Wifi più che cibo e coperte

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PAURA E SPERANZA: IN

UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

Siamo al punto di svolta dove i profughi sanno che se salgono su uno degli autobus che vedono in lontananza saranno in Europa davvero. di Fausta Speranza

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Il bambino siriano in cerca di una connessione internet per poter comunicare con i parenti e amici, anche loro profughi (foto F. Speranza).

Un bambino un po’ paffuto vede il microfono e ci corre incontro strillando: “www”. Il papà lo richiama e ci spiega: “Sono giorni – dice – che non facciamo che parlare della necessità di connessione digitale per tornare in contatto con familiari rimasti indietro o in viaggio su un’altra rotta; abbiamo bisogno come il pane di google map per orientarci”. Per questo il bambino, appena ha visto qualcuno diverso entrare nel campo, ha chiesto la world wide web. Il papa’ lo sgrida e lui ne resta contrariato. Ma poi ci sorride e, non soddisfatto, chiede: “Internet, Internet”. Raccontiamo l’episodio a esponenti della Croce Rossa che ammettono:  è la prima crisi in cui ci sentiamo chiedere wifi più che cibo e coperte. La cosa all’inizio ci ha sorpreso  ma poi abbiamo capito e abbiamo impiegato dei fondi per pagare le aziende perchè offrissero connessione gratuita nelle zone interessate.

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Mohamed Abdel Natal dell’UNHCR (foto F. Speranza).
Mohamed Abdel Natal dell’UNHCR, organismo Onu per i rifugiati, ci spiega che Internet è stato utile anche per un tam tam di notizie tra i profughi. Per esempio, l’indicazione di non fidarsi di chi, dopo l’istallazione del filo spinato, ha chiesto soldi ad alcuni profughi accompagnandoli in punti dove gli stessi organizzatori truffatori tagliavano con le cesoie il filo spinato, invitando a proseguire il cammino. E’ passato così in Ungheria il maggior numero delle centinaia di persone che si sono ritrovate in carcere dopo l’entrata in vigore della nuova legge che prevede tre anni di galera per gli illegali.
da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015

Il braccio di ferro tra Orban e la UE

PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
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Aniko Bakoni, del Comitato di Helsinki (foto F. Speranza).

Solo uomini e soli: niente rende meglio l’idea della politica del governo di centro-destra ungherese, nei confronti della questione migrazioni, quanto le immagini scelte dalla Tv di Stato: solo giovani senza vulnerabilità apparenti. Non compaiono famiglie. Ce lo fa notare Aniko Bakoni del Comitato di Helsinki, che non ha dubbi: “Alla barriera fisica che Budapest oppone, fatta di filo spinato e difesa di soldati, si accompagna il muro della comunicazione e quello legale”.
Solo nel week end abbiamo incontrato nei punti nevralgici di arrivo e espulsione verso l’Austria 10.000 persone  e di queste almeno il 25% erano donne e bambini. Ma in Tv non si vedono. C’è poi un altro elemento chiave: anche nelle citazioni ufficiali mancano le migliaia di famiglie, così come manca il termine profughi o rifugiati. Sono sempre tutti appellati come migranti: nei documenti in cui Orban spiega la sua posizione e negli interventi fatti dai ministri degli Interni e della Difesa. Non compare distinzione tra  poveri, richiedenti asilo, rifugiati o profughi.

Solo nel week end abbiamo incontrato nei punti nevralgici di arrivo e espulsione verso l’Austria 10.000 persone  e di queste almeno il 25% erano donne e bambini. Ma in Tv non si vedono. C’è poi un altro elemento chiave: anche nelle citazioni ufficiali mancano le migliaia di famiglie, così come manca il termine profughi o rifugiati. Sono sempre tutti appellati come migranti: nei documenti in cui Orban spiega la sua posizione e negli interventi fatti dai ministri degli Interni e della Difesa. Non compare distinzione tra  poveri, richiedenti asilo, rifugiati o profughi.
E’ qui il cuore del braccio di ferro di Orban con il resto d’Europa,  che – in testa la cancelliera tedesca Merkel – vorrebbe rispondere in modo nuovo alla crisi nuova. Cioè, ad esempio, appellandosi ai criteri fondamentali di solidarietà e emergenza umanitaria e riformando strumenti messi a punto in altro momento storico, come l’Accordo di Dublino che impone al Paese che ha registrato un rifugiato di accoglierlo nel caso in cui, passato in altro Paese, sia stato da lì espulso.
Orban si oppone a qualunque apertura od eccezione. Si oppone a seguire la pancia dell’Europa che non ce l’ha fatta ad assistere indifferente alla marea umana in fuga da guerre e violenze e ha aperto la porta di casa, in attesa di mettere a punto le questioni di diritto. L’Europa che ricorda bene come l’embrione dell’Unione sia nato per portare pace a tutti i profughi su territorio europeo della Seconda Guerra mondiale. E’ stata la Germania, paese più forte d’Europa a farlo per prima ma Commissione Europea e Consiglio dei capi di Stato e di governo hanno cercato di tenere il passo, imponendo il ricollocamento dei primi 120.000 arrivati sul Mediterraneo. I Paesi ex comunisti dell’est si sono opposti ma sul ricollocamento hanno visto prevalere la maggioranza qualificata. E’ stato un pronunciamento significativo ma tutto da verificare: la Slovacchia ricorrerà e gli altri, Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria non è affatto detto che si attengano davvero alla decisione. Al momento non ci sono sanzioni previste.
Orban, che dà voce all’altra pancia d’Europa, quella che ha paura di vedere il proprio territorio invaso e impoverito, si sta opponendo in punta di diritto all’Europa che vorrebbe riconoscersi almeno un po’ nei profughi attuali. Ma per prevalere sulle chiusure del governo ungherese, e di altri, l’Europa dovrebbe avere il coraggio e la forza di pronunciamenti che abbiano il potere legale di un’azione comune in politica estera.
Il punto è proprio questo: la questione migranti e profughi viene ancora pensata e gestita come una questione di sicurezza interna. E invece è una questione di politica estera e come tutte le grandi questioni di politica estera paga lo scotto di un’Europa ricattata dai suoi stessi Paesi membri, ricattati a loro volta dagli umori degli elettori locali: gli egoismi nazionali impediscono di fare il salto sul piano sovranazionale e di dare davvero alla Commissione e all’Alto rappresentante della politica estera e della sicurezza, attualmente Federica Mogherini, gli strumenti di azione che dovrebbero avere. Tutta questa storia non è solo un referendum sull’accoglienza o no dei profughi, ma sullo spessore politico, tanto invocato, dell’Europa unita.
L’altro punto nevralgico lo dobbiamo individuare ancora al di sopra, allargando lo sguardo alla comunità internazionale. Da più parti si invoca l’intervento dell’Onu, di fronte a una emergenza umanitaria che investe Medio Oriente e Vecchio Continente. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, oltre a richiamare l’Ungheria al rispetto dei diritti umani nell’incontro ai margini dell’Assemblea generale con il presidente ungherese Jonos Ader, ha indetto una Conferenza mondiale sulle migrazioni il 30 settembre. Il ruolo delle Nazioni Unite non si gioca tanto nelle possibili misure di assistenza ai profughi quanto nei possibili interventi di pacificazione nelle aree da cui provengono. Ma qui emerge la questione dei difficili equilibri tra potenze che sottendono i conflitti nell’area mediorientale. In particolare, al momento, gli equilibri che impediscono un’azione congiunta in Siria contro il sedicente Stato islamico.

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Un gruppo di parlamentari italiani, guidati dall’eurodeputata Silvia Costa (foto F. Speranza).
Ne abbiamo parlato con il presidente del Parlamento Europeo, Martin Schultz. Ci ha detto chiaramente che finchè, di fronte alla questione siriana, Europa e Stati Uniti procedono su un binario parallelo e opposto a quello di Russia e Iran, non si va da nessuna parte. E c’è poi il ruolo della Turchia, non abbastanza considerato. Ci vuole – ci spiega Schultz – “una vera coalizione internazionale contro il sedicente Stato islamico, altrimenti l’area non potrà essere pacificata”. E poi la ribadita raccomandazione: “Tutti gli interlocutori devo avere un ruolo, a partire da Mosca e Teheran”.
Risulta evidente che l’azione più efficace che l’Europa può fare, per superare le logiche dei nazionalismi, sarebbe di fare il salto e porsi come interlocutore credibile e unitario sullo scacchiere politico mondiale. Finchè questo non accade, il premier ungherese Orban ha buon gioco a sostenere di muoversi nel rispetto della legalità formale. Una legalità costituita in altri tempi e troppo ingessata per l’oggi, ma ancora non riformata.
Orban, di fatto, scandalizza l’Europa rimanendo però praticamente inattaccabile. Abbiamo visto lo sconcerto di fronte ai carri armati e ai soldati equipaggiati da assetto di guerra sui volti del gruppo di parlamentari italiani, guidati dall’eurodeputata Silvia Costa, che abbiamo seguito in missione in Ungheria, proprio per potersi rendere conto da vicino.

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Uno dei blindati croati fermati alla frontiera (foto F. Speranza).
Ai responsabili di frontiera è stato chiesto conto dei blindati. Hanno risposto che, quando l’esercito ungherese si muove, come qualunque altro esercito, si muove con i mezzi che ha. E di fronte alle perplessità per tutto l’equipaggiamento da guerra, ci è stato risposto che è normale che ogni soldato abbia sempre con sé gli strumenti in dotazione. Si è fatta notare la differenza che balza agli occhi tra il confine ungherese con la Croazia e il confine ungherese con l’Austria, dove i profughi al loro arrivo vedono solo poliziotti e non soldati, e ci hanno spiegato che ogni Paese risponde alle questioni di sicurezza in base ai propri standard. Torniamo al punto nevralgico:  come pretendere che non si parli di sicurezza interna ma di politica estera? In questo contesto, concreto e legale, è impossibile.
Questo non significa che Silvia Costa e gli altri parlamentari del PD presenti, tra cui Roberto Cociancich, Sandra Zampa, Flavio Zanonato, non abbiano intenzione di dare voce a richieste e perplessità. Ci sarà –i anticipano a Famiglia cristiana – un’interpellanza parlamentare e una lettera alla Mogherini ma anche alla Commissione Europea.

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Tamas Lederer di Street Aid (foto F. Speranza).
Restano ancora denunce da verificare, come quella di Tamas Lederer di Street Aid  FOTO , che sostiene che in Ungheria ci siano violazioni in tema di minori e in tema di rifugiati politici. E ci dice: “In più è vergognoso che nel dibattito pubblico si parli tanto di rischio malattie e terrorismo e non di storie di persone”.
Attraversando i punti caldi, non registriamo evidenti comportamenti in violazione delle normative internazionali ma più di un operatore della Croce Rossa e dell’UNHCR, l’organismo Onu per i rifugiati, non nasconde, off the record, le grandissime difficoltà incontrate su territorio ungherese. Di qualunque genere, ci dicono, spiegandoci che non possono aggiungere altro perchè devono assicurarsi la presenza sul territorio.  Ancora una volta, in questo lungo viaggio da un capo all’altro dell’Ungheria viene da chiedersi: ma siamo sempre in Europa?
da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015

Orban e gli Ungheresi “traditi dalla storia

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Il nazionalismo del premier Orban fa appello a sentimento segreto degli ungheresi.

 

PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

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Il primo ministro ungherese Victor Orban (Reuters)

Camminando per le strade di Budapest non c’è più traccia delle persone accampate alla stazione in attesa di lasciare il paese, ma se ci si ferma a parlare con qualcuno, ci si rende conto che una traccia è rimasta nell’emotività. Più di una persona ci ripete che gli ungheresi sono stati traditi dalla storia. Immaginiamo sia un’espressione entrata nel dibattito corrente.

Qualcuno parla di 200 anni di guerre tra nazioni, lingue, culture che non possono aver lasciato spazio alla fiducia nell’altro. Ricordiamo che tutto il continente è stato terreno per secoli di conflitti, ma ci sentiamo rispondere che solo in Ungheria, però, ci sono stati 150 di dominio ottomano, per non parlare del comunismo poi. Rinunciamo a confronti sul livello di drammaticità della storia passata e cerchiamo di capire il supporto di cui gode tra la popolazione il premier Orban, paladino della chiusura delle frontiere.

Ci sentiamo spiegare che Orban, in carica dal 2010, sta difendendo, dopo tanto liberismo selvaggio degli Anni Novanta, il popolo ungherese. Finalmente, ci dicono ben tre persone, sta avvenendo una “ungherizzazione del Paese”. Altra espressione che sa di slogan.

In sostanza Orban ha rinazionalizzato i settori dell’energia e dell’acqua, quello bancario e quello agricolo. Alzando le tasse per tutti gli stranieri, in modo chirurgico, ha facilitato gli investimenti stranieri solo nel settore manifatturiero. Questa la chiamano ungherizzazione. Non fa certo rima con globalizzazione. Parliamo con una famiglia italiana che anni fa si è trasferita in Ungheria e ha messo su un’azienda agricola. Allo scadere dei 20 anni di affitto del terreno coltivato con profitto, pensava di essere forte del diritto di prelazione sul terreno formalmente riconosciuto dal precedente contratto ma la nuova legge del governo Orban, con valore retroattivo, ha cancellato il diritto di prelazione. La famiglia italiana ha visto assegnato quel terreno a una famiglia ungherese. E’ solo un esempio. Ci sono altri casi di usufrutto andato in fumo: anche qui per interventi legislativi retroattivi.

Di fatto non si può parlare di incremento del benessere in questi 5 anni, ma è vero che mentre prima le bollette di energia e acqua pesavano per il 25% sulle entrate delle famiglie, ora questi costi sono stati drasticamente ridotti. Ma nel frattempo c’è la disoccupazione e il PIL non risulta cresciuto.  A proposito di disoccupazione, verifichiamo che per arrivare al 7%, fornito da fonti governative, si arriva comprendendo tra gli occupati anche tutti gli ungheresi che lavorano all’estero. E’ uno standard particolare di analisi dei dati che distingue l’Ungheria dal resto d’Europa.

Anche questo è “difesa dell’ungheresità”, espressione che traduce letteralmente l’altra espressione più ricorrente, insieme con ungherizzazione.

Non mancano alcune critiche ma sono sempre su faccende interne. Il monopolio stabilito per il tabacco, che prima rientrava nel libero commercio, pare essere toccato a fedelissimi. La critica che ascoltiamo da un anziano signore non sta nell’aver sottratto il commercio al libero mercato ma solo sulla scelta dei nomi dei beneficiari.

Ci raccontano comunque che Orban è un ungherese doc. Protestante, attivo, presente. Al senso della paura e dell’essere a rischio invasione che la politica cavalca – ci spiegano – mancano argini  innanzitutto perchè nella società ungherese, dopo gli anni di comunismo, e nonostante gli oltre  dieci anni dall’ingresso nell’Ue, non c’è associazionismo civile. E’ quello che lamenta in Ungheria chiunque abbia rapporti con il resto dell’Europa e del mondo. Ma non sono certamente la maggioranza.
da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015

Anche nei Balcani, Italia in prima linea

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PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

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Marco Monguzzi, responsabile dell’area Europa per la Croce Rossa (foto F. Speranza).

Poliziotti italiani alla frontiera calda tra Ungheria e Croazia, a Benemend. Li incontriamo e pensiamo a un impegno di collaborazione tra forze europee. Ci spiegano, invece, che sono lì perchè l’arrivo dei profughi  sta per spostarsi in Slovenia e, dunque, in Italia. Si stanno organizzando.
Stessa mobilitazione per la Croce Rossa. FOTO Marco Monguzzi, responsabile dell’area Europa, ci  fa notare che, dopo il Muro eretto al confine con la Serbia e quello in costruzione per la Croazia, Budapest sta già provvedendo alla barriera con la Slovenia. Il fiume umano, che non si arresta da Siria, Iraq ma anche Afghanistan, allungherà dunque il percorso ma non si fermerà. Ne sarà investita, “oltre alla Slovenia, anche la Romania, così come Montenegro e Albania”.

Il punto è che, oltre ai percorsi via terra, il passaggio obbligato via mare, dalla città turca di Bodrum all’isola greca più vicina di Lesbo, è di soli 45 minuti. E’ facilmente presumibile che l’imminente inverno non bloccherà questa traversata, come invece frena quella più lunga sul Mediterraneo.
La Croce Rossa è pronta a intervenire in questi Paesi con le tecniche nuove messe a punto in questa emergenza. Di diverso dalle tante altre affrontate nel mondo,  c’è che non si tratta di necessità per persone sostanzialmente stanziali, come – ci spiega Monguzzi – nei casi di calamità naturali o in scenari di conflitto. A partire dal kit: non un fabbisogno essenziale per un mese, troppo pesante da trasportare, ma coperte e viveri per un giorno o due. Di più è troppo gravoso per chi, dopo aver viaggiato dalla Siria o dai Paesi limitrofi, arriva ai confini d’Europa e deve aspettare in tenda qualche ora, poi salire su un autobus per essere accompagnato a un altro confine, ma solo nei pressi: gli ultimi 4 o 5 chilometri spettano sicuramente a piedi. Lo abbiamo visto a Hegyeshalom, ultimo paese ungherese prima dell’Austria.

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Laszlo Szoke, sindaco di Hegyeshalom (foto F.  Speranza)
A Hegyeshalom abbiamo incontrato profughi anche fuori dei centri di accoglienza. Al sindaco, Laszlo Szoke, facciamo presente che, in base alla nuova legge in vigore in Ungheria dal 15 settembre, dovrebbero essere arrestati. FOTO Abbozza uno strano sorriso e ci dice: “Io sono sicuro che sono tutti entrati prima del 15 settembre”. La complicità di quest’uomo, che vediamo muoversi tra i binari dei treni e le tende accanto al personale delle organizzazioni umanitarie, ci restituisce un’altra faccia delle politiche dure del governo Orban.
da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015

Cipro, anche qui il dramma dei migranti

Dalla Siria e da altri Paesi del Medio Oriente arrivano a Cipro i “clandestini”. E finiscono anche loro nella trappola dell’isola divisa.

di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier

Cipro, la partita del gas naturale
Cipro, il Paese islamico che non esiste
Cipro, la cultura non si arrende
Cipro, anche qui il dramma dei migranti

cipro9Sami Ozuslu, direttore e editorialista del Turkish Cypriot Daily (foto F. Speranza).

Sbarcare sulle coste di Cipro è relativamente facile per tutti i disperati che fuggono dalla tragedia in Siria o dalla fame e da altre guerre in Medio Oriente e Africa. Nessuno sa quanti siano. E sembra che nessuno sappia quanti dal Nord passano al Sud per essere poi rigettati indietro e viceversa. Accetta di accennare alla questione immigrazione nella Repubblica di Cipro del Nord, il giornalista Sami Ozuslu, direttore e editorialista del Turkish Cypriot Daily, che coordina anche il Kanal SimTvRadio, una sorta di consorzio di media. Ozuslu ci chiarisce subito: “Potete parlare di rifugiati solo al Sud, perchè sono tali se sono riconosciuti da uno Stato, ma al Nord lo Stato non esiste e, dunque, non possono esistere neanche i rifugiati”. Ci racconta qualcosa che lo colpisce e che colpisce moltissimo anche noi:  “Tanti dei profughi, specialmente siriani, quando arrivano non sanno che Cipro è divisa”.

Tra gli aspetti più noti del problema,  l’immigrazione illegale che passa dal Nord al Sud europeo, alimentando un certo traffico della prostituzione. Alle donne cui va bene, lavorano come babysitter. Gli uomini in questi anni hanno lavorato nelle costruzioni, ma il problema è che c’è stato un brusco arresto al Sud e un forte rallentamento al Nord. Dal 2003 si erano moltiplicati i pendolari: gente che la mattina dal Nord passava il Muro e andava a lavorare al Sud dove i salari sono decisamente più alti. Almeno 60.000 persone. Ma anche questo fenomeno è stato drasticamente ridimensionato dalla crisi. C’è da dire che al Nord i salari, oltre che bassi rispetto al Sud, sono caratterizzati da una netta differenza tra settore pubblico e privato, che paga molto meno. A parità di professione e anzianità, per lo stesso lavoro, se nel privato si arriva a un salario equivalente a 700 euro, nel pubblico si possono raggiungere i 2000 euro. A ben guardare, in salari pubblici se ne va il 70% del budget di Cipro del Nord, che ammonta all’equivalente di 5 milioni di euro l’anno. Un dato che ci ricorda, fatti i debiti distinguo, la madre patria del Sud, la Grecia con la sua elefantiaca amministrazione.

Da Famiglia Cristiana del 6 febbraio 2015

Cipro, la cultura che non si arrende

Da un lato e dall’altro del Muro, gli uomini di cultura non si arrendono alla divisione dell’isola. di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier

Cipro, la partita del gas naturale
Cipro, il Paese islamico che non esiste
Cipro, la cultura non si arrende
Cipro, anche qui il dramma dei migranti

cipro7Ahmet Sozen, capo del Dipartimento per le relazioni internazionali e Direttore del Cyprus Policy Centre (foto F. Speranza)

Si chiama Joint Teacher Commission: è il progetto che professori turco-ciprioti e colleghi greco-ciprioti  stanno cercando di portare avanti, nonostante l’indifferenza della politica. Il progetto cresce all’Università internazionale del Mediterraneo orientale, che si trova a Famagosta, nel Nord di Cipro. Vale sempre la regola che al momento gli insegnanti si incontrano a titolo strettamente personale perchè i professori del Nord per il mondo non esistono. Esiste il progetto: una Commissione per portare avanti “un dialogo a livello di società civile parallelo a quello dei negoziati, che passi attraverso l’educazione delle nuove generazioni”. Così ci spiega Ahmet Sozen, capo del Dipartimento per le relazioni internazionali e Direttore del Cyprus Policy Centre.

Ci racconta di aver partecipato, in una sorta di ruolo di consulenza, alla fase di riavvio dei negoziati a inizio anno e ci assicura che “in sei mesi è stata scritta una pagina, prima dell’ennesima sospensione”. Si dice certo che sul piano negoziale, a parte la mancanza di volontà delle parti, nulla può accadere prima di un anno, cioè prima dell’inizio del mandato del presidente che uscirà dalle elezioni di primavera. Anche per questo afferma che “la società civile deve muoversi in parallelo e il mondo della cultura lo sta facendo”.

Passiamo il Muro e andiamo all’Università di Cipro.  Incontriamo Nigazi kizilyurek. che insegna materie umanistiche. Gli chiediamo se è vero che la cooperazione tra università si sta facendo più stretta e lui, con un sorriso, ci chiede: “Basta dire che io sono turco-cipriota e insegno al Sud?”. Kizilyurek in realtà ha nazionalità greco-cipriota, ma ci sembra di aver capito il senso delle sue parole. Anche meglio quando aggiunge: “Il conflitto non è etnico, né religioso, dalle ultime rilevazioni di uno studio, fatto da ricercatori del Nord e del Sud, emerge che il 65% di tutti i ciprioti non vuole il conflitto e voterebbe per una qualche riunificazione”.

cipro8Lo stadio turco-cipriota di Nicosia (foto F. Speranza)

A ben guardare dallo studio emerge che al Nord in maggioranza vorrebbero una federazione, mentre al Sud la maggioranza è per una confederazione di due Stati dstinti. Ma la volontà comune di una svolta è indubbia. Per capire il valore rivoluzionario di tutti questi progetti, che sembrano all’ordine del giorno per qualunque territorio, può essere utile ricordare che in quella che per il mondo è l’unica Repubblica di Cipro, al Sud, i giovani possono viaggiare e godere per esempio degli scambi Erasmus; nella parte Nord, invece, i giovani per lasciare la Turchia, unico Paese in cui possono arrivare in aereo, devono aver acquisito un passaporto turco, la loro carta di identità turco-cipriota non ha valore.

Incontrando proprio ragazzi e studenti, oltre che commercianti, si percepisce che la società civile sta aspettando seriamente la risposta sui progetti dai leader politici seriamente interpellati. Qualcuno ci ricorda che nei mesi scorsi, nonostante tante perplessità sollevate da politici, la squadra di calcio della Repubblica di Cipro si è recata a giocare nello stadio a Nord con la squadra turco-cipriota. Un altro forte segnale dalla società civile.

Da Famiglia Cristiana del 6 febbraio 2015

 

 

 

 

Cipro, il paese islamico che non esiste

Nel ricordo di Ataturk, a Cipro del Nord si è sviluppata una Repubblica islamica moderata che nessuno riconosce.                        di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier

Cipro, la partita del gas naturale
Cipro, il Paese islamico che non esiste
Cipro, la cultura non si arrende
Cipro, anche qui il dramma dei migranti

cipro4Statua di Ataturk al palazzo presidenziale (foto di F. Speranza)

Cinque minuti di silenzio per qualsiasi attività a Cipro del Nord, compreso gli inservienti dell’hotel internazionale a 5 stelle. E’ l’appuntamento fisso a Leskosa nei giorni di anniversario del leader della Turchia che ne ha fatto a inizio secolo scorso il paese musulmano più laico: Ataturk. Oggi che la Turchia con Erdogan, che ad agosto dopo essere stato premier è diventato presidente, vira sempre di più sull’onda del suo partito islamico, con ostentato orgoglio nella Repubblica di Cipro Nord ti sbandierano il volto di Ataturk con sempre maggiore convinzione, sottolineando a tutti i livelli la resistenza dei turco-ciprioti ad ogni islamizzazione della vita politica e sociale.

Trovare una donna velata per strada è davvero un’eccezione e scopri che non e’ cipriota. Una convinzione e un impegno di resistenza laica espressi da un paese musulmano sunnita che nelle cartine geografiche non esiste. Non trova eco nel mondo neanche la preoccupazione espressa per i tanti “coloni”, o con termine internazionale “settler” turchi che continuano ad arrivare nella repubblica che adotta, gioco forza, la lira di Ankara.

cipro5Emine Colak, presidente della Ong Human Rights Foundation (foto di F. Speranza)

Emine Colak è la presidente della Ong Human Rights Foundation, nata dopo il fallimento del piano Annan. FOTO. Ci riceve nel suo studio di avvocato e ci spiega che l’Ong vuole ricordare al mondo l’esistenza dei turco-ciprioti ma vuole anche contribuire a migliorare la situazione interna. Ci dice: “I coloni turchi negli ultimi anni portano soldi soprattutto per costruire moschee e questo preoccupa noi ciprioti”. Poi spiega che, oltre a quelli ricchi, ci sono turchi poveri provenienti dal sud della Turchia che rappresentano l’emergenza del momento perchè creano attriti con la popolazione locale per la rigidezza dei loro costumi islamici. Tutto cio’ colpisce in modo particolare considerando la storia di Cipro, fatta di battaglie feroci tra musulmani e governatori prima genovesi e poi veneziani.

cipro6La Cattedrale gotica di Famagosta, oggi Moschea (foto di F. Speranza)

Ne rende memoria la citta’ di Famagosta, a nord est, su territorio turco-cipriota, con la sua Cattedrale di San Nicola trasformata in Moschea, peraltro senza nessun intervento architettonico ma solo con l’aggiunta di arredi all’interno. FOTO cattedrale. Ma al sud e’ accaduto il contrario: Moschee trasformate in chiese. Scoprire una cosi’ forte battaglia per una sana laicita’ a Cipro Nord fa pensare che dovrebbe trovare supporto internazionale e non indifferenza.

Colak ci parla poi con orgoglio delle battaglie della sua Ong per il miglioramento della situazione dei diritti umani e ci ricorda che dal 28 gennaio 2014 l’omosessualità non è più un reato. Per quanto riguarda la libertà di espressione, non è l’unica ad assicurare che i turco-ciprioti ne hanno più di quanta sia riconosciuta in Turchia. Anche lei, come altri, lascia intendere che si spera in ulteriori cambiamenti dopo le prossime elezioni presidenziali ad aprile 2015. In campagna elettorale, sono solo proclami. I partiti sono quattro. Le differenze si possono giocare proprio sul livello di distanza imposta alla Turchia, ma il margine resta ristretto.

Tutti i partiti invece hanno l’adesione all’Ue nel loro programma, anche se l’avvocato ammette che nel paese c’è meno entusiasmo per l’Ue, dopo la grossa crisi economica che ha colpito la Grecia e Cipro di conseguenza. La crisi mondiale non ha risparmiato la Turchia e la parte turca di Cipro, ma molto meno di quanto abbia segnato lo Stato Ue, le cui banche, fortemente legate a quelle greche, le hanno seguite nel collasso. Anche a Cipro colpisce il numero di istituti chiusi.

Sul piano economico, c’è una battaglia che la Repubblica di Cipro, membro Ue, sta facendo per il riconoscimento del marchio Doc per il famoso formaggio greco Halloumi. Il punto è che, passando il Muro e andando al nord di Cipro, riconosciuta solo dalla Turchia, si trova esattamente lo stesso prodotto caseario con il nome, tradizionale per i turco-ciprioti, di Hellim. Oltre il 16% della popolazione nel Nord è legata alla produzione o distribuzione di questo formaggio e il 24% dei prodotti esportati è rappresentato proprio dall’Hellim. Il marchio Doc solo per l’Halloumi significherebbe un danno economico per il Nord, ma si capisce che rappresenterebbe qualcosa di più: l’ennesimo rifiuto di considerazione del mondo per un popolo che da 40 anni paga l’invasione turca e che oggi si batte per resistere alla svolta islamica.

Da Famiglia Cristiana del 6 febbraio 2015

 

 

 

 

Cipro, la partita del gas naturale

Usa, Turchia, Russia: tutti interessati ai giacimenti scoperti in mare. Una partita a scacchi di livello mondiale. di Fausta Speranza

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Cipro, la partita del gas naturale
Cipro, il Paese islamico che non esiste
Cipro, la cultura non si arrende
Cipro, anche qui il dramma dei migranti

cipro3Le bandiere greco-cipriota e turco-cipriota lungo il Muro (foto F. Speranza)

Il Muro di Nicosia fa ombra da sempre a interessi geopolitici che lo tengono su, ma mai come nel 2014, a 40 anni dalla divisione, la partita è stata così complessa e aperta ad una svolta: favorevole alla riunificazione o drammatica.  L’elemento nuovo entrato in campo è di quelli prorompenti: le risorse energetiche, difficilmente foriere in genere di pacificazione. Si tratta di un giacimento di gas naturale individuato nelle acque a sud-est, nell’area tra Cipro e Israele. Il gas non è stato ancora liberato, ma la sola individuazione ha provocato un’esplosione di dinamiche geopolitiche. Come se non bastassero le implicazioni internazionali già proprie di tutto il Medio Oriente. Tra Cipro e Israele ci sono solo 400 km di mare, tra Cipro e il Libano 100 km, poco di più tra l’isola e la Siria.

L’area in mare che nasconde gas naturale si trova nelle acque riconosciute dal diritto marittimo internazionale alla Repubblica di Cipro, che ha avviato le ricognizioni. A settembre, per suo conto, hanno cominciato a lavorare sul posto l’Eni e la sudcoreana Kogas, con l’impegno di costruire 4 pozzi in un anno. Qualche mese prima era arrivato in missione riconciliante sull’isola l’inviato Usa Biden, dimostrando un inusuale interesse per la questione cipriota da parte degli Stati Uniti così drammaticamente coinvolti nell’incubo della vicina Siria o nel caos del non lontano Egitto. Alla missione Usa, si era accompagnata, a inizio anno, una Dichiarazione congiunta di Nicosia, termine usato dai greci per la capitale, e Lefkosa, termine turco per la stessa capitale. Le due parti si impegnavano in passi concreti su punti nodali. Ma, dopo l’inizio dei lavori, nell’area interessata si sono materializzate navi turche ufficialmente impegnate in attività esplorative sul carattere sismico del territorio. Molto poco ufficiosamente, le autorità turche e quelle turco-cipriote rivendicano per Lefkosa i proventi delle risorse energetiche, sostenendo che appartengono agli abitanti dell’intera isola, in via di riconciliazione. La partita si è complicata e non sono bastati i solleciti ammonimenti del Consiglio Europeo ad Ankara perché resti fuori di acque territoriali appartenenti ad uno Stato membro Ue.  Il risultato è stato un congelamento del negoziato ai primi di ottobre. Il presidente greco-cipriota Anastasias ha abbandonato il tavolo.

Abbiamo incontrato entrambi i negoziatori: il turco-cipriota, Ergun Olgun, ci spiega che  “Anastasias cercava solo un espediente per sospendere”, ammettendo però che “troppi paesi stanno effettuando esercitazioni militari e altre attività a Cipro”. Sulla proprietà del gas, ci spiega la rivendicazione di Lefkosa affermando che “le due comunità sono separate ma nella stessa casa e non hanno divorziato: le proprietà sono comuni”. Un’opinione condivisa solo dalla Turchia. Il greco-cipriota, Andreas D. Mavroyiannis, ci riceve con la stessa cordialità e gentilezza, ma sottolineando subito: “Io non rappresento nei negoziati il governo ma la comunità greco-cipriota”. La sottolineatura ci colpisce. La teniamo a mente anche quando dichiara: “I negoziati vanno fatti  per il futuro comune, non per interessi di altri”. Un’opinione è condivisa: il gas potrebbe rappresentare una benedizione o una maledizione. Una benedizione, se porta soldi ai ciprioti. Una maledizione, se alza la posta della partita giocata da altri sull’isola. Difficile essere ottimisti.

Dal 2003, il processo negoziale per una riunificazione dell’isola di Cipro, con stop and go, è sostanzialmente sempre proseguito sulla traccia della proposta Onu: una Federazione di due Stati. La bozza di accordo proposta dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, nel 2004, al momento dell’ingresso della Repubblica riconosciuta nell’Ue, è stata approvata da referendum dalla parte turco-cipriota ma bocciata proprio dal nuovo Stato greco-cipriota dell’Ue. Da allora è rimpallo di responsabilità e disputa su varie questioni. Il negoziato non ha fatto passi avanti sostanziali. Si è solo complicata la questione delle proprietà abbandonate o confiscate rispettivamente da esponenti delle due comunità sui due territori. Dopo 40 anni non è più pensabile la restituzione dei beni immobili e la differente evoluzione delle due parti complica ogni meccanismo di risarcimento o compensazione, che dir si voglia. C’è il pronunciamento del Consiglio d’Europa sui risarcimenti dovuti a cittadini greco-ciprioti cacciati dal Nord, ma si tratta di cause a livello individuale, come è nel costume dell’organismo a 47 paesi.  Ma ci sono cause a livello collettivo di turco-ciprioti che non trovano istanza a Strasburgo. Non è questione semplicissima ma il problema vero per cui Cipro non trova pace non è nel capitolo proprietà. E’ il capitolo sicurezza dell’area quello davvero incriminato. E i ciprioti hanno davvero debole voce al proposito.

Nicosia è l’unica capitale rimasta al mondo divisa in due. Il Muro in alcuni punti è stato costruito apposta in cemento ma non troppo alto; in altri punti coincide con belle mura antiche; in altri ancora è un posticcio filo spinato che lascia intravedere da entrambi le parti le case e gli abitanti. Oltre la capitale, la linea divisoria, con distanziati check point, segna la lunghezza di 180 km di frontiera a tre quarti di isola. Lo fa in in base a un armistizio, che da subito ha servito  logiche di piani geopolitici ben al di fuori dell’isola del Mediterraneo orientale e ben al di sopra delle teste dei cittadini che su tutto il territorio sono poco più di un milione di persone. Circa 800.000 sono i greco-ciprioti. Circa 300.000 sono i turco-ciprioti, cioè meno della comunità turca-cipriota che vive a Londra, che sfiora i 360.000. Questo dato fa pensare ad una artificiosità che si dovrebbe poter facilmente sanare. Ma non è così.

Da Famiglia Cristiana del 6 febbraio 2015

 

 

 

TASK FORCE

A TASK FORCE OF INFORMATION KEEPERS
Ensuring information in the world could contribute in a substantial way to rebuild or to mantain the peace. Often the weapons are misunderstanding, no knowledge, censorship, propaganda too. That´s why it sprung up the idea to have „I Caschi blu dell´informazione“, „a task force of informationkeepers“.
The idea was from a group of opinion leaders and journalists (Alberto Abruzzese, Lucia Annunziata, Giulio Anselmi, Bocchini, Bolchi, P.Borgomeo, Giampiero Gamaleri, Marcelle Padovani, Pulcini, Serventi-Longhi, Fausta Speranza, Sergio Zavoli, Franco Zeffirelli).
It was presented in Rome on may 1999 at the side of Foreign Press Association that joined the iniziative. The aim is to arrive in every conflict area (and in the world there are so many running tragedies) as a task force for humanitarian help, to defence information in that area and to open a channel to ensure exchange of news in every way.
The theorical idea needs realising in a concrete way so the hour is struck to launch a project. First of all „I Caschi blu dell´informazione“ tried to put themselves in contact with other promoters of similar projects, first of all in Italy. They discovered „The Mega chip“ project by Planet (an indipendent association for cultural exchange in the world) and Formin (a Forum of humanitarian and volontary organizations as Amnesty International Italia).
Their aim is to create a global Observatory for the Media to monitorate what is happening. It could be the first step.
A meeting is organised in September, exactly few days before the Third ONU Assembly for population, to present the iniziative in a so high side.
In the same time „I Caschi blu dell´informazione“ presented the idea to the European Institute for the Media, the core of communication studies in Europe. For the high professional standard of the Institute „I Caschi blu dell´informazione“ are sure that the project could soundly go on, if it is worth, in the best way.

Caschi blu

Caschi blu dell’informazione

Iniziativa di Alberto Abruzzese, Lucia Annunziata, Giulio Anselmi, Ermanno Bocchino, Sandro Bolchi, padre Pasquale Borgomeo, Giampiero Gamaleri, Marcelle Padovani, Paolo Serventi Longhi, Fausta Speranza, Sergio Zavoli, Franco Zeffirelli
“Caschi Blu dell’Informazione” è un’iniziativa sviluppata da un gruppo di intellettuali e giornalisti ideatori di un manifesto con cui si chiede l’apertura nelle aree di conflitto di adeguati corridoi informativi, che, non meno degli invocati corridoi umanitari, sono elementi fondamentali sulla via della pace.
La proposta si articola nei punti seguenti:
-scrivere una “Carta dell’informazione in tempo di guerra” da portare, per vie diplomatiche, all’attenzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
-creare un “Osservatorio” composto da studiosi e professionisti di indiscusso prestigio che indaghi su ogni episodio di violazione della libertà e completezza dell’informazione sul teatro di guerra.
-istituire un “Tribunale etico internazionale” incaricato di comminare sanzioni morali, denunciando alla pubblica opinione i casi di grave violazione della libertà di stampa e le sempre più sottili forme di censura e di propaganda che con violenze palesi ed occulte vengono esercitate nei confronti dei giornalisti e di tutti gli operatori della comunicazione, compreso Internet.

Tutto è cominciato in un’aula dell’Università LUISS-Guido Carli dove il Prof. Gianpiero Gamaleri svolge il corso di “Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa”, così come il Prof. Ermanno Bocchini insegna “diritto dell’informazione”. Incontrandosi e discutendo della guerra in atto, hanno commentato che sarebbero serviti dei corridoi informativi accanto agli auspicati corridoi umanitari. La sensazione che prevaleva era che i Serbi non fossero adeguatamente informati. E’ vero che in un numero considerevole di case, superiore forse alle aspettative, c’erano antenne satellitari in grado di ricevere le trasmissioni, ad esempio, della CNN ma è anche vero che molte esasperazioni nazionalistiche poggiavano sulla disinformazione. Inoltre era anche la frammentarietà e l’insicurezza delle notizie che giungevano fino a noi a convincere che l’informazione non aveva caschi blu a sua difesa. Restava ferma la relativa convinzione che sia più difficile combattere un nemico guardandolo in faccia piuttosto che ignorando la sua identità.
A questo proposito è molto interessante lo studio di Cumins intitolato War and television. Bruce Cumins, studioso americano di prestigio, stabilisce un’equazione precisa: dove c’è televisione non c’è guerra. Presentando un’analisi che spazia dalla Korea al Viet-Nam, dalla guerra del Golfo al travaglio jugoslavo, distingue i conflitti in due categorie: “monitorated wars”, guerre monitorate, e “unmonitorated wars”, guerre non monitorate. Le prime tendono a estinguersi in breve tempo. Le seconde rischiano di diventare endemiche. La tesi di Cumins, nella sua essenzialità, è semplice: fin dai tempi delle trincee è molto più difficile sparare a un nemico quando lo si guarda negli occhi. E la TV, se presente, ti costringe in qualche modo, con il suo occhio elettronico, a guardare in faccia il nemico. Certamente il veleno della propaganda cerca di inquinare anche la fonte televisiva. Da Saddam Hussein a Slobodan Milosevic abbiamo assistito a un uso addomesticato del mezzo e, parallelamente, a una relativa debolezza delle democrazie alimentate ovviamente da un’informazione aperta e spesso anche autocritica. Alla fine, però, dovrebbe esserci sempre un vero vincitore: un’opinione pubblica internazionale sufficientemente informata che sa distinguere.

DIETRO L’INTUIZIONE IL DIRITTO
L’iniziativa è maturata presto sotto il profilo giuridico e ha trovato l’adesione di altri intellettuali, esponenti e studiosi dell’informazione:  Alberto Abruzzese, studioso di sociologia della comunicazione; Lucia Annunziata che ha personalmente conosciuto le limitazioni del regime di Milosevic, essendo stata espulsa perché sospettata di non rispettare tutti i diktat imposti ai giornalisti stranieri; Giulio Anselmi, in quel momento direttore dell’ANSA, la maggiore agenzia giornalistica italiana; il regista televisivo Sandro Bolchi e quello cinematografico Franco Zeffirelli; Padre Pasquale Borgomeo, direttore generale della Radio Vaticana che ha, come i servizi di RAI International, trasmissioni rivolte anche ai paesi più direttamente interessati; Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione Nazionale della Stampa Italiana; Sergio Zavoli, scrittore e giornalista sempre attento agli aspetti etici dell’informazione, e poi Marcelle Padovani, presidente dell’Associazione Stampa Estera di Roma, che si è appassionata all’iniziativa tanto da ospitare la conferenza stampa di presentazione, il 29 aprile 1999, e da mettere a disposizione anche in seguito la  sede dell’Associazione come trampolino per poter interloquire con i colleghi stranieri.
L’iniziativa, nata dallo scambio di idee tra il Prof. Bocchini e il Prof. Gamaleri, è stata dunque portata avanti con tutti questi protagonisti e altri sostenitori come i giornalisti Enrico Pulcini e chi scrive, che ha curato l’organizzazione e i contatti. L’intuizione iniziale trovava conferma nella premessa giuridica così formulata dal Prof. Bocchini: accanto alla comunità degli Stati, e quindi dei governi e delle istituzioni, c’è una comunità di popoli che deve essere considerata dall’informazione. I popoli sono costituiti dalle persone e l’informazione è diritto primario della persona. Anche quando ci sono regimi che possono non rappresentare adeguatamente o rappresentare in modo distorto la gente, è il popolo ad avere la priorità. E’ su questo che si basa il concetto del diritto-dovere di un’informazione aperta. Va detto che la concezione di corridoi informativi vuole essere un’iniziativa fondamentale verso la pace e che, pertanto,  si sottolinea  il carattere di  reciprocità che il flusso dell’informazione attraverso questi canali deve avere.

IN GUERRA
Per tornare con la mente alla situazione e al clima in cui l’idea maturava, riportiamo anche il seguente comunicato comparso nel sito dei Caschi blu dell’informazione in risposta alla presentazione da parte di Milosevic  del Codice di condotta per i corrispondenti stranieri di guerra.

>>CENSURIAMO LA CENSURA>>
Alla tragedia nei Balcani si accompagna la guerra di notizie e propaganda. Il comando militare supremo di Belgrado per la prima volta dalla guerra fredda in un paese d’Europa impone la censura preventiva militare.
Come ben sai, con il titolo di “Codice di condotta per i corrispondenti stranieri in guerra” intende mettere il bavaglio all’informazione. E’ urgente difendere l’unica buona condotta per un giornalista: informarsi e informare.
Alla “tessera di guerra” che Milosevic crede di poter assegnare a suo piacimento rispondiamo chiedendo una Carta dell’informazione con l’avallo dell’ONU che attesti in maniera irrevocabile la responsabilita’ della verita’.
Al “permesso giornalistico” di cui Belgrado crede di poter gestire la scadenza rispondiamo chiedendo un Osservatorio che tuteli in ogni tempo il dovere di un’informazione libera.
Era un momento drammatico in cui il presidente jugoslavo imprimeva l’ennesimo giro di vite. D’altra parte,  non mancava la consapevolezza che anche sul fronte delle forze occidentali potevano esserci carenze o distorsioni nell’informazione. A questo proposito va ricordato il dibattito con il quale è stato sottolineato il ruolo dei media come armi di guerra. Qualcuno, parafrasando McLuhan, ha detto: il medium è il massacro, perché spesso l’informazione è stata massacrata essa stessa.
NON SOLO BANDIERA ITALIANA PER I CASCHI BLU
Anche nei mesi successivi alla presentazione dei Caschi blu dell’informazione in molti hanno manifestato di condividere le ragioni di fondo. L’European Institute for the Media, che ha sede a Dusserldolf, ha voluto saperne di più e farne sapere di più ospitando nel Bollettino bimestrale un articolo ampiamente esplicativo. Grazie anche a questa pubblicizzazione in ambito transnazionale, sono piovute al sito dei Caschi blu dell’informazione adesioni dalle più disparate zone, come ad esempio Libano, Egitto, Canada, oltre che da tutta la zona dei Balcani.
Come per tutti i progetti a carattere fortemente ideale e umanitario i passi non possono essere che lenti. Per quanto riguarda la Carta, in ogni caso, c’è stato un vivo impegno anche perché in altre sedi erano maturate idee analoghe, ad esempio a Firenze se ne era parlato in un convegno organizzato il 3 maggio. Sono state fondamentali, poi, altre due tappe dell’autunno 1999. Si tratta dell’incontro-dibattito organizzato a Firenze nell’ambito del Premio Italia, e dedicato al rapporto tra televisione e guerra, e del Primo Forum Nazionale promosso a Gubbio dalla FNSI, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana. In questa sede la proposta della Carta ha trovato concretezza in una prima bozza.
I DIECI COMANDAMENTI DELL’INFORMAZIONE
“Il principio della libertà di espressione e, quindi, della libertà di stampa è uno degli elementi di base della vita democratica di ogni paese”: così si legge all’inizio del manifesto con cui ci si è impegnati a elaborare il testo preciso della Carta. La necessità di un documento del genere nasce dalla constatazione che tale principio, pur formalmente riconosciuto, viene frequentemente calpestato. Un’Europa che sta consolidando le comuni casi economiche si deve porre il problema di avere un documento che aiuti a difendere sempre e comunque la libertà di informare e di essere informati. Il rappresentante dell’ONU in Italia, Staffan De Mistura, al Forum di Gubbio ha salutato l’iniziativa con favore, spiegando che manca attualmente una norma riassuntiva dei vari principi in materia di informazione. I casi di repressione, intimidazione e minacce nei confronti dei giornalisti per la loro attività professionale e nei confronti dei media indipendenti sono una realtà da non dimenticare. Nel Manifesto si legge: “la costruzione di uno spazio europeo non può avvenire solo attraverso il rispetto di parametri di bilancio, finanziari, monetari o strategico-militari ma deve tenere conto anche del rispetto di standard comuni di vita democratica”. I promotori della Carta invitano la Commissione e il Parlamento europeo a fare in modo che i paesi membri e quelli che dovessero chiedere l’adesione all’Unione europea accolgano nella propria legislazione dieci principi. Tra questi, oltre all’abolizione di forme di censura e intimidazioni e il rispetto di forme di associazionismo, si prevede tra l’altro:
-fornire un servizio radiotelevisivo pubblico realmente indipendente e altrettanto indipendenti organi di tutela dei servizi radiotelevisivi privati;
-porre il limite di un tetto congruo alle concentrazioni proprietarie;
-favorire la nascita di tipografie e di aziende di distribuzione indipendenti;
-affermare il rispetto del diritto dei giornalisti a tenere segreta la fonte delle loro informazioni;
-favorire con misure idonee l’accesso dei cittadini ai media elettronici e in particolare a Internet.
A richiamare drammaticamente l’attenzione di tutti sulla necessità di mettere nero su bianco alcuni principi ribaditi e difesi in tutta Europa è stata la vicenda dei Balcani. Ma in realtà altre situazioni difficili e più che attuali nel mondo chiedono altrettanto drammaticamente la considerazione di tali principi.
A conferma, se ce ne fosse bisogno, dell’importanza della comunicazione, nel dibattito a Gubbio Staffan De Mistura ha detto in modo provocatorio ma deciso: “non porterò più beni materiali senza avere anche una radio che assicuri informazione”.
STOP ALLE ARMI MA NON ALL’INFORMAZIONE
Guardando ai Balcani ora che il conflitto è concluso, la situazione si presenta niente affatto risolta. Lo ricordano le interessantissime testimonianze dei giornalisti provenienti da Kossovo, Serbia, Montenegro, raccolte dai colleghi italiani che non vogliono dimenticare Serbia e Kossovo solo perché i bombardamenti sono cessati. Tra quanti durante il conflitto sono stati in prima linea nel loro lavoro, a dispetto delle armi, ricordiamo Baton Haxhiu, giornalista di “Koha ditore” del Kosovo; Dusan Masic, direttore del Dipartimento Informazione di Radio B92 della Serbia; Vladan Radosadljivic, direttore del Media Center di Belgrado; Jagoda Vukusic, presidente dell’Associazione Giornalisti Indipendenti della Croazia. Con alcuni di loro si è riusciti a mantenere il contatto anche sotto le bombe, dialogando via internet. Li nominiamo perché ci piace sottolineare che dietro all’informazione ci sono sempre persone. Andrebbero nominati anche quanti sono stati messi in condizione di interrompere il loro lavoro e quanti hanno perso la vita per farlo. Oggi tutti quelli che rilasciano dichiarazioni segnalano mille difficoltà. Purtroppo nelle aree interessate dal conflitto si continuano a registrare episodi di violenza e intolleranza e non si può ancora parlare di pacifica convivenza interetnica. E’ evidente che se ne dovrebbe parlare di più. Si tutela l’informazione anche evitando che dall’evento mediatico si passi al silenzio, ribellandosi all’idea che quando tacciono le armi tacciano anche i media. Il proposito dei Caschi blu dell’informazione è di difendere al comunicazione anche e proprio quando sembra si spengano i riflettori. E per non tacere, la prima informazione da dare dopo il conflitto riguardava la necessità, in quelle zone, di infrastrutture di ogni tipo, compreso quelle per l’informazione. Significava anche computer e mezzi tecnici per radio e Tv distrutte. Per questo la Rai ha messo a disposizione macchinari desueti ma funzionanti e cura da vicino Radio West.
Radio West, che propone trasmissioni nelle varie lingue delle etnie coinvolte, si colloca nella logica di pacificazione che investe in dialogo e confronto. Nel Kossovo non occorre solo assicurare l’ordine e avviare la ricostruzione materiale. Bisogna soprattutto promuovere la ricostruzione delle menti. I ragazzi che sono simili ai nostri, sono stati contagiati dal virus dell’intolleranza etnica. Si accendono come un fiammifero se riprende il sopravvento quella malattia contagiosa che è la lotta razziale. E questa malattia la si può estirpare in un solo modo: con una cultura diversa alimentata dai mezzi con cui i giovani hanno più familiarità. Per questo una radio può essere altrettanto importante, e forse di più, dei blindati, dei fucili mitragliatori, dei posti di blocco. Costruire le menti è stato sempre più importante che costruire le fortezze. La filosofia è chiara: affiancare al contributo militare e assistenziale anche investimenti economici e infrastrutturali che consentano all’area travagliata dal conflitto di riprendere il passo della pacifica convivenza e di avviare il processo che potrà portarla a tutti gli effetti in Europa, disinnescando il rischio di ulteriori focolai di guerra. Se è vero che il principio del Peace-keeping è quello di impegnarsi per evitare ogni forma di conflitto, allora è urgente e importante che i caschi blu dell’informazione si impegnino a portare avanti in tempo di pace le idee maturate nell’emergenza.
DA IDEA NASCE IDEA
L’altra proposta in elaborazione, lanciata dai Caschi blu dell’informazione, è quella di un Osservatorio permanente dei media per monitorare sempre e ovunque la realtà dell’informazione in modo scientifico e professionale. Esiste già da due anni, con sede a Firenze, l’Osservatorio internazionale sulla libertà di informazione, promosso da alcune associazioni indipendenti e sostenuto tra gli altri dalla FNSI. Ma solo conoscendo e comprendendo quanto accade sempre e normalmente, e non solo nei casi di violazioni palesi di diritti, si può lavorare per tutelare una corretta e sana informazione. A questo proposito va detto che si sta formando un team di lavoro legato all’associazione internazionale Planet che, in un seminario tenutosi a Genova il 29 ottobre 1999, ha chiamato a raccolta tutti i gruppi o gli organismi interessati a creare un punto di osservazione dei media. A sollecitare lo studio e l’analisi del funzionamento dei media non solo le guerre ma anche, ad esempio, il
ruolo che in Italia e in altre parti del mondo ha svolto e sta svolgendo il sistema dei media nei processi di trasformazione e di ristrutturazione della politica. Esistono in Italia varie iniziative che segnalano una crescente attenzione al sistema dei media sia in ambito universitario, sia nel campo dell’associazionismo e delle organizzazioni non governative. Sembra si stia diffondendo davvero la percezione che il nostro prossimo futuro sarà sempre più condizionato dai mezzi di informazione e comunicazione e che si stia gradualmente affermando l’esigenza di intervenire in un settore così delicato e strategico. Resta da dire che il Forum nazionale di Gubbio è stata un’occasione particolare
per i giornalisti italiani perché per la prima volta si sono ritrovati i rappresentanti di tutte le realtà dell’informazione a confronto insieme. Ma si deve aggiungere che, oltre ai personaggi già citati, hanno partecipato anche docenti universitari di mass media, giornalisti stranieri del calibro di Daniel Williams del Washington Post o con un ruolo trasversale come Bettina Peters, vicesegretario generale dell’Ifj, il sindacato internazionale dei giornalisti. La ricchezza di un dibattito sostenuto a questo livello e soprattutto varcando i confini nazionali ci fa pensare che i Caschi blu dell’informazione abbiano ragione di esistere anche come Caschi blu della comunicazione. Ogni guerra produce un’accelerazione sul piano tecnologico. Vogliamo credere che la guerra del Kossovo possa aver provocato anche un’accelerazione sul piano della consapevolezza dell’importanza dell’informazione e della comunicazione. Senz’altro ci ha chiamato a riflettere in modo particolare sul fatto che le prime vittime dei conflitti sono i diritti umani e le notizie e che l’humus più fecondo per le guerre è proprio la disinformazione. E’ triste trarre insegnamenti dalla drammatica realtà delle armi che, seppure moderne e sofisticate, restano strumenti di morte. Ma a questo proposito è doveroso sottolineare che sarebbe molto più avvilente pensare che il dramma si è compiuto, che tanti convegni sono stati fatti ma che non siamo in grado di trattenere insegnamenti utili per il futuro. In questo senso, primo dovere dei Caschi blu dell’informazione è tenere aperto il dibattito, lo scambio di idee, di propositi e di esperienze. L’invito è per tutti attraverso il sito già citato. La convinzione di fondo è sempre la stessa: la comunicazione può rappresentare in ogni situazione una preziosa occasione di crescita delle persone e del livello di umanità dei loro interscambi e rapporti.

Testo dell’intervento in inglese:
CASCHI BLU DELL’INFORMAZIONE: A TASK FORCE OF INFORMATION KEEPERS
Ensuring information in the world could contribute in a substantial way to rebuild or to mantain the peace. Often the weapons are misunderstanding, no knowledge, censorship, propaganda too. That´s why it sprung up the idea to have „I Caschi blu dell´informazione“, „a task force of informationkeepers“.
The idea was from a group of opinion leaders and journalists (Alberto Abruzzese, Lucia Annunziata, Giulio Anselmi, Bocchini, Bolchi, P.Borgomeo, Giampiero Gamaleri, Marcelle Padovani, Pulcini, Serventi-Longhi, Fausta Speranza, Sergio Zavoli, Franco Zeffirelli).
It was presented in Rome on may 1999 at the side of Foreign Press Association that joined the iniziative. The aim is to arrive in every conflict area (and in the world there are so many running tragedies) as a task force for humanitarian help, to defence information in that area and to open a channel to ensure exchange of news in every way.
The theorical idea needs realising in a concrete way so the hour is struck to launch a project. First of all „I Caschi blu dell´informazione“ tried to put themselves in contact with other promoters of similar projects, first of all in Italy. They discovered „The Mega chip“ project by Planet (an indipendent association for cultural exchange in the world) and Formin (a Forum of humanitarian and volontary organizations as Amnesty International Italia).
Their aim is to create a global Observatory for the Media to monitorate what is happening. It could be the first step.
A meeting is organised in September, exactly few days before the Third ONU Assembly for population, to present the iniziative in a so high side.
In the same time „I Caschi blu dell´informazione“ presented the idea to the European Institute for the Media, the core of communication studies in Europe. For the high professional standard of the Institute „I Caschi blu dell´informazione“ are sure that the project could soundly go on, if it is worth, in the best way.