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Brexit: scongiurare il no deal non può bastare
di Fausta Speranza
L’ipotesi di una Brexit no deal era davvero spettrale. Ora che l’accordo sulle relazioni commerciali future tra Unione europea e Regno Unito è stato raggiunto, alla vigilia di Natale, è lecito dirlo. La sicurezza ostentata dal premier britannico Johnson era di facciata e il piano B che si diceva pronto a Bruxelles non era sufficiente a evitare il caos assoluto.
Di fatto, si è andati oltre i termini ragionevoli di metà dicembre, che avrebbero permesso le ratifiche dei vari parlamenti in tempi adeguati all’entrata in vigore il primo gennaio 2021, proprio perché, come in tutti i negoziati che si rispettino, c’è chi ha bluffato. Praticamente fuori tempo massimo, nasce un’intesa basata su un patto originale: “a zero dazi e zero quote”. Per il momento significa scongiurare il dramma alle frontiere e una guerra commerciale, ma poi arriverà il momento di capire se non sarà nel prossimo futuro anche a “zero vincitori”.
Anche se Johnson ha tirato fuori il Regno Unito dalla preoccupante impasse in cui si è ritrovato quattro anni dopo il referendum, per Londra parlare di vittoria significa continuare a bluffare. Significherebbe dimenticare che dal referendum si sono già persi 60 miliardi di Pil, che le banche sono scappate dalla City, che le case automobilistiche straniere hanno chiuso impianti nel Regno Unito, o sostenere che abbandonare l’Erasmus sia una conquista. Per i 27 Paesi che restano membri Ue, immaginare di aver chiuso la partita con 2000 pagine di cavilli, che tutelano un giro di affari annuale stimato sui 668 miliardi di sterline, è un’illusione, ma soprattutto pensare di accontentarsi di una menomazione, seppure meno dolorosa, senza rilanciare con un meditato piano di riassestamento e bilanciamento interno sarebbe colpevole.
C’è l’incognita populismo che richiama alla mente lo scandalo Cambridge Analytica. Se in questo momento indubbiamente a restare orfano è il Regno Unito, non c’è dubbio che cercherà “padrini” e “madrine” e la sua solitudine è anche la sua agilità. Bisognerà capire però se si affiderà di nuovo al populismo di Johnson – dopo essersi affidato a quello espresso da Farage e dal suo Partito per la Brexit – così come ha fatto con una maggioranza schiacciante alle elezioni di luglio 2019, nel momento della barca in secca. Un populismo che viene da lontano: dalla campagna pro Brexit, alimentata anche abbondantemente dalle fake news. Lo scandalo Cambridge Analytica scoppia a maggio 2018, meno di due anni fa ma sembra già dimenticato. Andrebbero riletti gli articoli del Guardian e del New York Times che hanno dimostrato l’uso scorretto per propaganda politica di un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook, da parte dell’azienda di consulenza e per il marketing online chiamata Cambridge Analytica. La vicenda ha confermato ancora una volta quanto Facebook fatichi a tenere sotto controllo la gestione dei dati ma anche che Cambridge Analytica ha avuto importanti rapporti con alcuni dei più stretti collaboratori di Donald Trump, soprattutto durante la campagna elettorale statunitense del 2016 che lo ha poi visto vincitore. La storia ha molti risvolti e anche dopo le udienze di fronte al parlamento britannico e le promesse del fondatore di Facebook Zuckerberg di maggiore controllo, alcuni aspetti sono rimasti da chiarire, compreso l’effettivo ruolo di Cambridge Analytica ed eventuali suoi contatti con la Russia e le iniziative per condizionare le presidenziali statunitensi e il referendum sulla Brexit nel Regno Unito.
Un populismo che David Cameron, dopo sei anni a Downing Street, aveva sottovalutato. Era premier dal 2010 e nelle sue intenzioni il referendum fissato il 23 giugno 2016 avrebbe dovuto tacitare una volta per tutte gli euroscettici e invece ha sancito la Brexit. Camerun era tanto sicuro di veder vincere il remain da rifiutare la proposta dei costituzionalisti che chiedevano di non votare con una maggioranza semplice. Non aveva considerato il ruolo dei social pro leave e la pressione del partito di Farage, espressione di un’ultra destra che si piazzerà come primo partito britannico, con il 32 per cento, alle elezioni europee di maggio 2019, prima di scomparire come forza politica interna. In ogni caso, alle dimissioni di Cameron subentra Theresa May, già leader del partito conservatore, politica di professione. Sarà premier dal 13 luglio 2016 al 24 luglio 2019 ma non riuscirà ad andare oltre l’accordo di recesso nel negoziato con l’Ue. Londra non era ancora con l’acqua alla gola: aveva un anno di transizione per farlo e si è affidata a Johnson. Bisogna vedere se Johnson farà dimenticare agli inglesi tutto il percorso e saprà far accettare gli indubbi sacrifici che li aspettano anche avendo scongiurato la Brexit no deal. E soprattutto avrà a che fare con la Scozia, ancora non rassegnata alla Brexit, che rilancia l’idea del referendum per l’indipendenza.
Per l’Unione europea c’è la soddisfazione di aver difeso punti cruciali come l’apertura del confine irlandese – che significava la difesa dell’Accordo di pace del Venerdì Santo – e il doveroso adeguamento a normative comuni essenziali come quelle sul clima, il cosiddetto level playing field. Il terzo punto irrisolto fino alla fine è stato quello relativo alla pesca in acque territoriali che tornano al Regno Unito: c’erano le richieste in particolare della Francia, ma tutto faceva pensare che un compromesso era possibile. Non si trattava, infatti, di una questione di principio come per le altre due. Di fatto è stato l’ultimo nodo ad essere sciolto grazie a una sorta di moratoria concessa da Londra: i pescherecci dei Paesi Ue potranno mantenere, per un periodo di cinque anni, i due terzi dei diritti di pesca nelle acque territoriali britanniche garantiti fino ad ora. In ogni caso, per Bruxelles il successo più grande è stato la compattezza dei 27: abbiamo assistito a un negoziato condotto da Michel Barnier dall’inizio alla fine senza che nessuno mettesse in dubbio le sue mosse. Paradossalmente nel momento in cui veniva meno un mattone, il resto della costruzione non dimostrava crepe. Ha coinciso con la straordinaria unità messa in campo nella lotta al Covid-19, ma in questo caso l’eccezionalità della pandemia è fuori confronto.
Ma la vera vittoria dell’Unione europea sarebbe rilanciare. Al vertice di dicembre, sono state assunte due decisioni importantissime: una sul Next Generation Eu, e l’altra sulla coraggiosa riduzione delle emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030. In definitiva, con la risposta alla crisi sanitaria, l’Europa ha ritrovato slancio politico, mettendo in campo 1800 miliardi di euro destinati a progetti e riforme a favore della salute e del welfare dei cittadini e avviando davvero il green deal. Ma la decisione è stata possibile solo grazie a compromessi, peraltro su aspetti non direttamente legati ai fondi e al bilancio che erano il punto centrale all’ordine del giorno. C’è stata infatti la promessa, non indolore, di maggiore libertà fiscale all’Olanda ed è stato accettato un posticipo per la verifica sullo stato di diritto per Polonia e Ungheria. E’, dunque, nei processi decisionali che l’Ue può e deve fare progressi, in alcuni casi proprio grazie alla Brexit. L’invalidante freno del voto all’unanimità è stato, infatti, sempre strenuamente difeso dal Regno Unito. E’ il momento di superarlo per evitare di vincolare alcune decisioni a possibili “ricatti” su altre questioni. Inoltre, c’è da studiare per ridisegnare i rapporti con la Cina nel dopo Trump e senza il Regno Unito, considerando che Pechino ha orchestrato di recente il più grande patto commerciale della storia: riguarda due miliardi di persone e comprende Paesi, come la Cina e il Giappone, storicamente in forte rivalità, la Corea, le nazioni del sud-est asiatico dell’Asean, ma anche Australia e Nuova Zelanda. Potrebbe coprire quasi un terzo del Pil mondiale. Immaginare che di fronte a questi nuovi orizzonti i Paesi del Vecchio Continente si facessero una guerra dei dazi era davvero impensabile. Verrebbe da dire che più che storico, come è stato definito, l’accordo commerciale tra Ue e Regno Unito di Natale 2020 è il passo indietro decisivo in un percorso verso il baratro. Inoltre, tutto dipenderà dai prossimi sviluppi.
L’Occidente assiste al più grande patto commerciale del mondo
di Fausta Speranza
Dogane che aprono e dazi che cadono in un bacino commerciale di due miliardi di persone e tra Paesi, come la Cina e il Giappone, storicamente in forte rivalità. L’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda hanno raggiunto un accordo di libero scambio che potrebbe coprire quasi un terzo del Pil mondiale. Ne resta fuori l’India nazionalista del presidente Modi, mentre gli Stati Uniti devono capire se riscopriranno l’affaccio sul Pacifico. In piena pandemia, l’Asia cerca di respirare aria nuova di ripresa economica e per l’Europa dovrebbe essere un utile memorandum: è nel vecchio continente il più integrato dei mercati mondiali.
Si chiama Regional comprehensive economic partnership (Rcep) ed è stato siglato virtualmente domenica 15 novembre. Da solo pesa di più, in termini di attività economica, non solo dell’Unione europea e del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp) – di cui fanno parte Paesi di Asia, Pacifico, Sud America, oltre a Canada e Messico – ma anche dell’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada (Usmca). I Paesi firmatari sperano di poter rilanciare l’economia dell’area fortemente provata dalla pandemia di Covid-19. Per il momento, è stata più che positiva la risposta dei mercati: Borsa di Tokyo e azionario Asia-Pacifico si sono evidenziati subito in rialzo, soprattutto i titoli del settore auto e tecnologici.
La Cina, che già rappresenta la seconda economia al mondo, potrebbe migliorare la sua posizione per dettare le regole commerciali della regione. E l’accordo potrebbe aiutare Pechino a ridurre la sua dipendenza dai mercati e dalla tecnologia occidentale, in un momento in cui i rapporti con Washington si sono fatti particolarmente tesi. Il capo del governo cinese Li Keqiang ha salutato l’accordo come una vittoria contro il protezionismo. “La firma del Rcep non è solo una pietra miliare della cooperazione regionale dell’Asia orientale, ma anche una vittoria del multilateralismo e del libero scambio”, ha affermato Li. Dunque, la Cina con questo accordo rilancia la scommessa di farsi paladina del multilateralismo e della globalizzazione. Il Coronavirus ha rappresentato un colpo anche per Pechino, ma il Dragone si è già rialzato: mentre l’accordo veniva firmato, la Banca centrale cinese ha immesso denaro contante nel sistema finanziario per un totale di 800 miliardi di yuan. Sono circa 121 miliardi di dollari “iniettat” nel mercato attraverso la linea di credito a medio termine (Mlf) dalla People’s Bank of China. Lo strumento Mlf è stato introdotto nel 2014 per aiutare le banche commerciali e di policy a mantenere la liquidità, consentendo loro di prendere in prestito dalla Banca centrale titoli come garanzia.
Gli Stati Uniti d’America, che aspettano che giuri il 46esimo presidente, sono fuori dalle dinamiche di intesa nell’area già da tre anni. Il presidente Barack Obama aveva sostenuto la Trans-Pacific Partnership (Tpp), il progetto di trattato di regolamentazione e di investimenti regionali che fino al 2014 ha visto seduti al tavolo delle negoziazioni dodici Paesi dell’area pacifica e asiatica e cioè Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti, Vietnam. Ma nel 2017 Donald Trump ha voluto il ritiro di Washington. Il Tpp si è poi evoluto nel cosiddetto Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), ma Trump ha continuato a sostenere una linea di intese praticamente bilaterali. Ora che la Casa Bianca sarà guidata dal democratico Joe Biden è possibile che Washington cerchi un impegno di tipo diverso dal predecessore Trump nel sud-est asiatico e in tema di sanzioni commerciali imposte alla Cina.
E’ rimasta distante dall’accordo di cooperazione l’India del presidente Modi, che ha optato per forme di nazionalismo economico, e non solo. In questi anni il più grande alleato di New Delhi è stato il presidente statunitense Trump con il suo motto America first. La prospettiva però dovrebbe cambiare per Washington. Dopo il voto del 3 novembre si attende il cambio di guida alla Casa Bianca e con l’avvento di Joe Biden, sostenitore della logica del multilateralismo, si riaprono diverse partite. Non si può ipotizzare cosa si muoverà a New Delhi, ma è certo che nell’immediato risentirà del venir meno dell’alleato sul piano internazionale.
Al di là degli interessi di ogni Paese, l’accordo suona vincente perché prevede che si ritrovino insieme Paesi di regimi politici diversi. Non è affatto scontato ritrovare “complici” nella cooperazione economica regionale Paesi come la Cina e il Giappone, che tra l’altro storicamente sono protagonisti di dispute e di contese. Non si può dimenticare la questione delle isole Diaoyu/Senkaku, un patrimonio strategico rivendicato da Tokyo e da Pechino. Sono disabitate ma nelle acque circostanti si trovano importanti riserve ittiche e minerarie. E soprattutto sono situate all’interno della rotta marittima in cui transita oltre il 90 per cento del petrolio e del gas naturale diretti verso la Cina ed il Giappone. Come spiegava il filosofo ed economista scozzese Adam Smith, nel suo articolato saggio La ricchezza delle nazioni, là dove ci sono vincoli e scambi commerciali è più difficile che gli Stati arrivino a conflitti. Dunque, sotto questo punto di vista si deve parlare di successo.
Tokyo e Seul hanno ritenuto di mettere da parte i timori nei confronti di Pechino. Anche l’economia giapponese si mostra vitale dopo i danni provocati dalla pandemia del coronavirus. Secondo i dati pubblicati nelle ultime 24 ore, il Pil è cresciuto nel terzo trimestre al ritmo annualizzato del 21,4 per cento. Su base trimestrale, l’economia giapponese è cresciuta del 5 per cento, meglio del 4,4 per cento atteso dagli analisti. C’è da dire che i flussi commerciali e di investimento all’interno dell’Asia si sono notevolmente ampliati negli ultimi dieci anni, anche in risposta al braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina, che hanno imposto dazi per miliardi di dollari sulle reciproche esportazioni. E il punto è che l’accordo Rcep, che prevede l’abbassamento di imposte in molti settori, è abbastanza ampio da adattarsi alle esigenze disparate di Paesi membri diversi come Birmania, Singapore, Vietnam e Australia.
Non si può certamente parlare di accordo commerciale tenendo presente l’idea del mercato comune europeo. A differenza dell’Ue, e peraltro anche del Cptpp, il Regional comprehensive economic partnership non prevede di stabilire standard unificati in materia di lavoro o di ambiente, né impegna i Paesi ad aprire ad altri servizi. Sancisce piuttosto regole per il commercio che faciliteranno gli investimenti e altre attività nella regione. Dunque, niente a che vedere con l’integrazione economica che ha raggiunto l’Ue, frutto di un processo di anni, che ha preso il via nel 1950 con la Dichiarazione Schuman e poi, concretamente, con la Ceca, la cooperazione in materia di carbone e di acciaio. Poi è stata storia di varie forme di collaborazione economica fino al mercato comune e, alla fine negli anni Ottanta, ad un mercato unico. E se oggi è d’obbligo salutare come si deve l’accordo che dal Sud Est asiatico abbraccia la Nuova Zelanda, va anche ricordato, però, che al mondo non c’è un altro mercato integrato come è quello europeo, perfino più integrato di quello degli Stati Uniti d’America. Inoltre, va ricordato che in Europa il meccanismo di scambi fa capo alle istituzioni comunitarie: in primis la Commissione, ma anche l’Europarlamento e il Consiglio, che dettano le linee. Politiche commerciali, economiche, perfino monetarie non sono più nelle mani dei singoli Stati. E c’è poi un altro fattore importante di forza: la Corte europea di giustizia, che ha anche il potere di dirimere le controversie di tipo commerciale, tra Stati oppure tra diversi attori delle dinamiche commerciali. Ovviamente per quanto riguarda i Paesi europei parliamo di un cammino lungo e articolato che dunque non è paragonabile al passo fatto nell’accordo di cooperazione regionale tra i 14 Paesi in questione, nel cui orizzonte non si intravede nulla di tutto questo.
Visto che a livello mondiale si ridisegnano equilibri commerciali importanti, l’Ue può e deve riscoprire tutte le sue potenzialità. Lo sforzo iniziale per affrontare la crisi sanitaria ed economica è stato notevole, l’Ue ha messo in campo risorse mai ipotizzate prima e lo ha fatto indirizzandole praticamente direttamente ai cittadini. Bruxelles chiede ai singoli Stati riforme importanti che non possono essere disattese, ma ci sono anche sfide decisive da non mancare: in un modo o nell’altro si chiuderà la Brexit – a fine dicembre termina il periodo di transizione con o senza accordo sulle relazioni future – e può essere l’occasione giusta per abbandonare l’unanimità su molte questioni sulle quali serve piuttosto decisionalità. E visto che Londra era la prima ad opporsi al superamento dell’unanimità, il momento è propizio. Inoltre, si riapre con Biden la partita del multilateralismo e dunque è il momento di andare oltre le guerre dei dazi che tante energie hanno distolto da questioni fondamentali transnazionali come la rincorsa agli armamenti o l’ambiente. Perché non si parli solo di cooperazione economica.
Competenza e gentilezza: l’eredità di Massimo Campanini
Competenza e gentilezza d’animo: l’eredità di Massimo Campanini
di Fausta Speranza
“Non c’è grandezza dove non c’è semplicità, bontà e verità”. Così diceva Lev Tolstoj e queste parole dello scrittore russo possono contribuire a ricordare Massimo Campanini, lo studioso di fama mondiale scomparso il 9 ottobre.
E’ stato tra i più autorevoli esperti di Islam e del Vicino Oriente, ma chi lo ha conosciuto da vicino ricorda un uomo colto che non ostentava la sua impareggiabile competenza su questioni così complesse, un insegnante generoso che non disdegnava chi si accostava al suo sapere, un intellettuale appassionato ma non ripiegato sulle proprie convinzioni.
La ricerca accademica è stata arricchita da oltre 50 libri e centinaia di pubblicazioni di Massimo Campanini, che era nato a Milano il 3 novembre 1954, si era laureato in Filosofia nel 1977 con una tesi su Giordano Bruno, e si era poi diplomato in lingua araba nel 1984.
Tra i più apprezzati storici del Vicino Oriente arabo contemporaneo, nonché storico della filosofia islamica, è stato professore in varie prestigiose Università: a Milano, a Urbino, a Trento, all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, a Pavia. Membro dell’Accademia Ambrosiana “Classis Orientalis Araba”, nel 2016-2017 ha fatto parte del Consiglio per l’Islam italiano istituito presso il Ministero dell’interno.
Ha sviscerato aspetti storici o contemporanei dell’universo islamico affrontando, tra l’altro, la questione del rapporto tra politica e islam. Tra le sue principali opere ricordiamo: “Il pensiero islamico contemporaneo”; “Storia del Medio Oriente”; “Ideologia e politica nell’Islam”; “I sunniti”; “Storia dell’Egitto dalla conquista araba ad oggi”; “Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo”; “L’Islam, religione dell’Occidente”. Nel 2019 ha pubblicato “I giorni di Dio. Il viaggio e il tempo tra Occidente e Islam” e “Pensare nell’Islam”. In questo 2020 in cui ci ha lasciato, ha firmato “Maometto, l’Inviato di Dio” e una nuova edizione di “Il Corano e la sua interpretazione”.
Ha pubblicato per i tipi di diverse case editrici e da qualche anno dirigeva presso l’editore Jaca Book di Milano la collana di pubblicazioni specialistiche ‘Nell’Islam’. Si tratta della prima collana a comparire nel panorama editoriale italiano su questi temi, con testi di filosofia, religione, storia, musica, letteratura, arte e attualità, tradotti, commentati e curati da studiosi e giovani ricercatori di differenti ambiti e Paesi.
La firma di Massimo Campanini compare in uno dei contributi che arricchiscono l’edizione commentata della nuova enciclica di Papa Francesco Fratres omnes, per i tipi di Scholé, che si trova in libreria dal 12 ottobre. Un testo che ha l’introduzione del teologo Bruno Forte e che propone le riflessioni di studiosi esperti delle tre diverse religioni abramitiche. Con loro, su queste pagine, Campanini parla di Fratellanza umana, un valore che gli stava profondamente a cuore.
In tutti i suoi impegni, Massimo Campanini ha profuso la conoscenza e la passione che lo hanno contraddistinto come studioso e ha espresso il garbo e la gentilezza d’animo per il quale rimane nella memoria e nel cuore di chi lo ha conosciuto. Per sua volontà, i funerali si sono svolti in forma privata, ma l’omaggio è corale e va da Oriente a Occidente.
A Beirut fumata nera sul governo
di Fausta Speranza
Non si vede l’orizzonte in Libano. La matassa politica è troppo aggrovigliata e il primo ministro designato, Mustapha Adib, rinuncia a formare il tanto atteso nuovo esecutivo che doveva traghettare il Paese fuori dall’emergenza dopo le esplosioni al porto di Beirut e fuori dalla soffocante crisi economica e finanziaria. Adib, un diplomatico poco conosciuto in patria fino al mandato conferitogli il 31 agosto, ammette la sconfitta chiedendo “scusa al popolo libanese”. Il punto è che, mentre la popolazione è allo stremo, la classe politica rischia di navigare a vista ancora per mesi prima che si sblocchi l’impasse che tiene in ostaggio il più piccolo Paese dell’Asia nella più strategica posizione del Vicino Oriente.
E’ evidente come stia vacillando l’accordo di condivisione del potere che finora, con il termine “confessionalismo”, ha assicurato un fragile equilibrio tra tutte le parti che fanno capo alle tre principali confessioni religiose, delle 18 riconosciute dalla Costituzione. E’ altrettanto evidente la difficoltà della sfida: tutti i principali partiti politici, legati alle comunità cristiana, sunnita e sciita, devono concordare decisioni importanti, compresa la composizione di qualsiasi futuro gabinetto anche prima che sia sottoposto all’approvazione parlamentare. Ma in questo momento sono fuori di dubbio anche la fragilità dell’equilibrio e soprattutto l’esasperazione della popolazione.
Gli sforzi di Adib per elaborare una nuova proposta sembra siano stati bloccati nei fatti dai due principali partiti che rappresentano la grande comunita’ sciita del Paese: Amal e Hezbollah. Le due formazioni non hanno voluto rinunciare, come richiesto da Adib, al controllo del ministero delle Finanze.
Non sono bastate le pressioni internazionali – a partire dal presidente francese Macron e dal presidente del Consiglio dei ministri italiano Conte – perché si formasse un nuovo esecutivo il prima possibile, con l’obiettivo di attuare le urgenti riforme. Il fine non è da poco: sbloccare miliardi di dollari in aiuti esteri. In un discorso televisivo, Adib ha espresso il suo rammarico parlando della sua “incapacita’ di realizzare le sue aspirazioni per una squadra riformista”. La questione rischia di porsi al di là delle capacità o incapacità. Se tutte le parti concordano sulla necessità di riformare, non c’è più accordo quando si discute anche solo degli equilibri della squadra “riformatrice”.
Le scuse possono far onore ad Adib, ma tutte le parole perdono di senso a sette settimane dalla drammatica esplosione al porto, che ha causato 200 morti e 6000 feriti, e a sette mesi dalla dichiarazione di default da parte del governo, costata alla popolazione il blocco dei conti bancari, la svalutazione dell’85 per cento della moneta, l’inflazione giunta ormai al 700 per cento. Il rappresentante dell’Ordine di Malta nel Paese dei cedri, Marwan Senhaoui, è chiaro: manca tutto – ci ha detto in un incontro nei giorni scorsi – dal cibo alle medicine, dall’elettricità alla benzina: “Metà della popolazione è ormai al di sotto della soglia di povertà o appena al limite”. Nel frattempo, ufficialmente nell’area del porto l’esercito ha rinvenuto oltre una tonnellata di articoli pirotecnici. I media parlano di diversi depositi di armi.
Il tempo che passa stride con l’urgenza e stride con gli appelli decisi e accorati del Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï: “Salvare la città di Beirut al di là della politica e dei conflitti”; “il Libano non è in grado di far fronte a questa catastrofe umana”. E stride con l’eco dell’iniziativa di Papa Francesco: la giornata di preghiera e di digiuno con la visita del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, venerdì 4 settembre, a un mese esatto dalla deflagrazione che ha ricordato al mondo quale polveriera rappresenti il Libano. Anche se non è solo questo: Francesco ha ricordato che, come diceva Giovanni Paolo II, il Libano sa essere “più di un Paese, un messaggio di dialogo e di fraternità”.
Il momento è delicatissimo e la gravità emerge nel commento dell’inviato delle Nazioni Unite, Jan Kubis, che, all’annuncio del passo indietro di Adib, ha esclamato: “Un tale grado di irresponsabilita’, quando e’ in gioco il destino del Libano e del suo popolo!”. In realtà in ballo c’è un territorio chiave, punto nevralgico di un contesto mediorientale che non si è mai presentato così militarizzato dagli anni dei conflitti mondiali, teatro di confronti per corrispondenza di altre potenze regionali e di contrasti dall’onda lunga tra Oriente e Occidente.
- 26-09-2020
- Autore: Fausta Speranza
- Giornalista e Scrittrice
Ancora fiato sospeso in Libano
Attesa per la sentenza sull’assassinio di Rafīq al-Ḥarīrī e preoccupazione per le possibili ripercussioni
di Fausta Speranza
Il Libano rischia un’altra devastante onda d’urto. Preoccupano le possibili reazioni al verdetto – previsto il 18 agosto – sull’omicidio dell’ex primo ministro Rafīq al-Ḥarīrī, avvenuto nel 2005.
Il processo del Tribunale Speciale voluto dall’Onu a L’Aja vede imputati membri del movimento Hezbollah. Il leader Nasrallah ostenta indifferenza e chiede “pazienza” ai suoi, mentre il figlio di al-Ḥarīrī, Saad, fa sapere che attenderà la sentenza nei Paesi Bassi. Dopo le devastanti esplosioni del 4 agosto – oltre 220 morti e 7000 feriti – e la caduta del governo, la settimana seguente, l’equilibrio del Paese del Levante, modello di convivenza ma in preda da mesi a una profondissima crisi economica e sociale, si presenta precario. Antiche tensioni potrebbero riaccendersi andando ad infiammare la disperazione crescente di una popolazione ridotta alla fame.
La sentenza del Tribunale Speciale voluto dalle Nazioni Unite per la prima volta per un atto terroristico – e non per crimini in contesti di guerra – difficilmente si potrà davvero liquidare con l’indifferenza. Raīq al-Ḥarīrī, che era stato capo del governo dal 1992 al 1998 e dal 2000 al 2004 e che stava per tornare ad assumere l’incarico, è stato ucciso con altre 21 persone in una esplosione sul lungomare di Beirut il 14 febbraio 2005. Anche se ha inaugurato la stagione del proliferare del debito pubblico,che ha portato al default finanziario a marzo scorso, viene ricordato dalla maggior parte della popolazione come il leader politico che ha saputo regalare al Paese il periodo recente di maggiore stabilità. “Niente a che fare con il figlio”, ci si sente dire in Libano dalla maggior parte della popolazione, che non perdona a Saad lo scandalo delle sue spese pazze: sposato con tre figli, è stato calcolato che abbia fatto regali in poco tempo per 16 milioni di dollari all’amante, la modella sudafricana Candice van der Merwe, che ha raccontato tutto sotto la pressione dei controlli fiscali per il suo nuovo tenore di vita. Sembra fossero soldi del patrimonio di famiglia, ma spenderli così mentre il Paese passava da un ammanco e un disservizio all’altro, nell’impossibilità di far fronte ai debiti internazionali e con continui blackout energetici, è molto difficile da tollerare anche per un popolo abituato a scandali e corruttele. In ogni caso, la sentenza dovrebbe punire chi ha privato il Paese del padre Raīq: un sunnita passato alla storia come sostenitore dei cristiani, che in tante interviste che abbiamo realizzato in Libano abbiamo sentito definire “mister Lebanon”,perché considerato il padre del Libano contemporaneo migliore. La sua uccisione è stato un momento storico: ha provocato, tra l’altro, una presa di posizione netta e forte della popolazione contro le truppe siriane che occupavano il Paese da più di 29 anni e che sono state costrette al ritiro. La posizione della Siria, da sempre profondamente coinvolta nella politica libanese, nonché sostenitrice del movimento divenuto poi partito politico Hezbollah, è stata seriamente messa in discussione.
“Per noi sarà come se nessuna decisione fosse mai stata annunciata”, ha dichiarato in questi giorniil leader di Hezbollah, Sheikh Hassan Nasrallah, chiedendo ai suoi “indifferenza” per il verdetto, ma aggiungendo anche: “Se i nostri fratelli vengono condannati ingiustamente, come ci aspettiamo, manterremo la loro innocenza”. Ha avvertito che “alcuni tenteranno di sfruttare il Tribunale speciale per prendere di mira la resistenza e Hezbollah” e ha esortato i suoi sostenitori a essere “pazienti”, ma ha anche ribadito di rifiutare la giurisdizione e l’indipendenza del Tribunale.
Una sentenza in piena crisi politica
Due governi caduti sotto il tiro della piazza in dieci mesi. In seguito a settimane di accese manifestazioni contro la corruzione e il carovita, a ottobre scorso, ha fatto un passo indietro l’esecutivo del primo ministro Saad al-Ḥarīrī, proprio il figlio del politico ucciso. Le proteste sono proseguite perfino in tempo di lockdown e sono esplose, con tutta la rabbia popolare, a inizio mese, quando 2,7 tonnellate di nitrato di ammonio sono deflagrate nella capitale. La conseguenza è stata la caduta dell’altro governo, nato a gennaio e guidato dall’ingegnere e accademico, considerato un tecnico, Hassan Diab. Le cause delle esplosioni restano tutte da accertare. Di certo c’è solo che la pericolosità di quel composto chimico, utile per l’agricoltura ma anche per produrre esplosivo, era stata segnalata a tutte le autorità competenti, a partire dal ministero della Difesa e da quello dell’Interno.
Al momento, mentre l’esecutivo Diab resta incaricato solo del disbrigo delle formalità, Nasrallah chiede la formazione di un governo di unità nazionale. Ha liquidato l’idea di un “governo neutrale” come una “perdita di tempo” per un Paese dove il potere e l’influenza sono distribuiti secondo le confessioni religiose: in base al dettato costituzionale, la carica di presidente spetta ai cristiani maroniti, quella di primo ministro a un sunnita e quella di presidente del parlamento a uno sciita. In questo equilibrio, Hezbollah vorrebbe riproporre “un governo di unità nazionale, e se ciò non è possibile, allora un governo che assicuri la più ampia rappresentanza possibile per politici ed esperti”. E’ la proposta difesaanche da Nabīh Barrī, che dal1980 è capo politico del movimento a predominanza sciita Amal e dal 1990 è presidente del Parlamento. Barrī non ha nascosto il fastidio per l’ipotesi di elezioni anticipate fatta dal dimissionario Diab.
La voce della piazza
Una sorta di rimpasto tra gli stessi leader di sempre, fosse anche con qualche innesto di esperti o tecnici, non è quello che chiede la popolazione, che a gran voce reclama il rinnovo del Parlamento, ipotizzando anche un possibile cambio al vertice perfino per il capo dello Stato. Lo ripete in questi giorni Samy Gemayel, presidente del partito cristiano Kataeb, che dice di ritenere che “il governo dimissionario, e tutte le parti che lo sostengono, siano responsabili del disastro e dovrebbero essere tutti assicurati alla giustizia”. Gemayel, che l’8 agosto ha rassegnato le dimissioni assieme agli altri deputati del suo partito, spiega che la decisione è stata motivata dalla mancanza di fiducia. Il Libano ha bisogno di “un nuovo governo, indipendente e neutrale”, di “elezioni anticipateche portino a un chiaro cambiamento politico” e di una “indagine internazionale sull’esplosione secondo il diritto internazionale”, ripete Samy Gemayel, che è figlio dell’ex presidente Amine e nipote di Bachir Gemayel, il ministro dell’Industria ucciso in un attentato a Beirut il 14 settembre del 1982.
I rischi di strumentalizzazioni interne e esterne
Ci si chiede come il verdetto potrebbe essere strumentalizzato, da una parte o da un’altra, in funzione dell’attuale cruciale dibattito politico. Vanno considerate le pagine di storia recente, in cui pesano la guerra civile 1975-’90 e la difficile fase di riconciliazione e ricostruzione, i gravi atti terroristici, gli scandali – in particolare quelli bancari – che hanno accompagnato,nell’ultimo anno, la perdita dell’85 per cento del potere di acquisto della lira libanese, il taglio del 35 per cento dei salari, il crollo dell’occupazione. Fino ad arrivare alle devastanti esplosioni che hanno squarciato il porto di Beirut, lacerato le ultime speranze, moltiplicato gli interrogativi. La popolazione è scesa in piazza questa volta davvero scossa e esasperata. Non sono mancati disordini e irruzioni nelle sedi istituzionali e, dopo il passo indietro del governo, è in attesa degli sviluppi. In questo contesto di dinamiche interne cadrà l’annuncio della sentenza, che doveva essere fatto il 7 agosto ma che, per rispetto delle vittimedella tragedia di tre giorni prima, è stato posticipato al 18.
C‘è anche il contesto regionale da considerare per questo piccolo Paese crocevia da sempre: basta ricordare che da Tiro e Sidone, città più volte citate nelle Scritture per il passaggio di Gesù, partirono le navi dei fenici che fondarono Cartagine. Oggi lo scenario geopolitico che va dal Medio Oriente al Nord Africa è infiammato. Non lascia certo ben sperare nel confronto tra sunniti e sciiti che si ripropone nella contrapposizione tra i sostenitori della famiglia sunnita al-Ḥarīrī e la base del movimento sciita Hezbollah. Una contrapposizione parallela a quella tra l’Arabia Saudita, che ha ritirato i suoiinvestimenti a Beirut da quando Hezbollah filoiraniano sta al governo, e la leadership sciita dell’Iran, appunto nemico di Riad. Quello tra sunniti e sciiti resta uno dei nodi cruciali di tutto il Vicino e Medio Oriente e anche un punto fermo del confronto tra Oriente e Occidente.
Spazio ai giovani
Resta un’immagine di speranza: le migliaia di studenti accorsi per affiancare la Croce rossa nel prestare aiuto, riparando i vetri o la porta di persone anziane e sole, spazzando i detriti in zone segnate ma non distrutte. Lo hanno fatto cantando per darsi e dare forza e al loro canto idealmente si sono uniti, anche grazie alla tecnologia digitale, i tantissimi ragazzi libanesi che studiano o lavorano all’estero. Ovunque si distinguono per capacità e forza d’animo. Nel loro canto c’è una richiesta fortissima di giustizia, legalità, lavoro, ma soprattutto di pace. Si tratta di una generazione nata tra le macerie della guerra che si spera terrà lontano il Paese da altre macerie.
La comunità internazionale deve ascoltare i loro appelli, ricordando che oltre ai 250 milioni di euro in aiuti ià stanziati una settimana fa, non c’è solo l’ennesimo impegno che chiede l’Onu, e cioè 565 milioni di dollari per assicurare assistenza sanitaria, cibo e acqua a Beirut. C‘è ancora dell’altro: c’è da fare di tutto per sostenere chi voglia tenere a bada istinti di prevaricazione interni e logiche di guerre per procura.
Coscienza e libertà: 80 anni fa la testimonianza di de Sousa Mendes
di Fausta Speranza
La libertà di coscienza sia rispettata sempre e dovunque. Con queste parole Papa Francesco ha ricordato il diplomatico portoghese Aristides de Sousa Mendes che tra il 16 e il 18 giugno del 1940, disobbedendo alle leggi del suo dittatore, salvò la vita a migliaia di ebrei e altri perseguitati. A ottant’anni di distanza, restano preziose la sua lezione di umanità e la sua testimonianza di libertà interiore.
“Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. E’ quanto si legge nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. E, sul piano giuridico, la libertà di coscienza viene definita come la libertà di coltivare convinzioni interiori e di comportarsi di conseguenza.Coscienza, dunque, fa rima con coerenza, e non è solo questione di sonorità. Se non c’è adesione tra i valori riconosciuti in coscienza e i propri comportamenti non può esserci nessuna vera forma di libertà, piuttosto si è schiavi di qualcuno o qualcosa ai quali si obbedisce più di quanto si risponda a se stessi.
Le scelte di Aristides de Sousa Mendes appaiono, dunque, non solo una grandissima testimonianza di umanità, ma anche una lezione di vera libertà. Il diplomatico portoghese, nato nel 1855 a Cabanas de Viriato in una famiglia aristocratica, dopo una brillante carriera segnata da una significativa esperienza in Belgio, nel 1940, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, viene nominato console di Bordeaux, in Francia. Si trova presto di fronte alla miriade di profughi, tra cui molti ebrei, in cerca di scampo dalla furia omicida nazista. Il governo di Lisbona è guidato in quel momento da António de Oliveira Salazar, amico di Mussolini che nel 1932 aveva instaurato il cosiddetto “Estado Novo”, un regime di stampo fascista. L’ordine è di negare il visto a “stranieri di nazionalità indefinita, contestata o disputata”, o ad apolidi e “ad ebrei, che sono stati espulsi dal Paese di origine o dallo stato di cui hanno la cittadinanza”. In ballo c’è la possibilità di entrare in un Paese neutrale come il Portogallo, che significava la salvezza dalla follia nazifascista.
Il 16 giugno del 1940 il console prende la sua decisione: dare un visto a tutti i rifugiati che lo richiedano senza riguardo a nazionalità, razza o religione. Aiutato dai più stretti collaboratori e dai suoi figli e nipoti, timbra passaporti, assegna visti, usando tutti i fogli di carta disponibili. Organizza una vera e propria catena di montaggio: alcuni addetti sono incaricati di riempire i moduli, altri di apporre la foto per poi passare il documento al dilomatico per la firma e infine al segretario Jose Seabra per il timbro. In tre giorni rilascia 30.000 visti. Tra quanti vengono aiutati dal diplomatico portoghese c’è anche il rabbino di Anversa, Jacob Kruger che a sua volta darà il suo contributo per aiutare gli altri.
Yehuda Bauer, storico contemporaneo, scrive che quel giorno è cominciata “la più grande operazione di salvataggio effettuata da una persona durante la Shoah”. Numericamente non raggiunge quella compiuta dal diplomatico svedese Raoul Wallenberg che strappò alla morte 100.000 ebrei. Ma in questo caso, c’era il pieno sostegno del governo di Stoccolma.
Nel caso di de Sousa Mendes, arrivano presto i primi richiami da Lisbona. Il diplomatico portoghese dichiara a familiari e conoscenti: “Se devo disobbedire, preferisco che sia agli ordini degli uomini piuttosto che agli ordini di Dio e della mia coscienza”. L’8 luglio del 1940 torna in Portogallo e viene punito dal governo di Salazar: viene rimosso dal suo incarico, sospeso per un anno e poi riprende un lavoro di ufficio con uno stipendio dimezzato. La sua patente di guida, rilasciata all’estero, viene ritirata. Aristides e la sua famiglia sopravvivono grazie alla solidarietà della comunità ebraica di Lisbona. Pianificano di raggiungere gli Stati Uniti ma la moglie si ammala e il diplomatico resta a Lisbona. Solo alcuni dei suoi numerosi figli si recano a studiare oltre Oceano e due di loro parteciperanno allo sbarco di Normandia. Aristides muore in povertà il 3 aprile del 1954 nell’ospedale dei Francescani di Lisbona. Nel 1966 gli viene riconosciuto dall’istituto Yad Vahem il titolo di “Giusto tra le nazioni”.
Perché sia riabilitato in Portogallo ci vorrà tempo e una sorta di revisione del processo che si concluderà con una assoluzione per aver “disobbedito per fini umanitari”. Il 13 marzo 1988, quarantotto anni dopo gli avvenimenti di Bordeaux e quattordici anni dopo la fine della dittatura, il Parlamento all’unanimità approva la riabilitazione del console, promuovendolo ambasciatore.
Nel 1990 la città di Montreal, in Canada, gli intitola un parco, seguita l’anno successivo da Bordeaux. Nel 1998 in Francia viene pubblicato il libro “Le Juste de Bordeaux”, e in quello stesso anno il Parlamento europeo onora de Sousa Mendes, conferendogli un’importante onorificenza.
Statue d’Aristides de Sousa Mendes – Bordeaux
Seguono altri riconoscimenti e il 23 febbraio 2000 a Lisbona viene istituita la Fondazione Aristides de Sousa Mendes, alla quale il governo dona un contributo di 50.000 euro. Va ricordato un altro atto significativo: nel 1987, all’ambasciata portoghese a Washington, il presidente della Repubblica portoghese, Mario Soares, consegna ai figli di de Sousa Mendes la decorazione dell’Ordine della libertà. Le imputazioni di allora, “abuso di potere, emissione di visti falsi, non rispetto delle direttive ministeriali” sono cadute. La testimonianza di umanità e di libertà di coscienza di Aristides de Sousa Mendes resta. Ad interpellare altre coscienze.
da Meridianoitalia.TV del 16 giugno 2020
L’impatto della pandemia sulle democrazie latinoamericane
Intervista con la studiosa di America Latina Tiziana Terracini
di Fausta Speranza
L’America Latina, epicentro dell’infezione da coronavirus dalla fine di maggio, fa i conti con la crisi sanitaria ed economica ma anche con l’urto dell’emergenza sul già fragile equilibrio delle istituzioni democratiche. In realtà, i dati registrano una retrocessione da questo punto di vista da quattro anni e non è imputabile solo alle situazioni del Salvador o del Nicaragua. In Brasile, secondo Paese al mondo dopo gli Stati Uniti per i contagi, si sono aperti orizzonti di crisi politico-istituzionali, in Messico è braccio di ferro in tema di patto federale.
La pandemia ha accentuato le criticità e i limiti delle democrazie latinoamericane. Si tratta di Paesi dove già nel corso del 2019 si erano registrate diffuse manifestazioni di forte scontento per le ingiustizie sociali, la corruzione, l’impunità. La diseguaglianza cronica della regione è stata aggravata dall’emergenza Covid-19 che ha toccato proprio i settori già precari: lavoro, salute, educazione. Il punto è che, oltre alla prevista perdita di Pil, come peraltro in tutti i Paesi del mondo, si è andato esasperando il nodo strutturale del continente: un rapporto tra crescita e sviluppo che riesce a penalizzare il secondo fattore anche quando non è mancato il primo.
La permanente instabilità politica e alcuni meccanismi già imbrigliati di governance hanno aperto la strada a crisi politico–istituzionali. E’ accaduto in Brasile, tra tentazioni personaliste e l’implementazione di riforme che aprono interrogativi seri sull’aumento della discrezionalità dell’esecutivo. E’ cambiato per due volte il ministro della Sanità in piena
esplosione dell’infezione da coronavirus, il primo è stato allontanato e il secondo si è dimesso sempre per contrasti con il presidente Bolsonaro. Ma è aspro il confronto anche in ambito di Corte Costituzionale dopo l’allontanamento, su decisione di Bolsonaro, del capo della polizia da sempre stretto collaboratore del noto giurista e politico, già ministro della giustizia Sérgio Moro, in relazione a presunte accuse di malversazione di fondi pubblici rivolte al figlio del capo di Stato Flavio Bolsonaro. Suo fratello Carlos è accusato solo di responsabilità per la diffusione di fake news. Ma tentazioni personaliste si ravvedono, anche se con grandi differenze, anche nell’atteggiamento del presidente Obrador in Messico, dove la questione della divisione dei poteri, tra patto federale e autonomie degli Stati, ha mostrato le sue fragilità. La decisione di non sospendere le tasse, ad esempio, voluta dal presidente Obrador con il dichiarato intento di non far mancare aiuti ai più poveri, non è stata accolta a cuor leggero dagli imprenditori né dai governatori degli Stati del Nord più ricchi e produttivi, che hanno chiesto a gran voce la revisione del patto fiscale.
Nell’era più democratica del continente già da tempo si parla di una crescente rimilitarizzazione. Nel caso del Nicaragua, il ruolo delle forze armate è tra i fattori che hanno portato ad escludere il Paese dal rango delle democrazie. In generale, si riassume bene in un aumento delle spese di difesa in quasi tutti i contesti e, in particolare, con il fenomeno della militarizzazione delle frontiere a fronte dell’esodo venezuelano. Ma il fenomeno si capisce anche pensando che già nel pieno delle proteste popolari del 2019 abbiamo visto non solo il leader salvadoregno, ma anche i presidenti di Ecuador, Perù, Cile, comparire in televisione per parlare alla nazione indossando le rispettive uniformi militari. Senza dimenticare la delicata questione della violazione dei diritti umani, come in Salvador o in Nicaragua dove è stata autorizzata la “forza letale” nel caso dei manifestanti più “facinorosi” ed è stata anche assicurata assistenza legale in caso di denunce a forze di polizia. Ma anche in Colombia, nel processo che ha fatto seguito al decisivo processo di pace, ci sono stati episodi di repressione che hanno fatto molto discutere. Peraltro, va citato anche il ruolo che hanno avuto i militari in Bolivia nel passo indietro imposto a Morales.
Sullo sfondo di queste argomentazioni, in una delle regioni più violente al mondo, la pandemia avvantaggia le organizzazioni malavitose, rafforzando ulteriormente il loro controllo territoriale e la governance criminale in Stati deboli e fortemente corrotti. Là dove i governi scarseggiano di risorse, i clan malavitosi non conoscono recessione e le situazioni di emergenza sono l’occasione per metterle in campo. Tra le varie modalità illecite, ci sono gli affari dell’usura ma c’è anche un impegno “sociale” di soccorso ai più bisognosi che inesorabilmente li legherà ai “donatori”.
L’inventiva italiana che racconta Napoli al mondo tra cultura e modernità
di Fausta Speranza
Creatività e arte del Bel Paese battono un record: si confermano milioni e milioni di visualizzazioni, con contatti da tutti i continenti, per il primo videogioco prodotto al mondo da un Museo, quello Archeologico di Napoli. E’ una storia accattivante che in sostanza propone un viaggio attraverso diverse epoche storiche, dall’Egitto all’età borbonica, dall’arte pompeiana ai vicoli di Forcella. In tempi di crisi, resta un esempio eccellente di inventiva e di scambio tra generazioni: si tratta, infatti, di un prodotto voluto dal direttore del Museo pensando ai ragazzi. Inoltre, si intitola ‘Father and Son’, lasciando subito immaginare uno scambio tra padre e figlio, che nella storia si conferma arricchente anche nell’impossibilità dell’incontro fisico.
Fabio Viola
Tre chilometri di strade napoletane tratteggiate a mano sono uno dei tocchi artistici del videogioco firmato dal game-designer Fabio Viola. In realtà, tutta la storia è stata disegnata a mano da Sean Wenham, artista che ha precedentemente lavorato con Ubisoft e Sony e che in questo caso è stato affascinato dai giochi di luce che caratterizzano la capitale partenopea. Li ha ricreati nel centro storico, che diventa possibile rivivere in tre particolari ere storiche, sfruttando una serie di connessioni temporali che restano una delle caratteristiche peculiari
dell’innovativo prodotto. L’idea è stata del professor Ludovico Solima ed è stata subito sposata dal direttore del Museo Archeologico di Napoli (MANN) Paolo Giulierini. I due per primi si meravigliano piacevolmente del successo del prodotto che è on line dalla primavera del 2017 e che non smette di moltiplicare il numero di utenti dall’Europa all’America Latina, dall’Australia all’Asia.Realizzato in inglese e in italiano e rilasciato su Apple Store e Google Play gratuitamente e senza contenuti pubblicitari, il gioco narrativo 2D, cioè a due dimensioni, e a scorrimento orizzontale, racconta di un figlio alla scoperta dei segreti di un padre archeologo che non ha mai conosciuto. In questo percorso, che definiremmo di tipo esistenziale, il protagonista che si chiama Michael esplora il confine tra presente e passato all’interno dello spazio espositivo. Si reca al Mann per saperne di più della vita del genitore e degli insegnamenti che gli ha lasciato. Seguendolo nel gioco, ci si ritrova a Pompei nelle ventiquattro ore che precedettero la devastante eruzione del Vesuvio, per poi ritornare ai giorni d’oggi presso le rovine della città romana, nella veste di turista che scatta una foto. E qualcosa di analogo accade per l’era egizia e per quella borbonica, secondo un nuovo modo di fare storytelling che pone al centro il protagonista e chi gioca.
Paolo Giulierini è uno studioso di Lettere classiche, impegnato negli anni in politiche di promozione dei beni culturali. Ludovico Solima è un economista, docente di gestione delle imprese. Fabio Viola insegna alla Nuova Accademia di Belle Arti di Pisa e gestisce la sua azienda di progetti digitali. Si evidenzia una felice collaborazione tra cultura e imprenditorialità moderna. E’ un bel messaggio per tutti i giovani appassionati di cultura, incoraggiati a pensare che l’amore per le suggestioni della storia e dell’arte si possa coniugare con l’impegno lavorativo, senza dimenticare la dimensione creativa della contemporaneità.
Omaggio speciale quest’anno nella Giornata internazionale dell’Infermiere
di Fausta Speranza
Se ogni anno, il 12 maggio, la Giornata mondiale dedicata agli infermieri ci aiuta a ricordare la preziosità del lavoro in corsia accanto agli ammalati, l’occasione si fa speciale dopo i mesi in cui li abbiamo visti impegnati nella lotta al Coronavirus in prima linea e senza riserve. Ma non può essere solo un omaggio: deve essere anche un memorandum su quanto c’è da fare per combattere le violenze contro i sanitari. All’Aula di Montecitorio è all’esame il relativo Disegno di legge.
L’emergenza sanitaria da Covid-19 che tanti lutti ha portato in Italia e nel mondo, nella nostra penisola si è portata via decine di infermieri. Non avremmo voluto che avvenisse in questo modo, ma la pandemia ha messo in luce il grande capitale umano che i professionisti del settore sanitario rappresentano mettendo in campo ogni giorno abnegazione, fatica, coraggio.
Nell’immaginario di tutti resta la foto scattata da una dottoressa all’infermiera crollata per la stanchezza su una scrivania dopo ore di estenuante lavoro nell’ospedale di Cremona. La foto ha fatto il giro del mondo dal post in cui la dottoressa scriveva “grazie per quello che fai”. Ed è stato un ringraziamento particolarissimo oltre che originale quello dello street artist Banksy: nella sua opera, intitolata Game Changer e donata all’ospedale di Southampton in Inghilterra, raffigura un bambino che lascia nella cesta dei giochi Batman e l’Uomo Ragno, preferendo la bambola di un nuovo supereroe: un’infermiera con mascherina, camice della Croce Rossa e mantello, con il braccio alzato, novella Superwoman.
Ma non ci si può limitare a considerarli eroi moderni a parole, senza che ci sia un impegno più serio contro un fenomeno che riguarda tutto il personale sanitario in particolare dei Pronto soccorso: ripetuti episodi di aggressioni da parte di familiari di pazienti. E’ accaduto in Italia e purtroppo anche nei giorni in cui scoppiava l’emergenza per il “nemico invisibile”: ricordiamo il pronto soccorso devastato a Napoli nella notte del 1 marzo scorso.
Oltre il 30 per cento degli infermieri nel corso della propria carriera subisce violenze fisiche o attacchi verbali. E’ quanto ha denunciato l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) il 28 aprile scorso in occasione della Giornata mondiale per la sicurezza e la salute. Molti altri sono normalmente minacciati o esposti allo stigma sociale a causa del loro lavoro. Il pensiero va a ambulanze, Pronto soccorso, rianimazioni, case di risposo, residenze sanitarie, guardie mediche o ambulatori dei medici di famiglia che oggi vediamo come scenari della pratica eroica del personale sanitario e che non devono essere raccontati nelle prime pagine dei giornali o nei titoli di apertura dei telegiornali come scene del crimine o luoghi della violenza e della furia devastante.
Neanche la pandemia ha fermato il fenomeno delle aggressioni verbali e fisiche: l’Oms, nei giorni scorsi, ha sottolineato che medici, infermieri, personale di sicurezza e tutti coloro impegnati nei test, nel rintracciamento dei contatti o nell’adozione delle misure di allontanamento fisico per fermare il Covid-19 subiscono minacce e aggressioni. Per questo ha sollecitato tutti i governi, i datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori ad adottare ferme misure di tolleranza zero nei confronti della violenza contro gli operatori sanitari sul posto di lavoro e ad intensificare le azioni di sostegno sociale e rispetto verso gli operatori sanitari e le loro famiglie. Sembrerebbe quasi impossibile immaginare che infermieri e medici, omaggiati dai cittadini dai balconi delle metropoli di ogni continente, possano essere minacciati, aggrediti verbalmente, assaliti fisicamente, feriti, in alcuni casi uccisi mentre prestano servizio.
Al Parlamento italiano l’impegno va oltre l’omaggio. L’Aula di Montecitorio ha iniziato ieri pomeriggio, 11 maggio, l’esame del Disegno di legge che aggrava le pene a carico di chi commette violenze contro i medici e il personale sanitario, portandole nei casi di lesioni gravi dai 4 ai 10 anni, e nel caso di lesioni gravissime da 8 a 16 anni. Si punisce anche con sanzioni amministrative da 500 a 5.000 euro chi tenga condotte violente, ingiuriose, offensive, ovvero moleste a carico del personale sanitario. Il testo è stato approvato dal Senato, ma durante l’esame in Commissione, nei mesi scorsi, sono state introdotte delle modifiche che, se confermate dall’Aula, comporteranno una terza lettura a Palazzo Madama. Inoltre, bisogna dire che nella bozza del cosiddetto Decreto Rilancio – in attesa di essere promulgato per far ripartire l’economia e il Paese dopo la fase dettata dal Decreto “Cura Italia” – sono previste misure concrete a favore della sanità e, dunque, anche del settore infermieristico.
La Giornata internazionale è stata voluta dall’Onu a partire dal 1965 con riferimento a Florence Nightingale, l’infermiera, nata il 12 maggio 1820, ritenuta la fondatrice delle Scienze infermieristiche moderne. E va detto che, visto l’anniversario dei 200 anni dalla sua nascita, l’Oms ha stabilito l’anno scorso che il 2020 sarebbe stato dichiarato l’Anno dell’infermiera e dell’ostetrica.