Ancora fiato sospeso in Libano

Attesa per la sentenza sull’assassinio di Rafīq al-arīrī e preoccupazione per le possibili ripercussioni

di Fausta Speranza

Il Libano rischia un’altra devastante onda d’urto. Preoccupano le possibili reazioni al verdetto – previsto il 18 agosto – sull’omicidio dell’ex primo ministro Rafīq al-Ḥarīrī, avvenuto nel 2005.

Il processo del Tribunale Speciale voluto dall’Onu a L’Aja vede imputati membri del movimento Hezbollah. Il leader Nasrallah ostenta indifferenza e chiede “pazienza” ai suoi, mentre il figlio di al-Ḥarīrī, Saad, fa sapere che attenderà la sentenza nei Paesi Bassi. Dopo le devastanti esplosioni del 4 agosto – oltre 220 morti e 7000 feriti – e la caduta del governo, la settimana seguente, l’equilibrio del Paese del Levante, modello di convivenza ma in preda da mesi a una profondissima crisi economica e sociale, si presenta precario. Antiche tensioni potrebbero riaccendersi andando ad infiammare la disperazione crescente di una popolazione ridotta alla fame.

La sentenza del Tribunale Speciale voluto dalle Nazioni Unite per la prima volta per un atto terroristico – e non per crimini in contesti di guerra – difficilmente si potrà davvero liquidare con l’indifferenza.  Raīq al-Ḥarīrī, che era stato capo del governo dal 1992 al 1998 e dal 2000 al 2004 e che stava per tornare ad assumere l’incarico, è stato ucciso con altre 21 persone in una esplosione sul lungomare di Beirut il 14 febbraio 2005Anche se ha inaugurato la stagione del proliferare del debito pubblico,che ha portato al default finanziario a marzo scorso, viene ricordato dalla maggior parte della popolazione come il leader politico che ha saputo regalare al Paese il periodo recente di maggiore stabilità“Niente a che fare con il figlio”, ci si sente dire in Libano dalla maggior parte della popolazione, che non perdona a Saad lo scandalo delle sue spese pazze: sposato con tre figli, è stato calcolato che abbia fatto regali in poco tempo per 16 milioni di dollari all’amante, la modella sudafricana Candice van der Merwe, che ha raccontato tutto sotto la pressione dei controlli fiscali per il suo nuovo tenore di vita. Sembra fossero soldi del patrimonio di famiglia, ma spenderli così mentre il Paese passava da un ammanco e un disservizio all’altro, nell’impossibilità di far fronte ai debiti internazionali e con continui blackout energetici, è molto difficile da tollerare anche per un popolo abituato a scandali e corruttele. In ogni caso, la sentenza dovrebbe punire chi ha privato il Paese del padre Raīqun sunnita passato alla storia come sostenitore dei cristiani, che in tante interviste che abbiamo realizzato in Libano abbiamo sentito definire “mister Lebanon”,perché considerato il padre del Libano contemporaneo migliore. La sua uccisione è stato un momento storico: ha provocato, tra l’altro, una presa di posizione netta e forte della popolazione contro le truppe siriane che occupavano il Paese da più di 29 anni e che sono state costrette al ritiro. La posizione della Siria, da sempre profondamente coinvolta nella politica libanese, nonché sostenitrice del movimento divenuto poi partito politico Hezbollah, è stata seriamente messa in discussione.

Per noi sarà come se nessuna decisione fosse mai stata annunciata, ha dichiarato in questi giorniil leader di Hezbollah, Sheikh Hassan Nasrallah, chiedendo ai suoi “indifferenza” per il verdetto, ma aggiungendo ancheSe i nostri fratelli vengono condannati ingiustamente, come ci aspettiamo, manterremo la loro innocenzaHa avvertito che alcuni tenteranno di sfruttare il Tribunale speciale per prendere di mira la resistenza e Hezbollah e ha esortato i suoi sostenitori a essere pazienti, ma ha anche ribadito di rifiutare la giurisdizione e l’indipendenza del Tribunale.  

Una sentenza in piena crisi politica

Due governi caduti sotto il tiro della piazza in dieci mesi. In seguito a settimane di accese manifestazioni contro la corruzione e il carovita, a ottobre scorso, ha fatto un passo indietro l’esecutivo del primo ministro Saad al-arīrī, proprio il figlio del politico ucciso. Le proteste sono proseguite perfino in tempo di lockdown e sono esplose, con tutta la rabbia popolare, a inizio mese, quando 2,7 tonnellate di nitrato di ammonio sono deflagrate nella capitale. La conseguenza è stata la caduta dell’altro governo, nato a gennaio e guidato dall’ingegnere e accademico, considerato un tecnico, Hassan Diab. Le cause delle esplosioni restano tutte da accertare.  Di certo c’è solo che la pericolosità di quel composto chimico, utile per l’agricoltura ma anche per produrre esplosivo, era stata segnalata a tutte le autorità competenti, a partire dal ministero della Difesa e da quello dell’Interno. 

Al momento, mentre l’esecutivo Diab resta incaricato solo del disbrigo delle formalità, Nasrallah chiede la formazione di un governo di unità nazionale. Ha liquidato l’idea di un governo neutrale come una perdita di tempo per un Paese dove il potere e l’influenza sono distribuiti secondo le confessioni religiose: in base al dettato costituzionale, la carica di presidente spetta ai cristiani maroniti, quella di primo ministro a un sunnita e quella di presidente del parlamento a uno sciita. In questo equilibrio, Hezbollah vorrebbe riproporre  “un governo di unità nazionale, e se ciò non è possibile, allora un governo che assicuri la più ampia rappresentanza possibile per politici ed espertiE’ la proposta difesaanche da Nabīh Barrī, che dal1980 è capo politico del movimento a predominanza sciita Amal dal 1990 è presidente del ParlamentoBarrī non ha nascosto il fastidio per l’ipotesi di elezioni anticipate fatta dal dimissionario Diab. 

La voce della piazza

Una sorta di rimpasto tra gli stessi leader di sempre, fosse anche con qualche innesto di esperti o tecnicinon è quello che chiede la popolazione, che a gran voce reclama il rinnovo del Parlamento, ipotizzando anche un possibile cambio al vertice perfino per il capo dello Stato. Lo ripete in questi giorni Samy Gemayel, presidente del partito cristiano Kataeb, che dice di ritenere che il governo dimissionario, e tutte le parti che lo sostengono, siano responsabili del disastro e dovrebbero essere tutti assicurati alla giustizia. Gemayel, che l’8 agosto ha rassegnato le dimissioni assieme agli altri deputati del suo partito, spiega che la decisione è stata motivata dalla mancanza di fiducia. Il Libano ha bisogno di un nuovo governo, indipendente e neutrale, di elezioni anticipateche portino a un chiaro cambiamento politico e di una indagine internazionale sull’esplosione secondo il diritto internazionale, ripete Samy Gemayel, che è figlio dell’ex presidente Amine e nipote di Bachir Gemayel, il ministro dell’Industria ucciso in un attentato a Beirut il 14 settembre del 1982.

I rischi di strumentalizzazioni interne e esterne

Ci si chiede come il verdetto potrebbe essere strumentalizzato, da una parte o da un’altra, in funzione dell’attuale cruciale dibattito politico. Vanno considerate le pagine di storia recente, in cui pesano la guerra civile 1975-’90 e la difficile fase di riconciliazione e ricostruzione, i gravi atti terroristici, gli scandali – in particolare quelli bancari – che hanno accompagnato,nell’ultimo anno, la perdita dell’85 per cento  del potere di acquisto della lira libanese, il taglio del 35 per cento dei salari, il crollo dell’occupazione. Fino ad arrivare alle devastanti esplosioni che hanno squarciato il porto di Beirut, lacerato le ultime speranze, moltiplicato gli interrogativi. La popolazione è scesa in piazza questa volta davvero scossa e esasperata. Non sono mancati disordini e irruzioni nelle sedi istituzionali e, dopo il passo indietro del governo, è in attesa degli sviluppi. In questo contesto di dinamiche interne cadrà l’annuncio della sentenza, che doveva essere fatto il 7 agosto ma che, per rispetto delle vittimedella tragedia di tre giorni prima, è stato posticipato al 18. 

C‘è anche il contesto regionale da considerare per questo piccolo Paese crocevia da sempre: basta ricordare che da Tiro e Sidone, città più volte citate nelle Scritture per il passaggio di Gesù, partirono le navi dei fenici che fondarono Cartagine. Oggi lo scenario geopolitico che va dal Medio Oriente al Nord Africa è infiammatoNon lascia certo ben sperare nel confronto tra sunniti e sciiti che si ripropone nella contrapposizione tra i sostenitori della famiglia sunnita al-arīrī e la base del movimento sciita Hezbollah. Una contrapposizione parallela a quella tra lArabia Saudita, che ha ritirato i suoiinvestimenti a Beirut da quando Hezbollah filoiraniano sta al governo, e la leadership sciita dell’Iran, appunto nemico di RiadQuello tra sunniti e sciiti resta uno dei nodi cruciali di tutto il Vicino e Medio Oriente e anche un punto fermo del confronto tra Oriente e Occidente. 

Spazio ai giovani

Resta un’immagine di speranza: le migliaia di studenti accorsi per affiancare la Croce rossa nel prestare aiuto, riparando i vetri o la porta di persone anziane e sole, spazzando i detriti in zone segnate ma non distrutte. Lo hanno fatto cantando per darsi e dare forza e al loro canto idealmente si sono uniti, anche grazie alla tecnologia digitale, i tantissimi ragazzi libanesi che studiano o lavorano all’estero. Ovunque si distinguono per capacità e forza d’animo. Nel loro canto c’è una richiesta fortissima di giustizia, legalità, lavoro, ma soprattutto di pace. Si tratta di una generazione nata tra le macerie della guerra che si spera terrà lontano il Paese da altre macerie. 

La comunità internazionale deve ascoltare i loro appelli, ricordando che oltre ai 250 milioni di euro in aiuti ià stanziati una settimana fanon c’è solo l’ennesimo impegno che chiede l’Onu, e cioè 565 milioni di dollari per assicurare assistenza sanitaria, cibo e acqua a Beirut. C‘è ancora dell’altro: c’è da fare di tutto per sostenere chi voglia tenere a bada istinti di prevaricazione interni e logiche di guerre per procura. 

da meridianoitalia del 7 agosto 2020

 

Coscienza e libertà: 80 anni fa la testimonianza di de Sousa Mendes

 

 

 

 

di Fausta Speranza
La libertà di coscienza sia rispettata sempre e dovunque. Con queste parole Papa Francesco ha ricordato il diplomatico portoghese Aristides de Sousa Mendes che tra il 16 e il 18 giugno del 1940, disobbedendo alle leggi del suo dittatore, salvò la vita a migliaia di ebrei e altri perseguitati. A ottant’anni di distanza, restano preziose la sua lezione di umanità e la sua testimonianza di libertà interiore.

 “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. E’ quanto si legge nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. E, sul piano giuridico, la libertà di coscienza viene definita come la libertà di coltivare convinzioni interiori e di comportarsi di conseguenza.Coscienza, dunque, fa rima con coerenza, e non è solo questione di sonorità. Se non c’è adesione tra i valori riconosciuti in coscienza e i propri comportamenti non può esserci nessuna vera forma di libertà, piuttosto si è schiavi di qualcuno o qualcosa ai quali si obbedisce più di quanto si risponda a se stessi.
Le scelte di Aristides de Sousa Mendes appaiono, dunque, non solo una grandissima testimonianza di umanità, ma anche una lezione di vera libertà. Il diplomatico portoghese, nato nel 1855 a Cabanas de Viriato in una famiglia aristocratica, dopo una brillante carriera segnata da una significativa esperienza in Belgio, nel 1940, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, viene nominato console di Bordeaux, in Francia. Si trova presto di fronte alla miriade di profughi, tra cui molti ebrei, in cerca di scampo dalla furia omicida nazista. Il governo di Lisbona è guidato in quel momento da António de Oliveira Salazar, amico di Mussolini che nel 1932 aveva instaurato il cosiddetto “Estado Novo”, un regime di stampo fascista. L’ordine è di negare il visto a “stranieri di nazionalità indefinita, contestata o disputata”, o ad apolidi e “ad ebrei, che sono stati espulsi dal Paese di origine o dallo stato di cui hanno la cittadinanza”. In ballo c’è la possibilità di entrare in un Paese neutrale come il Portogallo, che significava la salvezza dalla follia nazifascista.

de Sousa Mendes Aristides de Sousa Mendes

Il 16 giugno del 1940 il console prende la sua decisione: dare un visto a tutti i rifugiati che lo richiedano senza riguardo a nazionalità, razza o religione. Aiutato dai più stretti collaboratori e dai suoi figli e nipoti, timbra passaporti, assegna visti, usando tutti i fogli di carta disponibili. Organizza una vera e propria catena di montaggio: alcuni addetti sono incaricati di riempire i moduli, altri di apporre la foto per poi passare il documento al dilomatico per la firma e infine al segretario Jose Seabra per il timbro. In tre giorni rilascia 30.000 visti. Tra quanti vengono aiutati dal diplomatico portoghese c’è anche il rabbino di Anversa, Jacob Kruger che a sua volta darà il suo contributo per aiutare gli altri.
Yehuda Bauer, storico contemporaneo, scrive che quel giorno è cominciata “la più grande operazione di salvataggio effettuata da una persona durante la Shoah”. Numericamente non raggiunge quella compiuta dal diplomatico svedese Raoul Wallenberg che strappò alla morte 100.000 ebrei. Ma in questo caso, c’era il pieno sostegno del governo di Stoccolma.
Nel caso di de Sousa Mendes, arrivano presto i primi richiami da Lisbona. Il diplomatico portoghese dichiara a familiari e conoscenti: “Se devo disobbedire, preferisco che sia agli ordini degli uomini piuttosto che agli ordini di Dio e della mia coscienza”. L’8 luglio del 1940 torna in Portogallo e viene punito dal governo di Salazar: viene rimosso dal suo incarico, sospeso per un anno e poi riprende un lavoro di ufficio con uno stipendio dimezzato. La sua patente di guida, rilasciata all’estero, viene ritirata. Aristides e la sua famiglia sopravvivono grazie alla solidarietà della comunità ebraica di Lisbona. Pianificano di raggiungere gli Stati Uniti ma la moglie si ammala e il diplomatico resta a Lisbona. Solo alcuni dei suoi numerosi figli si recano a studiare oltre Oceano e due di loro parteciperanno allo sbarco di Normandia. Aristides muore in povertà il 3 aprile del 1954 nell’ospedale dei Francescani di Lisbona. Nel 1966 gli viene riconosciuto dall’istituto Yad Vahem il titolo di “Giusto tra le nazioni”.
Perché sia riabilitato in Portogallo ci vorrà tempo e una sorta di revisione del processo che si concluderà con una assoluzione per aver “disobbedito per fini umanitari”. Il 13 marzo 1988, quarantotto anni dopo gli avvenimenti di Bordeaux e quattordici anni dopo la fine della dittatura, il Parlamento all’unanimità approva la riabilitazione del console, promuovendolo ambasciatore.
Nel 1990 la città di Montreal, in Canada, gli intitola un parco, seguita l’anno successivo da Bordeaux. Nel 1998 in Francia viene pubblicato il libro “Le Juste de Bordeaux”, e in quello stesso Bordeauxanno il Parlamento europeo onora de Sousa Mendes, conferendogli un’importante onorificenza.

parcoSousa Mendes

Statue d’Aristides de Sousa Mendes – Bordeaux

Seguono altri riconoscimenti e il 23 febbraio 2000 a Lisbona viene istituita la Fondazione Aristides de Sousa Mendes, alla quale il governo dona un contributo di 50.000 euro. Va ricordato un altro atto significativo: nel 1987, all’ambasciata portoghese a Washington, il presidente della Repubblica portoghese, Mario Soares, consegna ai figli di de Sousa Mendes la decorazione dell’Ordine della libertà. Le imputazioni di allora, “abuso di potere, emissione di visti falsi, non rispetto delle direttive ministeriali” sono cadute. La testimonianza di umanità e di libertà di coscienza di Aristides de Sousa Mendes resta. Ad interpellare altre coscienze.

da Meridianoitalia.TV del 16 giugno 2020

 

L’impatto della pandemia sulle democrazie latinoamericane

Intervista con la studiosa di America Latina Tiziana Terracini

di Fausta Speranza

L’America Latina, epicentro dell’infezione da coronavirus dalla fine di maggio, fa i conti con la crisi sanitaria ed economica ma anche con l’urto dell’emergenza sul già fragile equilibrio delle istituzioni democratiche. In realtà, i dati registrano una retrocessione da questo punto di vista da quattro anni e non è imputabile solo alle situazioni del Salvador o del Nicaragua. In Brasile, secondo Paese al mondo dopo gli Stati Uniti per i contagi, si sono aperti orizzonti di crisi politico-istituzionali, in Messico è braccio di ferro in tema di patto federale.

 La pandemia ha accentuato le criticità e i limiti delle democrazie latinoamericane. Si tratta di Paesi dove già nel corso del 2019 si erano registrate diffuse manifestazioni di forte scontento per le ingiustizie sociali, la corruzione, l’impunità. La diseguaglianza cronica della regione è stata aggravata dall’emergenza Covid-19 che ha toccato proprio i settori già precari: lavoro, salute, educazione. Il punto è che, oltre alla prevista perdita di Pil, come peraltro in tutti i Paesi del mondo, si è andato esasperando il nodo strutturale del continente: un rapporto tra crescita e sviluppo che riesce a penalizzare il secondo fattore anche quando non è mancato il primo.

       La permanente instabilità politica e alcuni meccanismi già imbrigliati di governance hanno aperto la strada a crisi politico–istituzionali. E’ accaduto in Brasile, tra tentazioni personaliste e l’implementazione di riforme che aprono interrogativi seri sull’aumento della discrezionalità dell’esecutivo. E’ cambiato per due volte il ministro della Sanità in piena brasilePresidente Jair Bolsonaro

esplosione dell’infezione da coronavirus, il primo è stato allontanato e il secondo si è dimesso sempre per contrasti con il presidente Bolsonaro. Ma è aspro il confronto anche in ambito di Corte Costituzionale dopo l’allontanamento, su decisione di Bolsonaro, del capo della polizia da sempre stretto collaboratore del noto giurista e politico, già ministro della giustizia Sérgio Moro, in relazione a presunte accuse di malversazione di fondi pubblici rivolte al figlio del capo di Stato Flavio Bolsonaro. Suo fratello Carlos è accusato solo di responsabilità per la diffusione di fake news. Ma tentazioni personaliste si ravvedono, anche se con grandi differenze, anche nell’atteggiamento del presidente Obrador in Messico, dove la questione della divisione dei poteri, tra patto federale e autonomie degli Stati, ha mostrato le sue fragilità. La decisione di non sospendere le tasse, ad esempio, voluta dal presidente Obrador  con il dichiarato intento di non far mancare aiuti ai più poveri, non è stata accolta a cuor leggero dagli imprenditori né dai governatori degli Stati del Nord più ricchi e produttivi, che hanno chiesto a gran voce la revisione del patto fiscale.

Nell’era più democratica del continente già da tempo si parla di una crescente rimilitarizzazione. Nel caso del Nicaragua, il ruolo delle forze armate è tra i fattori che hanno portato ad escludere il Paese dal rango delle democrazie. In generale, si riassume bene in un aumento delle spese di difesa in quasi tutti i contesti e, in particolare, con il fenomeno della militarizzazione delle frontiere a fronte dell’esodo venezuelano. Ma il fenomeno si capisce anche pensando che già nel pieno delle proteste popolari del 2019 abbiamo visto non solo il leader salvadoregno, ma anche i presidenti di Ecuador, Perù, Cile, comparire in televisione per parlare alla nazione indossando le rispettive uniformi militari. Senza dimenticare la delicata questione della violazione dei diritti umani, come in Salvador o in Nicaragua dove è stata autorizzata la “forza letale” nel caso dei manifestanti più “facinorosi” ed è stata anche assicurata assistenza legale in caso di denunce a forze di polizia. Ma anche in Colombia, nel processo che ha fatto seguito al decisivo processo di pace, ci sono stati episodi di repressione che hanno fatto molto discutere. Peraltro, va citato anche il ruolo che hanno avuto i militari in Bolivia nel passo indietro imposto a Morales.

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Tiziana Terracini, docente di storia e politiche dell’America Latina all’Universita’ di Torino

Sullo sfondo di queste argomentazioni, in una delle regioni più violente al mondo, la pandemia avvantaggia le organizzazioni malavitose, rafforzando ulteriormente il loro controllo territoriale e la governance criminale in Stati deboli e fortemente corrotti. Là dove i governi scarseggiano di risorse, i clan malavitosi non conoscono recessione e le situazioni di emergenza sono l’occasione per metterle in campo. Tra le varie modalità illecite, ci sono gli affari dell’usura ma c’è anche un impegno “sociale” di soccorso ai più bisognosi che inesorabilmente li legherà ai “donatori”.

del 14-06-2020

L’inventiva italiana che racconta Napoli al mondo tra cultura e modernità

di Fausta Speranza

Creatività e arte del Bel Paese battono un record: si confermano milioni e milioni di visualizzazioni, con contatti da tutti i continenti, per il primo videogioco prodotto al mondo da un Museo, quello Archeologico di Napoli. E’ una storia accattivante che in sostanza propone un viaggio attraverso diverse epoche storiche, dall’Egitto all’età borbonica, dall’arte pompeiana ai vicoli di Forcella. In tempi di crisi, resta un esempio eccellente di inventiva e di scambio tra generazioni: si tratta, infatti, di un prodotto voluto dal direttore del Museo pensando ai ragazzi. Inoltre, si intitola ‘Father and Son’, lasciando subito immaginare uno scambio tra padre e figlio, che nella storia si conferma arricchente anche nell’impossibilità dell’incontro fisico.

Fabio Viola

       Tre chilometri di strade napoletane tratteggiate a mano sono uno dei tocchi artistici del videogioco firmato dal game-designer Fabio Viola. In realtà, tutta la storia è stata disegnata a mano da Sean Wenham, artista che ha precedentemente lavorato con Ubisoft e Sony e che in questo caso è stato affascinato dai giochi di luce che caratterizzano la capitale partenopea. Li ha ricreati nel centro storico, che diventa possibile rivivere in tre particolari ere storiche, sfruttando una serie di connessioni temporali che restano una delle caratteristiche peculiari Fabio Viola dell’innovativo prodotto. L’idea è stata del professor Ludovico Solima ed è stata subito sposata dal direttore del Museo Archeologico di Napoli (MANN) Paolo Giulierini. I due per primi si meravigliano piacevolmente del successo del prodotto che è on line dalla primavera del 2017 e che non smette di moltiplicare il numero di utenti dall’Europa all’America Latina, dall’Australia all’Asia.

       Realizzato in inglese e in italiano e rilasciato su Apple Store e Google Play gratuitamente e senza contenuti pubblicitari, il gioco narrativo 2D, cioè a due dimensioni, e a scorrimento orizzontale, racconta di un figlio alla scoperta dei segreti di un padre archeologo che non ha mai conosciuto. In questo percorso, che definiremmo di tipo esistenziale, il protagonista che si chiama Michael esplora il confine tra presente e passato all’interno dello spazio espositivo. Si reca al Mann per saperne di più della vita del genitore e degli insegnamenti che gli ha lasciato. Seguendolo nel gioco, ci si ritrova a Pompei nelle ventiquattro ore che precedettero la devastante eruzione del Vesuvio, per poi ritornare ai giorni d’oggi presso le rovine della città romana, nella veste di turista che scatta una foto. E qualcosa di analogo accade per l’era egizia e per quella borbonica, secondo un nuovo modo di fare storytelling che pone al centro il protagonista e chi gioca.

       Paolo Giulierini è uno studioso di Lettere classiche, impegnato negli anni in politiche di promozione dei beni culturali. Ludovico Solima è un economista, docente di gestione delle imprese. Fabio Viola insegna alla Nuova Accademia di Belle Arti di Pisa e gestisce la sua azienda di progetti digitali. Si evidenzia una felice collaborazione tra cultura e imprenditorialità moderna. E’ un bel messaggio per tutti i giovani appassionati di cultura, incoraggiati a pensare che l’amore per le suggestioni della storia e dell’arte si possa coniugare con l’impegno lavorativo, senza dimenticare la dimensione creativa della contemporaneità.

da Meridianoitalia.TV del 29 maggio 2020

Omaggio speciale quest’anno nella Giornata internazionale dell’Infermiere

di  Fausta Speranza

Se ogni anno, il 12 maggio, la Giornata mondiale dedicata agli infermieri ci aiuta a ricordare la preziosità del lavoro in corsia accanto agli ammalati, l’occasione si fa speciale dopo i mesi in cui li abbiamo visti impegnati nella lotta al Coronavirus in prima linea e senza riserve. Ma non può essere solo un omaggio: deve essere anche un memorandum su quanto c’è da fare per combattere le violenze contro i sanitari. All’Aula di Montecitorio è all’esame il  relativo Disegno di legge.

L’emergenza sanitaria da Covid-19 che tanti lutti ha portato in Italia e nel mondo, nella nostra penisola si è portata via decine di infermieri. Non avremmo voluto che avvenisse in questo modo, ma la pandemia ha messo in luce il grande capitale umano che i professionisti del settore sanitario rappresentano mettendo in campo ogni giorno abnegazione, fatica, coraggio.

Nell’immaginario di tutti resta la foto scattata da una dottoressa  all’infermiera crollata per la stanchezza su una scrivania dopo ore di estenuante lavoro nell’ospedale di Cremona. La foto ha fatto il giro del mondo dal post in cui la dottoressa scriveva “grazie per quello che fai”. Ed è stato un ringraziamento particolarissimo oltre che originale quello dello street artist Banksy: nella sua opera, intitolata Game Changer e donata all’ospedale di Southampton in Inghilterra, raffigura un bambino che lascia nella cesta dei giochi Batman e l’Uomo Ragno, preferendo la bambola di un nuovo supereroe: un’infermiera con mascherina, camice della Croce Rossa e mantello, con il braccio alzato, novella Superwoman.

Ma non ci si può limitare a considerarli eroi moderni a parole, senza che ci sia un impegno più serio contro un fenomeno che riguarda tutto il personale sanitario in particolare dei Pronto soccorso: ripetuti episodi di aggressioni da parte di familiari di pazienti. E’ accaduto in Italia e purtroppo anche nei giorni in cui scoppiava l’emergenza per il “nemico invisibile”: ricordiamo il pronto soccorso devastato a Napoli nella notte del 1 marzo scorso.

Oltre il 30 per cento degli infermieri nel corso della propria carriera subisce violenze fisiche o attacchi verbali. E’ quanto ha denunciato l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) il 28 aprile scorso in occasione della Giornata mondiale per la sicurezza e la salute. Molti altri sono normalmente minacciati o esposti allo stigma sociale a causa del loro lavoro. Il pensiero va a ambulanze, Pronto soccorso, rianimazioni, case di risposo, residenze sanitarie,  guardie mediche o  ambulatori dei medici di famiglia che oggi vediamo come scenari della pratica eroica del personale sanitario e che non devono essere raccontati nelle prime pagine dei giornali o nei titoli di apertura dei telegiornali come  scene del crimine  o  luoghi della violenza e della furia devastante.

Neanche la pandemia ha fermato il fenomeno delle aggressioni verbali e fisiche: l’Oms, nei giorni scorsi, ha sottolineato che medici, infermieri, personale di sicurezza e tutti coloro impegnati nei test, nel rintracciamento dei contatti o nell’adozione delle misure di allontanamento fisico per fermare il Covid-19 subiscono minacce e aggressioni. Per questo ha sollecitato tutti i governi, i datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori ad adottare ferme misure di tolleranza zero nei confronti della violenza contro gli operatori sanitari sul posto di lavoro e ad intensificare le azioni di sostegno sociale e rispetto verso gli operatori sanitari e le loro famiglie. Sembrerebbe quasi impossibile immaginare che infermieri e medici, omaggiati dai cittadini dai balconi delle metropoli di ogni continente, possano essere minacciati, aggrediti verbalmente, assaliti fisicamente, feriti, in alcuni casi uccisi mentre prestano servizio.

Al Parlamento italiano l’impegno va oltre l’omaggio. L’Aula di Montecitorio ha iniziato ieri pomeriggio, 11 maggio, l’esame del Disegno di legge che aggrava le pene a carico di chi commette violenze contro i medici e il personale sanitario, portandole nei casi di lesioni gravi dai 4 ai 10 anni, e nel caso di lesioni gravissime da 8 a 16 anni. Si punisce anche con sanzioni amministrative da 500 a 5.000 euro chi tenga condotte violente, ingiuriose, offensive, ovvero moleste a carico del personale sanitario. Il testo è stato approvato dal Senato, ma durante l’esame in Commissione, nei mesi scorsi, sono state introdotte delle modifiche che, se confermate dall’Aula, comporteranno una terza lettura a Palazzo Madama. Inoltre, bisogna dire che nella bozza del cosiddetto Decreto Rilancio – in attesa di essere promulgato per far ripartire l’economia e il Paese dopo la fase dettata dal Decreto “Cura Italia” – sono previste misure concrete a favore della sanità e, dunque, anche del settore infermieristico. 

La Giornata internazionale è stata voluta dall’Onu a partire dal 1965 con riferimento a Florence Nightingale, l’infermiera, nata il 12 maggio 1820, ritenuta la fondatrice delle Scienze infermieristiche moderne.  E va detto che, visto l’anniversario dei 200 anni dalla sua nascita, l’Oms ha stabilito l’anno scorso che il 2020 sarebbe stato dichiarato l’Anno dell’infermiera e dell’ostetrica.

Il volto nuovo dell’Europa oltre la crisi

Lo stato di salute della libertà di stampa

Fausta Speranza

I governi stanno affrontando sfide senza precedenti, ma questa situazione non deve essere utilizzata per mettere a tacere o ostacolare i giornalisti”. L’appello viene dal Consiglio d’Europa, l’organismo a 47 Paesi deputato alla difesa dei diritti umani. Quest’anno leva la sua voce ancora più alta – in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa il 3 maggio – per mettere in guardia sui rischi per la libera informazione legati alla pandemia, o, meglio, legati alle misure fuori dall’ordinario messe in campo.
Il rischio è che diversi livelli della crisi segnino il futuro del giornalismo. Innanzitutto, si deve fare i conti con la crisi democratica e geopolitica, in considerazione dell’affermarsi di politiche repressive e della maggiore aggressività dei regimi autoritari. Poi c’è il piano tecnologico dove si rischia di avere sempre minori garanzie. Senza dimenticare la crisi economica, che peggiora la qualità del giornalismo. Basti pensare ad un fenomeno in crescita sotto la definizione di chilling effect, cioè la piaga delle azioni di diffamazione senza alcun fondamento: hanno il solo effetto di minacciare la stampa e impedire l’esercizio della libertà di espressione, provando a ridurre al silenzio i giornalisti visto il costo oneroso del solo avvio di una causa di difesa.

Se la pandemia contagia le relazioni internazionali

Intervista di Fausta Speranza a Giuseppe Morabito

Mentre il Covid-19 mette in crisi almeno 210 Paesi e lascia intravedere una prospettiva di perdita del 3 per cento del Pil mondiale, l’Italia, primo tra gli Stati europei a vivere l’emergenza, cerca faticosamente di traghettarsi nella fase 2. Si devono ancora gestire le urgenze sanitarie, ma si deve anche pensare alle imminenti necessità dell’economia, dei lavoratori, delle imprese, cercando di evitare instabilità sociale. E sulla scena mondiale bisogna tenere la rotta. Il coronavirus, infatti, può avere ripercussioni non solo sulle economie, ma anche sulle relazioni internazionali. C’è la questione degli aiuti assicurati dagli Stati Uniti o da altri Paesi all’Italia e ad altri territori, ma ci sono anche gli equilibri geopolitici legati al prezzo del greggio. Per ragionare su questi aspetti, Fausta Speranza ha intervistato il generale Giuseppe Morabito, membro del Consiglio direttivo della Nato Defense College Foundation.


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A mio parere la pandemia da Covid-19 non deve essere utile solo alla propaganda dei regimi autoritari ma deve rivelarsi un asso nella manica dei Paesi democratici. Innanzitutto, una premessa è d’obbligo: gli Stati Uniti sono un alleato storico dell’Italia. Sono stati i principali artefici della “Guerra di Liberazione” e basta andare non lontano da Roma, al Cimitero Americano di Anzio, per ricordarlo. Il piano Marshall per salvare il Paese dalla deriva comunista è opera di Washington. Siamo entrati nella Nato dalla porta principale grazie al loro appoggio e quindi viviamo in pace da più di 70 anni anche e soprattutto grazie agli Usa. Oggi nei giorni di comune crisi per la pandemia, gli Stati Uniti hanno confermato il supporto per l’Italia colpita dal Covid-19 e la Casa Bianca ha annunciato l’avvio dell’operazione di solidarietà. “La Repubblica Italiana – ha dichiarato Trump – uno degli alleati più stretti e di vecchia data, è stata devastata dalla pandemia del virus di Wuhan, che ha già reclamato più di 18.000 vite, portato la maggior parte del sistema sanitario a un passo dal collasso, e minaccia di spingere l’economia italiana verso una profonda recessione”. “Sebbene la prima e più importante responsabilità del governo degli Stati Uniti sia nei riguardi del popolo americano – continua il documento – andremo in aiuto dell’Italia per sconfiggere l’epidemia di Covid-19 e mitigare l’impatto della crisi, mostrando allo stesso tempo la leadership degli Usa davanti alle campagne di disinformazione cinese e russe, riducendo il rischio di una nuova infezione dall’Europa verso gli Stati Uniti”. Le campagne solidali di Pechino e Mosca in Italia culla della democrazia sono state accompagnate da una non indifferente ventata di propaganda. Nelle ultime due settimane si erano moltiplicate le manifestazioni di vicinanza di Washington all’Italia soprattutto indirizzate al Nord del Paese. La fase operativa ha determinato una mobilitazione della macchina di aiuti che è semplicemente impareggiabile. Da quando il 13 marzo scorso un aereo cinese carico di forniture mediche ed esperti è arrivato in Italia seguito dal team di esperti militari russi, il numero dei morti in Italia e in Spagna ha superato ormai abbondantemente quelli dichiarati dalla Cina. La campagna propagandistica ha previsto anche uno spot in cui l’uomo più ricco della Cina, Jack Ma, distribuisce due milioni di maschere in diversi Paesi europei, tra i quali Spagna, Italia, Belgio e Francia. Pechino, inoltre, ha anche contrastato Taiwan che sta rafforzando la propria immagine a livello internazionale mostrandosi quale esempio virtuoso nella gestione dell’emergenza sanitaria, nonostante la narrazione cinese volta a screditare il governo di Taipei e il suo successo riscontrato nel contenere la diffusione del virus. In particolare una campagna ostruzionistica sta contrastando anche l’arrivo degli aiuti di Taipei a Roma.
Il Cremlino sta gestendo l’aiuto umanitario all’Italia attraverso la sua struttura militare. Sono stati mandati degli aerei cargo, diversi medici dei reparti specializzati dell’esercito, unità mobili per il contenimento delle minacce batteriologiche, mezzi per la sanificazione del suolo e poi un numero imprecisato di militari specializzati. Un’ottima attività di propaganda.
E’ logico aspettarsi aiuti e sarebbe sciocco non accettarli da chi ti ha danneggiato ritardando le campagne d’informazione dell’organizzazione Mondiale della Sanità (la Cina Popolare), comprensibile accettare supporto da chi ci sta danneggiando in Libia sostenendo il ribelle Al Serraj e mettendo a rischio, ad esempio, il futuro energetico nazionale (la Russia). Sarebbe comunque criminale e stupido non mettere in prima linea e in luce la grande dimostrazione di amicizia dell’alleato democratico di sempre.
La pandemia da Covid 19 rappresenta un terremoto per i sistemi sanitari dei vari Paesi coinvolti e uno tsunami per l’economia. Ovviamente tutto questo ha un peso sugli equilibri geopolitici. Nelle scorse settimane, l’attenzione a livello di relazioni internazionali è stata catturata dalla questione petrolio. Il prezzo del greggio ha avuto significative oscillazioni, dopo anni in cui ci ha abituato a ridimensionarne il valore sul mercato. Abbiamo assistito al braccio di ferro tra Arabia Saudita e Russia, ma la partita non si limita a questi giocatori: tra i protagonisti ci sono gli Stati Uniti e poi ci sono tanti altri Paesi coinvolti…

La scorsa settimana l’Arabia Saudita e la Russia hanno concordato un taglio alla produzione di petrolio, l’Ue ha annunciato misure economiche di emergenza per combattere l’impatto del coronavirus ed è iniziato il cessate-il-fuoco per i combattimenti che il governo saudita conduce nello Yemen. L’Arabia Saudita e la Russia hanno concordato di ridurre la produzione di petrolio di 10 milioni di barili al giorno a seguito di una riunione dei Paesi produttori di petrolio dell’Opec Plus e l’accordo prevede una riduzione di 5 milioni di barili al giorno tra l’Arabia Saudita e la Russia, mentre gli altri 5 milioni di tagli vengono effettuati dagli altri paesi dell’Opec. I tagli verranno gradualmente eliminati a scalare con termine nell’aprile 2022. Gli occhi si sono poi rivolti alla riunione dei ministri dell’energia del G-20, in cui, tra gli altri, gli Stati Uniti e il Canada sono stati chiamati a partecipare alla riduzione della produzione di ulteriori 5 milioni di barili al giorno. In particolare, l’intervento degli Stati Uniti, nel ruolo di mediatore nel mercato petrolifero, ha consentito di portare a casa un accordo difficilissimo fra i produttori dell’Opec ed i membri “esterni”. Il Messico ha cercato di far saltare l’accordo Opec Plus, non accettando di tagliare la quota di pertinenza di 300-400.000 barili. Ma un colloquio fra il presidente statunitense, Donald Trump, ed il presidente messicano, Andres Manuel Lopez Obrador, alla fine, ha consentito di portare a casa un compromesso: il Messico taglierà la propria produzione di 100.000 barili ed un taglio di ulteriori 250.000 barili sarà a carico degli Usa, che pure si sono impegnati a ridurre l’output per la porzione di loro competenza, in aggiunta alla riduzione accettata dall’Arabia Saudita e dalla Russia.

In sostanza, qual è stato il pronunciamento del G20 al quale si è arrivati con l’accordo tra Mosca e Riad?

Al G20 dei ministri dell’Energia, dunque, è stato sancito l’accordo che sembra aver soddisfatto tutti “per sostenere la ripresa economica globale e salvaguardare i mercati dell’energia”. Tutti i componenti si impegnano a “lavorare insieme per sviluppare risposte collaborative, che garantiranno la stabilità del mercato in tutte le fonti energetiche, tenendo conto della situazione di ciascun Paese”. “Ci impegniamo a prendere tutte le misure necessarie – assicura lo statement – per garantire l’equilibrio degli interessi tra produttori e consumatori, la sicurezza dei sistemi energetici ed il flusso ininterrotto di energia. Nel fare ciò, siamo particolarmente consapevoli della necessità di garantire che la salute e altri settori che guidano la lotta contro il Covid-19 dispongano delle forniture energetiche di cui hanno bisogno”.

In che modo la Russia ha gestito il suo confronto sui prezzi con l’Arabia Saudita? Quali sono le prospettive dei due grandi Paesi produttori?

La Russia non bene, a mio parere. La contrapposizione di circa un mese con l’Arabia Saudita mostra quanto la Russia abbia esagerato nel forzare la mano in Medio Oriente e un possibile esito di questo contrasto potrebbe configurarsi con la fine dell’ipotesi che Mosca svolga un ruolo significativo nello stabilire un nuovo ordine regionale in un prossimo futuro. La premessa è che, in questo periodo, la Russia ha una situazione finanziaria migliore dell’Arabia Saudita, in particolare con un tasso di cambio flessibile – poiché il rublo si deprezza, il valore delle sue esportazioni aumenta. Senza l’accordo raggiunto avrebbe perso anche miliardi di dollari di entrate con il calo dei prezzi del petrolio, il governo ha un deficit fiscale molto più basso dell’Arabia Saudita e ha più di 500 miliardi di dollari di riserve estere. La monarchia saudita è la guida dell’area spirituale ed economica del mondo arabo e del Medio Oriente e, anche se ha raggiunto un accordo in extremis, non dimenticherà facilmente lo “sgarbo” subito.

Che dire della questione petrolio vista dall’interno dell’Arabia Saudita?

L’Arabia Saudita ha ancora riserve di valuta estera di 500 miliardi di dollari, ma tale “tesoretto” si è ridotto dai 740 miliardi nel 2013. Molti anni di prezzi bassi del petrolio hanno costretto il regno a prendere in prestito denaro e ridurre i sussidi energetici per i suoi cittadini. Il principe ereditario Mohammed bin Salman ora conta sulle sue riserve per aiutare a diversificare l’economia saudita per il futuro e pare sia stato costretto dagli eventi a rivedere la posizione nella guerra in Yemen. Ricordo che in Yemen si combatte una guerra tra il governo del presidente Hadi sostenuto dall’Arabia Saudita, e riconosciuto dalla comunità internazionale, e i ribelli houthi, finanziati e armati dall’Iran. Faticosamente ora è in atto un cessate-il-fuoco ma, non è ancora chiaro se gli houthi accetteranno l’arresto delle ostilità. L’Arabia Saudita, ad oggi, ha ragione a dare la priorità a una soluzione politica che includa una soluzione bilaterale di termini con gli Houthi. L’alternativa potrebbe essere un “fatto compiuto” attraverso una serie di vittorie militari degli houthi che avanzano sempre di più, a sfavore delle già deboli forze governative di Hadi.

E la prospettiva dall’interno per la Russia?

La Russia ha una capacità di lavorazione limitata e le sue raffinerie hanno strutture di stoccaggio insufficienti. Si affida a lunghi oleodotti per portare il suo petrolio agli acquirenti europei e asiatici. La domanda europea è crollata e i serbatoi di stoccaggio della Russia si stanno rapidamente riempiendo e la Cina sta ancora acquistando petrolio, a prezzi stracciati, ma la sua capacita di stoccaggio sarà completa tra un mese circa, lasciando il greggio russo bloccato. Con migliaia di pozzi di petrolio e gas dell’era sovietica nella Siberia occidentale, la Russia si troverebbe di fronte alla prospettiva di chiudere e poi far ripartire i pozzi, una soluzione costosa e tale processo potrebbe limitare permanentemente la quantità di petrolio da distribuire sulla rete internazionale in futuro. Tutto è in divenire e i prossimi giorni saranno importanti.

In definitiva quale prospettiva intravedere su scala mondiale?

Con così tanti consumatori mondiali di petrolio chiusi in casa a causa delle rigide misure del coronavirus, anche un taglio di 15 milioni di barili nella produzione giornaliera sarebbe probabilmente insufficiente a compensare il calo della domanda. I consumi sono diminuiti così rapidamente che potrebbero passare mesi prima che tornino al livello di 100 milioni di barili al giorno raggiunto nel 2019.

Ricordiamo cosa ha significato nel recente passato il crollo del prezzo del petrolio per un Paese come il Venezuela e dunque per gli equilibri in America Latina?

La guerra dei prezzi tra i produttori mondiali di petrolio ha ridotto le entrate del Venezuela per le sue maggiori esportazioni e ha esacerbato la crisi finanziaria del Paese. La guerra dei prezzi acuisce la crisi economica della nazione sudamericana mentre affronta la pandemia da coronavirus. Più del 90 per cento delle entrate delle esportazioni venezuelane proviene dal petrolio. Il Paese rischia, quest’anno, di avere un budget petrolifero di 8 miliardi di dollari, che è solo un terzo dei 25 miliardi realizzati nel 2019. Tre settimane fa, il presidente Nicolàs Maduro ha definito il crollo del mercato petrolifero un “colpo brutale” che ha fatto scendere il prezzo al di sotto del costo di produzione. La scorsa settimana la produzione del Venezuela è scesa sotto i 700.000 barili al giorno. Il settore petrolifero ha affrontato anni di investimenti insufficienti e le sanzioni degli Stati Uniti hanno limitato l’accesso della compagnia petrolifera statale ai finanziamenti internazionali e gli hanno impedito di commercializzare il greggio negli Stati Uniti. La compagnia petrolifera russa Rosneft, che aveva commercializzato la maggior parte del petrolio venezuelano nel mercato asiatico, la scorsa settimana ha annunciato che le sue attività nel Paese sarebbero state rilevate da un’altra compagnia russa. Questi cambiamenti e un calo della domanda mondiale di petrolio a causa della pandemia hanno messo in crisi il Venezuela in un momento in cui avrebbe bisogno di vendere ancora un maggior numero di barili di greggio. L’anno scorso Maduro ha ridotto i controlli sull’economia che hanno permesso alle aziende e ai privati di operare con maggiore libertà. Il Fondo monetario internazionale, a marzo, ha respinto una richiesta di 5 miliardi di dollari e funzionari del governo hanno contattato le banche cinesi in cerca di sostegno. Nel 2019, il Venezuela ha importato circa 550 milioni di dollari in cibo e ora deve rinegoziare il debito con Cina e Russia. Maduro dovrà anche ridurre le importazioni di beni essenziali dopo che, a differenza di altri governi della regione, ha evitato di esentare dal pagamento delle tasse le società e le imprese chiuse durante la quarantena da Covid 19 e ha anche razionato la benzina, provvedimento che ostacola la distribuzione del cibo al suo stesso popolo. E’ probabile che il “virus di Wuhan” sarà letale per tutto il Venezuela e soprattutto per il suo governo comunista.
Anche in Africa le ripercussioni su Paesi come Nigeria e Senegal si sono fatte sentire pesantemente…
La Nigeria è pronta ad affrontare una grave perdita di entrate. Gli analisti prevedono che il Ghana avrà metà delle entrate previste. In Camerun si prevede un calo del tre percento nella crescita economica. Questi sono solo esempi di come i Paesi africani produttori petroliferi sono stati e saranno tra i più duramente colpiti dalla pandemia di COVID-19 e dal calo del prezzo del petrolio. In particolare, Senegal, Nigeria e Angola continuano ad affrontare ogni giorno nuove sfide a seguito della crisi economica. In un’intervista a inizio marzo a VaticanNews avevo “predetto” una gravissima crisi sanitaria in Africa e ora a questa si aggiunge quella economica.
Il Senegal, da quando è stato scoperto petrolio e gas nel 2014, è emerso come uno dei principali attori dell’industria petrolifera e del gas. Di conseguenza, il Paese ha goduto di grandi investimenti stranieri e l’ingresso d’importanti partner internazionali. Tuttavia, la turbolenza del mercato globale ha avuto un duro effetto a catena sul promettente futuro petrolifero del Senegal. In particolare, il primo sviluppo petrolifero del Paese, il progetto offshore Sangomar da 4,2 miliardi di dollari ha subito un’enorme flessione poiché non si riesce a vedere finalizzati gli accordi sul debito. Comunque sia, il Senegal è senza dubbio uno dei produttori di petrolio e gas più promettenti dell’Africa. Guidato dal Presidente Macky Sall, il Paese è pronto per una nuova crescita e per investimenti nonostante ciò che sta accadendo nel mercato globale. Vi sono concrete speranze di vedere buoni risultati dallo sfruttamento del giacimento petrolifero Sangomar e del primo gas dal progetto GNL Greater Tortue.
Per la Nigeria ci sono altri rischi?

La riduzione del prezzo del petrolio creerà enormi problemi per la Nigeria che è il più grande produttore di petrolio dell’Africa. Mele Kyari, amministratore delegato della Nigerian National Petroleum Corporation, ha dichiarato che a un prezzo del greggio di 22 dollari al barile, i produttori di petrolio ad alto costo come la Nigeria dovrebbero considerarsi fuori dal mercato. Gli esperti hanno previsto che il coronavirus avrebbe causato al Paese le maggiori perdite nel continente con 15,4 miliardi di dollari, pari a circa il 4 per cento del PIL nazionale, una valutazione equa considerando che il Paese ha oltre 58 miliardi di dollari in progetti petroliferi e rischia di subire ritardi o cancellazioni. La sua produzione petrolifera contribuisce generosamente alla sua economia. In particolare, l’agenzia del petrolio del Paese ha ordinato alle compagnie petrolifere e a quelle del gas di ridurre la propria forza lavoro offshore e passare alle rotazioni del personale di 28 giorni al fine di evitare la diffusione del coronavirus. Il governo del Paese è convinto che, anche se è difficile vedere la luce in fondo al tunnel, con l’impegno di aziende e resilienza del governo, la Nigeria possa certamente resistere nel medio tempo alla tempesta causata dal Covid-19. Se non ci saranno opportune misure di tutela dei confini, la crisi in Nigeria porterà a maggiore immigrazione clandestina di nigeriani verso l’Italia e, conseguentemente, un “rinforzo” delle compagini di mafiosi nigeriani che già numerosi creano problemi nelle nostre città concorrendo al mercato della droga e alla criminalità in genere. La mafia nigeriana con la sua violenza e crudeltà è un grave pericolo.

on line il 16 Aprile 2020  su MeridianoItalia.tv

L’Ue tra i moniti della Corte di giustizia e le sentenze della storia

 

Fausta Speranza

Nel pieno dell’emergenza da pandemia in Europa, arriva la sentenza della Corte Ue che inchioda tre Paesi dell’est europeo alle loro responsabilità in tema di mancati ricollocamenti di richiedenti asilo. Un pronunciamento importante a difesa delle regole condivise che non deve passare inosservato. E’ anche una “sentenza” per gli annali della storia sul ruolo svolto in prima linea dall’Italia e dalla Grecia in difesa dei valori di umanità

Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca sono a tutti gli effetti inadempienti di fronte al diritto europeo in tema di migranti. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Ue accogliendo, in questi giorni, i ricorsi presentati dalla Commissione europea contro i tre Stati membri che, prima, nel 2015, hanno votato la misura delle quote che doveva sostenere i Paesi più esposti agli straordinari flussi provenienti dalla rotta balcanica, e, poi, non hanno mai aperto le frontiere alle poche decine di migranti assegnati a ciascun Paese. L’annosa querelle è emblematica della scelta di questi Paesi di arroccarsi – in altri casi anche con la Slovacchia – su posizioni fortemente polemiche nei confronti delle scelte di unità che l’Europa è chiamata a fare. E’ il cosiddetto fronte di Visegràd, dal nome della cittadina ungherese nella provincia di Pest che ha ospitato il primo vertice di “ribellione” dell’Est europeo. Un fronte che non va dimenticato parlando sempre di braccio di ferro tra Nord e Sud d’Europa.
Già nel 2017 la Corte aveva respinto l’istanza di Budapest, Varsavia e Praga, che chiedevano di essere esentati dalla decisione delle quote, assunta il 22 settembre 2015 dal Consiglio europeo al completo, dunque, anche con i loro rispettivi capi di Stato e di governo. In quel momento era fondamentale dare respiro alla Grecia e all’Italia che, oltre all’ondata straordinaria di flussi migratori nell’autunno del 2015 continuavano ad essere terreni di approdo di migliaia e migliaia di richiedenti protezione internazionale. Un milione di siriani tra questi venne accolto in Germania. Si decise di ricollocare altri 120.000 in altri Stati membri su base obbligatoria.  Ma non tutti hanno fatto la loro parte.
Finora il mancato adempimento è stato giustificato con una propaganda vecchio stile: in Paesi che hanno avuto il comunismo, i politici usano ripetere che non è possibile imporre dall’alto le decisioni e per “alto” intendono Bruxelles, anche se a quel vertice hanno seduto e hanno votato tutti i leader Ue. Ma se l’opinione pubblica dei Paesi incriminati è più o meno soddisfatta da queste spiegazioni, non si capisce perché l’opinione pubblica degli altri Paesi membri – quelli che non sono stati alleggeriti, ma anche quelli che hanno invece ottemperato ai loro obblighi – non supportino la battaglia per il rispetto degli impegni presi. La posta in gioco non è di poco conto: c’è la giusta considerazione per le regole condivise. Il punto è che, a questo proposito, sembra che nessun Paese possa scagliare la prima pietra, che si tratti di sforamento di budget, di quote, di mancati controlli alle dogane di materiali da altri Paesi terzi, di politiche fiscali ai margini del consentito, etc etc.
Questa sentenza chiude un iter che, nel rispetto dei meccanismi democratici di 27 Paesi, non può che prendere tempo. Il punto è che arriva dopo cinque anni in un’Europa diversa e, soprattutto, in questo momento in preda al ripiegamento all’interno delle singole frontiere imposto dall’emergenza della pandemia. E a queste sfasature l’Europa non è nuova.
Così rischia di cadere nel vuoto la sentenza della Corte che – vale la pena sottolineare – da un lato, ha riscontrato l’esistenza di un inadempimento da parte dei tre Stati membri di una decisione obbligatoria, dall’altro, ha constatato che la Polonia e la Repubblica ceca erano venute meno anche agli obblighi derivanti da una decisione anteriore (14 settembre 2015) che il Consiglio Ue aveva adottato per il ricollocamento, questa volta su base volontaria, di 40.000 richiedenti asilo dalla Grecia e dall’Italia. E va detto che la Polonia aveva promesso di accogliere 100 persone e la Repubblica Ceca 50, dunque non numeri tali da imbarazzare nessun Paese. Ma neanche questo impegno era stato portato a termine.
Per quanto riguarda l’Ungheria, dove nei giorni scorsi, appellandosi all’emergenza del coronavirus, il primo ministro Viktor Orbán ha assunto i pieni poteri esautorando il parlamento, la memoria va a quelle settimane di pressione alle frontiere sulla cosiddetta rotta balcanica. Attraversando frontiera per frontiera – tra Serbia, Ungheria, Croazia, Austria – ricordiamo le migliaia di persone ammassate, molte in fuga dalla follia della guerra e del sedicente stato islamico tra Siria e Iraq. Ricordiamo distintamente che erano in maggioranza famiglie, ma dalla televisione ungherese in tutti i servizi sull’argomento si vedevano tutti uomini, solo uomini soli. Quel messaggio studiato per creare diffidenza resta una costante di tutta questa vicenda in evoluzione.
Ma va detto anche che, sempre in questi giorni, si registrano decisioni di segno diverso: otto Stati membri hanno dato il via alle procedure per accogliere entro la settimana di Pasqua 1600 minori non accompagnati dalle isole greche. Anche questa è Europa, anche se non fa notizia.
Andando oltre la cronaca, c’è la consapevolezza che negli annali di storia, quando si parlerà dei tragici viaggi della disperazione che hanno attraversato il Mediterraneo, le pagine più belle per l’Unione europea le avranno scritte proprio l’Italia e la Grecia, quando tra enormi difficoltà hanno difeso senza se e senza ma vite umane. Per il vecchio continente, paladino dei diritti umani, sarà la sentenza più importante.

 2 Aprile 2020  su MeridianoItalia.tv

Salute e solidarietà nel Dna dell’Europa

Fausta Speranza

Difesa della salute pubblica e solidarietà come priorità: si gioca su questi termini la scommessa dell’Ue di fronte alla pandemia da coronavirus. Da più parti si sente parlare di un’Europa “debole” e “egoista”. Si parla di una barca alla deriva e si moltiplicano le voci di chi vorrebbe scendere da quella imbarcazione. A ben guardare, difficilmente si trovano altrove le stesse basi giuridiche chiaramente espresse proprio a favore dei cittadini, che costituiscono le fondamenta della costruzione europea. E infatti è stato chiaro, nei giorni scorsi, il pronunciamento fattivo e concreto dell’Europarlamento e della Commissione stessa, che sono rispettivamente l’espressione diretta del voto dei cittadini e l’esecutivo comunitario. La battuta d’arresto c’è stata, venerdì 27 marzo, per la sospensione voluta dal Consiglio europeo, consesso dei capi di Stato e di governo, dove non di rado si arenano gli slanci in avanti per il prevalere di egoismi nazionali. Ma allora il problema non è nella barca, ma in chi la guida. Conviene dare uno sguardo al cantiere originario e alle regole che dovrebbero segnare la navigazione. Si scoprono le intenzioni chiarissime dei padri fondatori, ma non solo. Si scopre che in quel cantiere qualcuno ha continuato a lavorare e che nel Trattato di Lisbona si trovano àncore di tutto rispetto: a difesa proprio della salute di tutti i cittadini dell’Ue e del principio sacrosanto della solidarietà. Piuttosto che invocare l’abbandono della nave, bisognerebbe richiamare i capitani al rispetto delle normative.

C’era profonda idealità e grande concretezza su vari piani, ma anche una consapevolezza fondamentale: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto.” Non poteva che essere un working in progress di anni e anni. Dunque, invece di ipotizzare di buttare a mare la barca, bisogna avere più chiara la rotta e incalzare i capitani di bordo perché si vada avanti e non indietro, perché si superino gli egoismi nazionali piuttosto che lasciare loro campo libero senza freni. Certamente nessuna avventura di questo tipo si fa andando a rimorchio, senza progettualità o decisionalità. Resta valida, infatti, anche un’altra convinzione di Schuman: “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”. Mandare la costruzione europea alla deriva, con tutti i suoi principi, non è un’idea creativa. Piuttosto apre a un naufragio assistito.

  29 Marzo 2020   MeridianoItalia.tv