nei Territori Occupati. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio di Gerusalemme. Tensione, disorientamento e anarchia non sono solo il frutto del sostanziale stallo nel processo di pace con gli israeliani ma anche del conflitto tra Fatah e Hamas. Dalla vittoria alle elezioni di Hamas a gennaio 2006 e lo scontro a giugno 2007 con gli esponenti del partito del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, la frattura non è ricomposta e si riflette sulla popolazione. Nell’ultimo incontro che hanno avuto nei giorni scorsi a Gerusalemme, il premier israeliano Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen hanno ribadito di voler arrivare a un accordo di pace entro la fine del 2008, in coincidenza con la fine della presidenza di George W. Bush. Ma restano aperte tutte le questioni e cresce la sfiducia nella popolazione. La situazione a Gaza è quella di una terra sotto assedio ma anche in Cisgiordania il peggioramento delle condizioni di vita è evidente, a causa della frammentazione del territorio provocata dalla costruzione del famoso muro, che Tel Aviv porta avanti senza che la comunità internazionale se ne accorga.
Tutto ciò ovviamente si va a sommare alla situazione già tragica di decenni di conflitto. Si tratta di un terreno arido e difficile dove qualcuno continua a coltivare semi di non violenza, di dignità, di positività. E’ quello che accade al centro di accoglienza per bambini orfani o sbandati vicino Tel Aviv. Si trova nel villaggio di Lidda-Lod, che pur distando solo mezz’ora da Tel Aviv è molto povero, con una caratteristica: ad essere in difficoltà economiche in quella zona sono palestinesi con passaporto israeliano ma anche ebrei. Il fondatore si chiama Zidan Mtanes, è un avvocato palestinese cattolico, battezzato Antonio. Cristiani sono la maggior parte delle 7 persone che lavorano come volontari nel centro che si chiama Arfad Association, ma il 98% dei bambini che sono stati accolti finora e di quelli
che attualmente lo frequentano sono palestinesi musulmani. Al momento sono 140 minori, ospitati a dormire e seguiti per un recupero del percorso scolastico perso nella maggior parte dei casi. Antonio spiega che nella stessa zona o nelle vicinanze ci sono strutture con lo stesso obiettivo di recupero sovvenzionate dal governo israeliano ma sono solo per bambini ebrei.  Da qui la spinta a crearne uno per tutti gli esclusi, di qualunque religione siano o qualunque passaporto abbiano.
In realtà il villaggio di cui parliamo, che nei secoli ha preso la denominazione di Lidda o quella di Lod, non è un villaggio qualunque: ospita il sepolcro di san Giorgio, il martire cristiano la cui memoria è celebrata anche nei riti siro e bizantino, dal IV secolo. La tradizione popolare lo raffigura come il cavaliere che affronta il drago, simbolo della fede intrepida che trionfa sulla forza del maligno. Il centro Arfad Association sorge all’ombra della chiesa dedicata a San Giorgio, chiesa affiancata, come spesso succede in Palestina, da una moschea. Abbiamo incontrato Antonio Zidan Mtanes nel cortile del suo centro, sorto tre anni fa.

Antonio, fino a che età i bambini posso stare?

Fino a 16 anni. Per il momento non ci è proprio possibile ospitarli o assicurare loro scolarità oltre. Certo viviamo il dramma di vederli andare via in un’età ancora molto difficile. E tanti di loro vengono da un’infanzia segnata da morte, carcere dei genitori o abbandono. E c’è poi il dramma del lavoro che non si trova. Cerchiamo di mantenere un filo forte con loro per tentare di non restituirli alla strada.

Ricevete aiuti?

Il governo israeliano non ci dà nessun sostegno di nessun tipo e neanche il Comune di appartenenza. Abbiamo avuto donazioni internazionali. Ringraziamo Dio per quello che riusciamo a fare: siamo tutti volontari.  Il
punto è che ogni giorno si sente maggiore tensione. Sempre di più. Non soltanto aumenta il livello di violenza a livello familiare e a livello di clan tra i palestinesi, ma tutto ciò è motivo di inasprimento da parte israeliana. Parlo da arabo con passaporto israeliano: con la lotta tra palestinesi si esaspera l’atteggiamento nei nostri confronti degli israeliani. Vengono ancora meno i nostri diritti. Stiamo perdendo quel 30% di diritti che avevamo in rapporto agli israeliani ebrei. Siamo persi in Israele.

Nel tuo caso sei arabo con passaporto israeliano e cattolico…

Per noi cristiani è peggio. Siamo tra l’incudine e il martello. Noi cristiani palestinesi paghiamo tutto il prezzo dalla parte israeliana e dalla parte palestinese. Se gli arabi sono il 20%, i cristiani sono l’1,5%. Devo dire che si dice spesso che aumentano i musulmani ma bisogna anche dire che anche gli ebrei aumentano. In questa zona ne sono arrivati tanti dall’Etiopia ma anche dalla Russia, richiamati dal governo israeliano. E io parlando con alcuni giunti dalla Russia ho scoperto che erano cristiani ortodossi ma molto poveri e si sono convertiti all’ebraismo per essere accolti e iutati dal governo israeliano.  Quindi, non è solo il numero di musulmani che aumenta. Aumenta, e anche in questo modo, il numero degli ebrei. La decisione del governo è giustificata da tanti discorsi di Olmert che  ha parlato più volte di problema demografico. Hanno fatto venire milioni di persone.

In quanti anni?

In dieci anni.

Dunque già prima di Olmert con il governo Sharon. E continua questo processo?

Sì, continua. Continuano a far venire gente. C’è anche un altro motivo ora. Il governo ha bisogno anche di persone per il servizio militare. Ci sono
insediamenti di 400 coloni che hanno 4000 soldati che li proteggono.

Dalla vittoria a gennaio 2006 di Hamas, e in particolare negli ultimi 9 mesi, dopo lo scontro sul campo tra esponenti di Hamas e sostenitori di Fatah, c’è una drammatica situazione di divisione e di tensione tra palestinesi.  Si sente nel quotidiano?

E’ un dolore per noi. Mi dispiace tantissimo, per il fatto che la Palestina è un luogo santo dove è nato e ha vissuto Gesù cristo. E ogni lotta e divisione che si gioca su questa terra aumenta la sofferenza.

Ha una speranza di negoziati?

Tutto sono talmente finti. Israele alla fin fine vuole occupare tutto il territorio arabo. I palestinesi voglio anche Gerusalemme capitale. Secondo me Gerusalemme è una questione cruciale.  Se la questione di Gerusalemme si risolve tutto si risolve. Però  a mio parere è talmente così difficile. Io una soluzione non ce l’ho.

Come avete vissuto l’incontro di Annapolis a novembre scorso?

Un incontro fatto in fabbrica, soltanto per far vedere al mondo che Bush faceva qualcosa. Un incontro finto. Ogni due anni fanno un incontro simile per calmare l’opinione pubblica internazionale e la gente qui. Io penso che la nostra speranza è solo un miracolo di Dio.

Che ne pensa di Hamas? Dello statuto fondativo del movimento?

Hamas è un’organizzazione violenta. Non mi piace la violenza e non mi piacciono i loro toni fanatici. Sono proprio fanatici. E già per questo non mi piace. Il loro obiettivo è di cancellare Israele e questo non è condivisibile. E poi c’è da dire che se potessero non sarebbero certo teneri con i cristiani.  E’ un’organizzazione fanatica e violenta e io sono contro. Certo quando parlo di violenza devo anche dirti che io condanno anche tante cose che il
governo israeliano fa. Ognuno che decide di ammazzare senza motivo lascia senza fiato.

Si parla sempre della corruzione di Fatah. E’ stato uno dei motivi principali per cui si è spostato il voto?

La corruzione dispiaceva ma non è stato questo il motivo principale. La gente disperata appoggia il forte. Io non lo farei e non sono d’accordo ma quando tanti hanno visto che Fatah è debole, hanno appoggiato Hamas che sembra più forte. Il motivo è uno solo: non vogliono essere ammazzati e pensano di essere più protetti da uno forte. Non hanno visto altra scelta per vivere, anzi per sopravvivere perché qui non si vive, al massimo si sopravvive.  Per esempio, la gente che vive a Gerusalemme e che non avendo passaporto israeliano vota nelle elezioni palestinesi, ha votato al 98% e rivolterebbe ora Hamas. Sanno che è un’organizzazione violenta ma dicono di essere esasperati e per questo di voler votare chi sembra forte. E’ un momento bruttissimo per i palestinesi:

L’isolamento di Gaza e la frantumazione del territorio in Cisgiordania con sempre nuovi insediamenti di coloni ebrei e conseguente blocco delle comunicazioni: è un momento particolarmente negativo e drammatico per i palestinesi. Ma se ne parla abbastanza secondo lei anche in Europa?

Da quello che so io no. Si fa solo il conto dei morti se sono tanti.

Intanto, in questi giorni, le autorità israeliane hanno deciso di distribuire di nuovo alla popolazione, a partire dall’anno prossimo, le maschere antigas, che erano state ritirate negli scorsi anni, in previsione di un conflitto nel quale le città del paese potrebbero essere colpite da missili armati con testate chimiche.

Lama Hourani

I fondamentalismi uccidono la democrazia

di Fausta Speranza

Dopo la visita del Segretario di Stato americano Condoleeza Rice in Medio Oriente e poi l’incontro, tra il premier israeliano Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen, al di là delle intenzioni ribadite in questi giorni di un accordo entro il 2008, si confermano lo stallo dei negoziati e l’esasperazione della situazione sul terreno. A Gaza è assedio e in Cisgiordania  il territorio è sempre più frantumato a causa di insediamenti e check point israeliani. Non si intravedono novità nella strategia di Israele, mentre tra i palestinesi, dopo l’esperienza di governo di unità nazionale, è ormai piena frattura tra Hamas, che controlla Gaza, e Fatah che ha il suo quartier generale a Ramallah.
Lama Hourani è una palestinese attivista per i diritti umani e in particolare per i diritti delle donne. Non senza difficoltà, da poco ha lasciato  Gaza, dove viveva da anni. Si è distaccata da familiari e amici per fuggire da Hamas. L’abbiamo incontrata a Gerusalemme e ci ha motivato così la sua scelta:

Sono scappata non per paura degli israeliani ma per paura del fondamentalismo di Hamas. Ho portato avanti diverse battaglie per la condizione della donna e mai avrei portato il velo, perché sono laica. Ho avuto paura per me e per mio figlio, perché il fondamentalismo combatte proprio le persone come me. Il fondamentalismo uccide proprio quello per cui io combatto, quello in cui io credo: diritti e democrazia. Io credo che un po’ tutte le religioni, in fondo, non possano andare d’accordo con la democrazia, perché si fondano su una verità fuori discussione. Ma la discriminante è se i leader vogliano o non vogliano imporre a tutti la verità politica che pensano di dedurre dalle verità di fede. L’islam, poi, viene dopo giudaismo e cristianesimo e qualche suo esponente è convinto di aver elaborato il meglio in assoluto. In ogni caso, io penso che siamo, in generale nel mondo, in una fase di esasperazione, di fondamentalismo. Le donne devono studiare la legge islamica perché ci sono leggi in diversi paesi basate sulla Sharia che a sua volta ha la pretesa di basarsi sul Corano. Le donne devono studiare molto e conoscere bene la Sharia e il Corano, per capire fino a che punto il Corano viene strumentalizzato per mantenere in vita un sistema politico, che va contro i diritti basilari delle persone.

Che ne pensi della divisione tra Hamas e Fatah?

Non è una lotta di potere, ma è una frattura che nasce da differenti visioni politiche. L’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina,  e il partito di Fatah vogliono uno stato nazionale palestinese, sostanzialmente basato sui confini che c’erano prima della guerra del 1967. Gli islamici di Hamas, invece, non vogliono uno stato nazionale palestinese ma vogliono uno stato islamico. Che potrebbe essere Gaza o tutta la Palestina o tutto il mondo. La loro non è una battaglia nazionalista: questa è la grande questione di fondo.

Secondo te, perché Fatah ha perso alle elezioni di gennaio 2006?

Secondo me, la prima ragione sta nel collasso del processo di pace. Il popolo palestinese ha capito che Israele non è pronto ad accettare uno stato palestinese e a rispettare le risoluzioni o lo proposte della comunità internazionale. C’è stato poi anche il problema della corruzione all’interno di Fatah, che aveva deluso, ma non è tra le principali motivazioni. Anche l’Autorità Nazionale Palestinese non è riuscita, agli occhi della gente, a conciliare i negoziati per la pace con la resistenza per costruire lo stato palestinese. Essere impegnati in negoziati non può significare fermare ogni manifestazione di resistenza. Resistenza non significa per forza rockets, razzi. Ci sono tante modalità di resistenza che secondo la legge internazionale sono pienamente legittime. Il punto è: come e quando arrivare ad uno stato palestinese. Questo è uno dei principali punti caldi con Hamas. I rockets non aiutano. Uccidono e hanno come reazione da parte di Israele l’uccisione di palestinesi e la confisca di terra. Tutto ciò distrugge, non aiuta la soluzione di due stati. Comunque, l’unico a beneficiare della divisione tra palestinesi è Israele.

Anche tu, come tanti, affermi che Hamas è utile per Israele. Tu eri a Gaza quando Hamas ha preso il completo potere: Israele ha aiutato in qualche modo Hamas?

Indirettamente sì. Almeno indirettamente perché non ho prove per dire altro. Hanno cominciato prima delle elezioni e ti spiego come: Abu Mazen è sempre stato contro i lanci di razzi contro la città israeliana di Sderot ed era stato eletto nelle precedenti elezioni con il 63% dei voti. Quello era il momento di trattare seriamente con Abu Mazen ma Israele non si è impegnato affatto. Israele e gli Stati Uniti non hanno affatto approfittato del momento, anzi. Israele ha continuato a costruire il muro, non ha negoziato con Abu Mazen. Sembra evidente che Israele vuole la Terra Santa e basta, senza i palestinesi. Porta avanti una sola politica: rendere i palestinesi tanto disperati da lasciare la propria terra, come praticamente è successo di recente a Hebron.  Per quanto riguarda Hamas, il problema è che non considerano la realtà sul terreno, sono presi solo dall’ideologia. Il problema di Hamas non è solo che non riconosce Israele. Se ci pensi bene, l’Autorità Nazionale Palestinese, nata dopo gli accordi di Oslo, riconosce Israele ma già il Partito di Fatah dichiara di poter riconoscere Israele solo dentro i confini precedenti il 1967. Il fatto che Hamas non riconosce Israele non è il vero problema. Piuttosto, il dramma è che non riconoscono l’evidenza dei fatti e non concepiscono una giusta strategia. Il punto importante è proprio quello di elaborare una strategia che porti alla soluzione dei due stati. L’operato di Hamas distrugge questa possibilità.

Tu non sei un politico ma fai parte del mondo dell’associazionismo palestinese…Ritieni che ci siano contatti in corso tra esponenti di Hamas e di Fatah per cercare di ritrovare un’unità?

Non credo che i leader stiano comprendendo che la priorità è ritrovare l’unità. Il problema è mettere insieme due politiche completamente diverse. I leader non stanno lavorando per questo. Ma dobbiamo ricordarci che non sono gli unici attori della scena. Protagonisti in Medio Oriente sono Israele, Stati Uniti, Siria, Iran, gli Hezbollah del Libano, l’Arabia Saudita, l’Egitto. Se parliamo di divisione, dobbiamo parlare di divisione del Medio Oriente e della comunità internazionale. Intanto, il popolo palestinese continua a sperare che un giorno i leader supereranno le differenze e troveranno un compromesso, ricreando un fronte comune, che sia sotto la sigla dell’OLP o di altro. Io preferirei l’OLP perché ha già una legittimità internazionale,  ma qualunque altra sigla andrebbe bene. Il punto è che tutta la partita non è solo in mano ai palestinesi. 

Qualcuno riconoscendo come legittimo il risultato delle libere elezioni, afferma che bisogna trattare con Hamas e non rifiutarlo come organizzazione terroristica. Secondo te, è possibile? Ci sono rischi?

Certo che ci sono rischi. Ma il punto è: perché non è stato detto e fatto subito dopo le elezioni? C’è stato un governo di unità nazionale e invece di aiutarlo hanno messo l’embargo. Trattare ora significherebbe  aumentare la divisione tra palestinesi. Tutti già si chiedono chi rappresenti i palestinesi. La comunità internazionale ora dovrebbe lavorare per rimuovere gli ostacoli che stanno di fronte ad Abu Mazen sulla via del negoziato e prima ancora sulla via del ritrovamento dell’unità. Se Abu Mazen dialoga con Hamas, Unione Europea e Stati Uniti tagliano gli aiuti economici, che significa il deterioramento della già difficile situazione in Cisgiordania. La comunità internazionale dovrebbe aiutare Abu Mazen a dialogare con Hamas, piuttosto che ostacolarlo, e nello stesso tempo dovrebbe anche fare seria pressione su Israele per il rispetto delle risoluzioni. Non credo che si voglia seriamente tutto questo.

Palestinesi in trappola

 Gaza vs Cisgiordania

di Fausta Speranza

Intervista a Jamal Zakhouta, consigliere politico del primo ministro palestinese Salam Fayyad, incontrato nel suo studio a Ramallah

Nove mesi dopo lo scontro sul campo, e due anni dopo la vittoria alle elezioni di Hamas, quali sono i contatti politici tra leader di Fatah a Ramallah e uomini di Hamas a Gaza?

Anche i politici di Ramallah che lavorano per l’unità e per il futuro del popolo palestinese sono sotto minaccia se si recano a Gaza, non soltanto per gli israeliani ma per i fratelli che controllano Gaza con la loro ideologia. Io ho fatto parte di delegazioni per incontri a Gaza, prima dell’assedio, ma in questi giorni a Gaza nessuno può uscire e nessuno può entrare.

Come è maturata, secondo lei, la frattura tra i palestinesi?

I palestinesi continuano una lotta disperata dopo 40 anni di occupazione per costruire il loro Stato e per vivere in pace vicino ad Israele. Durante l’occupazione sono stati arrestati mezzo milione di palestinesi: consideri che, compreso Gaza e Cisgiordania, sono 3 milioni e mezzo. Praticamente non ci sono adulti palestinesi che non abbiano avuto un’esperienza in carcere. Quando c’è stata l’opportunità di Oslo, i combattenti palestinesi hanno fermato le ostilità. Si lottava contro l’occupazione non per odio ma per il dovere di lottare e di fronte a una finestra di opportunità di pace noi ci impegniamo fortemente. Io sono stato un testimone di quella opportunità non soltanto come attivista politico ma come negoziatore e posso dire che, dopo 14 anni di ricerca della pace, il governo israeliano siede al tavolo dei negoziati come fosse a un match. Chi vincerà? Ai match ci sono vinti e vincitori. Io lo ripeto sempre: questo processo di pace non può concludersi con un vincitore e un vinto. O vinciamo entrambi, superando occupazione, depressione e paura, o entrambi perderemo.

Negli ultimi 7 o 8 anni, in particolare, l’establishment israeliano ha preso decisioni unilaterali, dettando le regole del gioco. Non cercano un mutuo accordo basato sulle condizioni del negoziato che prevedono la fine dell’occupazione, iniziata nel 1967. Questa è stata la ragione principale già del fallimento di Camp David, nel 1978. Il punto è che noi palestinesi dobbiamo capire come fronteggiare questa strategia senza cadere in trappola, in un vortice di violenza. Noi abbiamo il diritto di resistere all’occupazione, ma come possiamo far sì che la nostra popolazione sia in grado di affrontare questa strategia israeliana? Come possiamo rendere la resistenza efficace e nello stesso tempo accettabile per la comunità internazionale? Tutto questo ha segnato l’inizio della divisione tra palestinesi. Alcuni di noi hanno preso il fallimento di Camp David come una svolta e hanno cominciato a sviluppare la loro politica non soltanto contro Israele ma anche contro i palestinesi che continuavano a cercare la pace. Guardando a tempi più recenti, considero gli ultimi 7 anni una trappola per tutti i palestinesi pronti a sacrificare la loro vita. Il nodo è questo: a causa della sproporzione nel rapporto di forza, noi non possiamo raggiungere i nostri obiettivi. Ma noi possiamo ottenere qualcosa soltanto se lavoriamo insieme, cercando nuovi sostenitori non solo nella comunità internazionale ma anche in Israele.

Dunque è vitale ricucire la frattura tra palestinesi e ritrovare l’unità?

E’ fondamentale l’unità nazionale ma basata su quali presupposti? Non voglio unità con qualcuno che non accetta due stati, perché questa posizione non porta a niente di buono. Questa radice della divisione si manifestava già ai tempi della prima intifada, che io ho vissuto. Hamas va avanti facendo a Gaza quello che vuole. Fatah ha fatto degli errori ma Hamas ha proprio la strategia sbagliata. Quelli di Hamas smantellano il sistema giudiziario e si basano su criteri non democratici per il parlamento. Qualcuno in Hamas deve essere pragmatico e capire che uno stato islamico in Gaza è solo sotto assedio e va contro una soluzione complessiva palestinese.

Le condizioni a Gaza sono quelle di una terra sotto assedio, dove ogni giorno aumenta la disoccupazione e diventa più tragica la situazione negli ospedali. E’ stata definita un carcere a cielo aperto. In Cisgiordania nuovi insediamenti frammentano il territorio ed è sempre più difficile la mobilità.
Perché la popolazione in favore di Hamas aumenta?

La popolazione non mangia gli ideali. La vita di ogni giorno in Cisgiordania va sempre peggio. Le persone normali voglio andare a lavorare in pace. Vogliono migliorare la loro vita e non solo avere giustizia. Le persone disperate si chiedono: da che parte stare? Con Stati Uniti e Unione Europea che non fanno nulla? Oppure con l’Iran? Il risultato è stato un cambiamento di voto, un cambiamento di mappa politica palestinese. Certamente noi di Fatah dobbiamo rispettare i risultati delle elezioni ma non abbandoniamo i nostri obiettivi: anche con la vittoria di Hamas dobbiamo continuare a lavorare per due Stati. Tutti quelli che non cercano la soluzione di due Stati vogliono la vittoria di Israele.

Quale vittoria vuole Israele?

Israele continuando a costruire insediamenti in Cisgiordania non lavora per due Stati. Israele ha lasciato Gaza a Hamas, perché gli israeliani si sentono molto sicuri di fronte alla debolezza dei palestinesi, anche se i palestinesi non possono accettare meno di un ritorno ai confini che c’erano prima dell’invasione del 1967. Con la scusa di non negoziare con Hamas perché non li riconoscono, aiutano Hamas. Creare situazioni differenti a Gaza e in Cigiordania è un’opportunità d’oro per Israele per scongiurare il ritorno ai confini del 1967. Che si può fare con questa che io chiamo la “black map”? Il mondo e Israele vogliono punire Hamas ma la strategia di Israele è di distruggere lo spirito dei palestinesi, di spezzare la loro forza di andare avanti. Non è di distruggere Hamas. La strategia piuttosto è di usare Hamas. Hamas e Israele hanno interessi in comune.

Lei crede che Israele abbia supportato o stia supportando concretamente Hamas?

Se parliamo di un supporto diretto di armi, la risposta è no. Ma Israele lavora sistematicamente, con l’assedio o con altre misure, per radicalizzare la posizione dei palestinesi nella Striscia di Gaza, per esasperarli con la povertà, per dividere e indebolire tutti i palestinesi. Quello che fanno è chiudere gli occhi sulle armi che arrivano e che servono per armare fratelli contro fratelli. Molte delle armi di cui dispone Hamas anche in Cisgiordania, sono armi israeliane. Penso agli M16. Io non dico che Israele consegni queste armi ai palestinesi, ma se queste armi creano guerra civile, creano pubblicità negativa per i palestinesi nel mondo, perché non chiudere un occhio? La causa palestinese era più forte prima della seconda intifada e prima di giugno scorso. Noi siamo responsabili per questo ma c’è da chiedere perché Israele non blocca l’importazione delle armi da Rafah? Sono armi per uccidersi tra fratelli…

Si può fare la pace senza negoziare con Hamas?

Israele non ha bisogno di Hamas per fare la pace: se volesse potrebbe farla con il presidente Abu Mazen. Io condanno molto Hamas ma non si può dare a Hamas tutta la colpa del fallimento del negoziato. Il fondamentalismo islamico di Hamas si distingue da altre espressioni in altri Paesi perché si nutre di nazionalismo, ma Hamas sventola solo la bandiera del suo movimento.

Che dire della tappa di Annapolis a novembre scorso?

L’incontro di Annapolis è stato organizzato non dai palestinesi ma da Stati uniti e Unione Europea. Si tratta di documenti americani. E’ evidente che Israele non è che non rispetta i palestinesi: non rispetta la comunità internazionale. La comunità internazionale deve far rispettare le sue risoluzioni. Tanto tempo è stato perso e diventa sempre più difficile la soluzione di dueStati, a causa degli insediamenti. Da parte palestinese sono stati fatti errori, ma la strategia non è sbagliata perché noi vogliamo rispettare i patti. Io chiedo una forza di peacekeeping internazionale per difendere la road map internazionale. Quando la leadership palestinese ha accettato di recarsi ad Annapolis voleva una cosa: sedersi allo stesso tavolo degli israeliani e firmare un trattato sotto l’ala internazionale. Questo è l’unico modo per una soluzione palestinese. Noi ribadiamo il fallimento dell’unilateralismo e il fallimento di ogni soluzione militare.
La divisione tra Gaza e Cisgiordania incoraggia Israele a non mantenere nessuna promessa presa ad Annapolis, anche se la comunità internazionale appoggia Abu Mazen.

Qual è il più grave di questi impegni mancati?

Il primo impegno in base ai patti dei Trattati era di bloccare gli insediamenti dappertutto, inclusa Gerusalemme. E invece Israele continua a inviare avamposti e a costruire insediamenti. Ritornare alle linee di confine di settembre 2000 sarebbe il minimo grazie al quale le autorità palestinesi potrebbero riottenere la fiducia della popolazione, per poter lavorare a riforme economiche e politiche, per poter creare le condizioni per una vita possibile. In particolare negli ultimi due anni tutti i palestinesi che possono se ne vanno, soprattutto da Gaza. Qualunque presidente o premier palestinese, Abu Mazen o Fayyad, o qualunque buona politica si facesse, senza il coinvolgimento della comunità internazionale non si vedrebbero buoni esiti. Non c’è granché da sedersi al tavolo. Gli israeliani dichiarano ai media che dal momento che le autorità palestinesi non sono in grado di controllare la violenza, Israele non può rispettare la road map. In realtà è la politica degli insediamenti che crea insicurezza e alimenta la violenza. Israele continua con questa politica e usa questa insicurezza. E’ una politica che non soddisfa il bisogno di sicurezza degli israeliani. Ci vorrebbe l’invio di una forza internazionale per un periodo per assicurare la sicurezza sul territorio. Questo sarebbe l’unico modo per garantire entrambi. Quattro settimane fa ho incontrato in Gaza il principale advisor di Hamas, Mahamed Yussef, e lui ha detto solo due parole: resistenza e rockets, cioè razzi contro Israele. Tre settimane dopo la stessa persona ha annunciato di fermare i rockets perché sono una scusa per Israele. Si discute se Hamas prende potere e se Fatah è debole, ma non è questo il punto: il punto è essere uniti. Essere veramente uniti e non solo cercare compromessi. Il mondo chiede a Hamas di rispettare le richieste di Israele ma nessuno sta chiedendo il rispetto dei diritti umani dei palestinesi. Palestinesi muoiono sotto interrogatorio in Cisgiordania o soffrono a Gaza le angherie dei poliziotti, ma se una persona è toccata a Sderot si fa la rivoluzione. E’ tempo di preoccuparsi della sicurezza di ogni palestinese, da proteggere non solo dagli israeliani ma anche da altri palestinesi, che siano spinti ufficialmente o siano cani sciolti. Bisogna intervenire sul campo.

Secondo lei, si fanno breccia tra la popolazione israeliana perplessità o dubbi sulla politica dei loro leader che lei illustra?

Ci sono spazi di dissenso ma sono sempre meno. La maggior parte degli israeliani vorrebbe vivere in pace, ma ci sono dei ma. C’è una contraddizione ad esempio in alcune dichiarazioni della popolazione: mentre ogni sondaggio dice che il 60-75% della popolazione è a favore del processo di pace basato sulla soluzione di sue stati, la stessa percentuale giustifica e sostiene la soluzione militare. In questa fase in particolare, c’è un modo di pensare molto pericoloso: la gente non vuole sapere cosa accade oltre il muro, è cieca e non si interessa. Questo rappresenta un pericolo non solo per noi palestinesi ma anche per gli israeliani.

Che ne dice del ruolo che giocano i Paesi arabi per una soluzione complessiva palestinese?

Qualcuno offre soldi e sostegno ma sono divisi e deboli. La Siria supporta Hamas.

A 4 anni dalla morte di Yasser Arafat, come lo ricorda?

Ho motivi di critiche, ma ricordo il più grande successo di Arafat: è riuscito a mantenere uniti i palestinesi ed è riuscito a portare avanti la questione palestinese evitando interferenze di altri paesi. Ha lasciato fuori Iran e Siria.

Commenti di alcuni lettori

inviato da Gianni il 06 aprile 2008 alle 12:27

Complimenti per l’intervista. Grazie per farci capire, in questi tempi pieni di facili slogan, la complessità della situazione palestinese in modo chiaro, equilibrato ed essenziale.

inviato da Roberta il 04 aprile 2008 alle 12:34

“O vinciamo entrambi, superando occupazione, depressione e paura, o entrambi perderemo”: mi sembra davvero questa la premessa da cui partire per ricucire la frattura palestinese. Un’intervista-testimonianza estremamente lucida e interessante. Complimenti!

inviato da Roberto il 01 aprile 2008 alle 21:17

Un’ottima intervista. Su queste premesse il conflitto israelo-palestinese è destinato ancora a durare moltissimi anni, sicuramente ancora decenni.

inviato da Luigi il 01 aprile 2008 alle 14:19

Faccio i complimenti al giornale e alla giornalista per la chiarezza dell’articolo su un tema molto difficile. E’ raro trovare su questo argomento equilibrio e competenza.

inviato da Agatoni Luca il 01 aprile 2008 alle 16:43

Mi unisco al giudizio di Luigi: l’intervista tocca con ottima lucidità tutti i punti principali dell’attuale situazione. Israele non vuole la pace e usa scuse ridicole per legittimare sul campo la politica del ‘fatto compiuto’. Molto razionale anche il giudizio su Hamas, che ha gravi responsabilità, ma non la totale colpa del fallimento della politica palestinese degli ultimi anni. Condivido anche il fatto che i palestinesi non debbano MAI abbandonare la lotta e la resistenza, ma trovo al contempo necessario che si torni ad avere un fronte comune e unito. Arafat ha commesso errori imperdonabili – in particolare chiedendo al suo popolo immani sacrifici senza poi aver ottenuto niente di concreto – ma, come si afferma alla fine dell’articolo, ha cmq avuto il merito di tenere i palestinesi uniti e di fare in modo che i vicini arabi non si intromettessero più del dovuto in una questione che rimane – e deve rimanere – una questione nazionale del popolo palestinese. E di nessun altro. Ancora complimenti per il vostro lavoro, tanto il cartaceo quanto questo sito!

8 Marzo 2008

 In occasione della Giornata internazionale della donna ho realizzato questa trasmissione speciale in diretta, sempre con il collega Fabio Colagrande, proponendo collegamenti live e interviste che avevo precedentemente realizzato a Bruxelles. Sono tutte fatte a donne, parlamentari europee che raccontano tante situazioni di donne nel mondo.

radio 105 dell’8/3/2008

Un altro Iran è possibile

2 Gennaio 2008

 di Fausta Speranza

Conversazione con Maryam Rajavi, presidente del Consiglio nazionale della resistenza iraniana. Le differenze fra Iran e Iraq. C’è un’alternativa alla politica delle concessioni e all’intervento militare: la svolta democratica. Scenari di un Iran post-mullah.

Aziende italiane e olandesi sono per il regime iraniano “persone molto amiche per il trasferimento di materiali proibiti in Iran”. E’ una delle denunce provenienti dalla resistenza al regime dei mullah, presentate l’8 novembre 2007 ai parlamentari britannici negli uffici di Westminster a Londra. L’iniziativa è del Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Cnri), e si basa su un presunto documento riservato del regime di Ahmadi-Nejad che sarebbe stato segretamente portato all’estero da una fonte della resistenza stessa. A sostenerlo è il responsabile per le relazioni esterne del Cnri a Londra, Hossein Habedini, che fa nomi e cognomi: le italiane Troy e Tesco, le olandesi Royal Boskalis e Royal Haskonig, la cinese Zmpc. L’anello di congiunzione in Iran sarebbe la Khatam ol-Anbia Construction Garrison, braccio economico del ministero della Difesa.

La principale richiesta del Cnri all’Europa è di adottare le stesse sanzioni decise dagli Stati Uniti il 25 ottobre scorso e cancellare dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche i Mujahidin del popolo iraniano (Pmoi), nucleo di resistenza che opera sul campo in Iran. Gli Stati Uniti hanno sanzionato il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc) e la sua unità extraterritoriale, conosciuta come Qods Force; nove altre entità affiliate all’Irgc, con i loro capi; tre importanti banche iraniane.
Il Cnri è stato creato nel 1981 e ha sede a Parigi e Londra. Il suo fondatore è Massud Rajavi. Per motivi di sicurezza non è dato sapere dove si trovi. La presidente è una donna, Maryam Rajavi, che Limes ha intervistato.

LIMES E’ favorevole a un attacco militare americano all’Iran?

RAJAVI La soluzione alla crisi iraniana non è né la politica delle concessioni al regime dei mullah, sostenuta negli ultimi due decenni dall’Occidente in generale e dall’Unione Europea in particolare, né la guerra e l’intervento militare straniero. Come ho detto anche al Parlamento europeo e al Consiglio d’Europa, esiste una terza opzione, l’unica percorribile: una svolta democratica nel paese grazie al sostegno al popolo iraniano e alla resistenza organizzata. La politica delle concessioni, basata su interessi economici di vita breve, su contratti lucrativi con i mullah, ha avuto dirette e terribili conseguenze: ha esasperato l’oppressione in Iran, ha spinto Teheran a cercare di dotarsi di armi nucleari, all’esportazione del fondamentalismo nel Medio Oriente e nel mondo, al punto di coinvolgere l’Europa stessa.

LIMES E’ possibile che la guerra rafforzi il potere di Ahmadi-Nejad?

RAJAVI Questa idea è frutto della propaganda del regime, interessato alla continuazione della politica delle concessioni. Un regime estremamente isolato e disprezzato all’interno dell’Iran. Solo l’estate scorsa abbiamo assistito a più di tremila manifestazioni o atti di protesta antigovernativi su tutto il territorio. Malgrado brutali repressioni e ripetuti arresti, studenti universitari hanno proseguito per parecchie settimane le loro dimostrazioni. Il 25 e il 26 giugno, nelle proteste per i razionamenti del gas, a Teheran e in molte altre città ci sono state rivolte di giovani e di gente comune. Secondo i funzionari del regime, un terzo degli impianti di gas del paese è stato danneggiato dalla resistenza popolare. La situazione è così esplosiva che negli ultimi mesi diversi giovani sono stati impiccati alle gru nelle piazze principali per spargere il terrore. In questa situazione il tallone di Achille del regime è il popolo iraniano e il suo movimento organizzato di resistenza: su questo bisogna contare. Far credere che rifiutare la politica delle concessioni sia uguale ad essere d’accordo con la guerra degli stranieri contro l’Iran è parte della propaganda dei mullah.

LIMES Che cosa pensa succederà in Iran in caso di attacco americano?

RAJAVI Non possiamo ragionare su situazioni ipotetiche. E’ cruciale evitare che si arrivi a quel punto. La realtà è che nel 2005 Khamenei ha nominato Ahmadi-Nejad presidente del regime islamico e che tale regime ha dichiarato guerra al popolo iraniano e alla comunità internazionale. Da allora, i pasdaran, braccio operativo dei mullah, hanno preso il controllo degli organi chiave del regime. Un controllo che diventa sempre più serrato. Oltre al presidente stesso e al primo vicepresidente, vengono dal bacino dei Guardiani della rivoluzione più di venti membri del gabinetto di Ahmadi-Nejad, dieci governatori di provincia, il capo e sei membri del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, i capi della radio e della televisione di Stato, il 70% dei viceministri, 25mila funzionari di medio livello del governo e 80 parlamentari. Allo stesso tempo, i Guardiani della rivoluzione hanno preso il controllo dell’economia iraniana. Controllano petrolio e gas, ma anche il 30% delle esportazioni non energetiche e il 57% delle importazioni. Fa tutto parte del consolidamento del fascismo religioso che governa il nostro paese da due anni. Di qui anche il tentativo di ottenere armi nucleari, oltre a quello di controllare l’Iraq. Il punto è quale reazione può essere appropriata da parte dell’Occidente. Finora la risposta è stata inadeguata e il tempo corre in fretta.

LIMES L’Iran può diventare come l’Iraq?

RAJAVI L’Iran è molto differente dall’Iraq. E’ vero che il nostro paese sta sviluppando il nucleare: secondo le nostre informazioni fra due anni disporrà di armi nucleari. E’ inconfutabile che il regime si stia intromettendo in Iraq: sappiamo per certo che in un’area della provincia irachena di Maysan uomini del regime iraniano addestrano gli iracheni all’uso di armi e materiale esplosivo. C’è una zona nei pressi di Teheran dove ci sono tre aziende che producono mine da strada per l’Iraq. Ben 32mila iracheni sono sulla busta paga del regime iraniano.
Ma in Iran -a differenza dell’Iraq di Saddam- c’è un’alternativa al regime ben visibile: è il Consiglio nazionale della resistenza iraniana. Una coalizione di forze democratiche che si oppongono al regime, con uno specifico programma per il futuro del paese. Il Cnri agisce come un Parlamento in esilio e include un vasto spettro di forze collettive e individuali, inclusi esponenti di varie minoranze etniche e religiose. E’ pronto, dopo la caduta dei mullah, a guidare il paese con metodi democratici, restando in carica sei mesi per poi lasciare il campo a un governo eletto dal popolo.
L’organizzazione dei Mujahidin del popolo gode di largo consenso all’interno dell’Iran. La stragrande maggioranza delle 120mila persone perseguitate dal regime perché sostenevano la causa dei diritti umani e della democrazia negli ultimi 25 anni appartiene a questa organizzazione. In occasione del più grande raduno della resistenza, svoltosi a Parigi il 30 giugno scorso, abbiamo contato più di 50mila partecipanti.
Dunque, ci sono tutti gli elementi per arrivare ad una svolta democratica. Ma l’Occidente deve adottare una politica ferma e decisa nei confronti dell’Iran. Deve imporre immediate e estese sanzioni su armi, tecnologie, petrolio, commercio, diplomazia. Deve rimuovere i Mujahidin del popolo dalla lista delle organizzazioni terroristiche, come hanno fatto il 25 ottobre scorso gli Stati Uniti e – torno a ripetere – assicurare sostegno morale e logistico alla resistenza iraniana.
I paesi europei, compresa l’Italia, non hanno ancora abbandonato la politica delle concessioni. Continuarla significa preparare il terreno ad una catastrofe. E’ tempo di svegliarsi e guardare in faccia questa realtà.

LIMES In caso di conflitto, l’Iran potrebbe dividersi su basi etniche?

RAJAVI In Iran la linea di demarcazione non è basata sulle divisioni etniche. Il punto è l’accettazione o meno del regime dei mullah. La stragrande maggioranza degli iraniani concorda sul fatto che la legge clericale e il fascismo religioso devono essere abbattuti e sostituiti con la democrazia e con uno Stato di diritto. Questo è esattamente ciò che il Cnri persegue. Ricordiamo che nel Consiglio sono rappresentate varie minoranze, inclusi azeri, curdi, arabi e altri.

LIMES Come immagina il suo paese dopo la caduta dei mullah?

RAJAVI Innanzitutto con un governo provvisorio che getti le basi per libere elezioni e un’assemblea costituente in sei mesi. Il voto popolare sarà l’unico arbitro. Io vedo un nuovo Iran, una società libera e avanzata, in cui saranno aboliti la pena di morte, i tribunali reazionari, le pene medievali, in cui ci sarà un governo basato sulla separazione tra religione e Stato. Finirà l’èra delle esecuzioni e delle torture, della discriminazione contro diverse fedi, finirà l’imposizione del velo e l’intrusione dello Stato nella vita privata dei cittadini; finirà l’èra dell’asservimento e dell’oppressione delle donne. Le donne devono ottenere l’uguaglianza rispetto agli uomini in tutti gli ambiti della legge. Posso dire che nel Consiglio della resistenza oltre la metà siamo donne. Sarà un paese in cui i giovani non saranno più umiliati nelle loro energie e creatività ma saranno arbitri del loro destino. Con tanto talento e tante potenzialità, il popolo iraniano non soffrirà più di povertà, fame e privazioni.