L’Italia e la “terza guerra mondiale” a pezzi

Fausta Speranza 

Le sfide  della globalizzazione diventano più urgenti di fronte agli interrogativi suscitati dalla pandemia da coronavirus. Emerge l’esigenza di forme di governance globale all’altezza della complessità delle relazioni tra gli Stati e dei bisogni dei cittadini. In particolare cresce la domanda all’Europa di una risposta comune ed efficace, che scongiuri la disaffezione. Sullo sfondo restano i conflitti e le disuguaglianze che caratterizzano questo tempo in tutto il mondo e i possibili sviluppi di intese. Per l’Italia, primo Paese democratico ad affrontare lo tsunami del contagio diventato modello per altri, si profilano nuovi margini di impegno e l’orizzonte della presidenza di turno del G20 nel 2021. Il contributo particolare che l’Italia può dare è su più fronti, a partire dallo spessore umanistico che ha guidato il vecchio continente nei percorsi più illuminati della Storia.


L’interdipendenza da anni ci chiede di pensare un vero progetto comune, da tempo si parla di una globalizzazione che non può restare senza forme di governance globale. L’infezione da Covid 19 ci ha inchiodati alle urgenze. Non ci sono solo i sistemi sanitari, la viabilità mondiale ad essere messi in discussione dalla pandemia, ma un mondo che tende a ridistribuire la potenza politica e la ricchezza concentrandola in capo ai giganti emergenti. Mentre registravamo il moltiplicarsi di conflitti e l’inasprirsi della forbice delle disuguaglianze sociali in praticamente tutte le aree geografiche, è arrivato lo spettro di una debacle dell’economia ma, soprattutto, si profila il rischio di mettere in discussione l’ordine liberale su cui ci siamo basati per decenni.

L’Italia, primo Paese democratico ad affrontare lo tsunami del contagio, è diventata modello per altri Paesi che pensavano di gestirlo diversamente. Sembra l’occasione simbolicamente propizia per riscoprire le potenzialità della penisola a sud d’Europa e a nord del Mediterraneo. E la presidenza di turno del G20 nel 2021 può rappresentare l’orizzonte di un impegno che deve e può avere come faro lo straordinario spessore umanistico che ha salvato il vecchio continente dai periodi più bui.

Come dice papa Francesco, nel mondo è guerra mondiale a pezzi. Non si può negare visto l’attuale numero di focolai di violenze. Stanno in guerra per la sopravvivenza anche gli 820 milioni di persone che ogni giorno soffrono la fame, mentre il divario tra ricchi e poveri è aumentato al punto che l’un per cento della popolazione globale possiede una ricchezza pari a quella del restante 99 per cento. E hanno un nemico da sconfiggere anche i 40 milioni di vittime dell’ignobile tratta di esseri umani. Il fenomeno è trasversale perché, in una fase storica segnata dalle multinazionali, anche gli affari criminali viaggiano su scala globale. E la globalizzazione delle organizzazioni illecite non conosce crisi o recessioni: hanno accesso ai fondi che provengono dalle attività criminose che non si fermano e non rallentano durante i periodi di crisi.

Sarebbe bello pensare che siano motivo di speranza le mobilitazioni di piazza cui abbiamo assistito dal Nord Africa al Medio Oriente, da Hong Kong all’America Latina. Vogliamo credere che siano il segno di processi evolutivi, ma per il momento sono innanzitutto la manifestazione delle diverse profonde lacerazioni sociali che imbrigliano i Paesi.

Da una parte, la globalizzazione ha migliorato le condizioni di vita in larga parte del globo, dall’altra, ha provocato tensioni e disuguaglianze pronunciate nei Paesi a economia matura e ha finito di strozzare alcune piccole economie locali. Risulta insufficiente l’azione delle istituzioni economico-finanziarie multilaterali e questa consapevolezza ha generato una diffusa disaffezione delle popolazioni verso queste stesse istituzioni, Unione Europea inclusa. Il punto è che mentre aumentano le esigenze di governance globale vengono messi in discussione i mezzi che permettono di soddisfarle. Ma in discussione devono essere la soluzione multilaterale o, piuttosto, le insufficienze delle istituzioni che incarnano l’ordinamento internazionale? La chiarezza nel porsi questo interrogativo è doverosa. Si palesa la sfida delle sfide: quella di respingere la tentazione di tornare alla concorrenza fra gli Stati, come un secolo fa.

Il multilateralismo ha consolidato le prerogative dei cittadini, che, espresse e riconosciute in precedenza dalle sovranità individuali degli Stati, si sono successivamente trasfuse nella protezione offerta a livello internazionale. Basti pensare alla Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo. Ma di questi tempi non possiamo dare per accantonato definitivamente il criterio della forza. Negli Stati Uniti d’America, ad esempio, ci si interroga sulla bontà di ambiti e sistemi in cui la applicazione del requisito “uno Stato un voto” può portare alla spiacevole sensazione di soggiacere a decisioni prese da altri. Prendono forza anche altrove posizioni a carattere revisionista, rispetto a quelle all’origine della creazione dell’architettura degli organismi internazionali. Sostituire alle politiche di cooperazione quelle di competizione certamente non aiuterebbe. E’ urgente difendere pace e giustizia al centro dei doveri degli Stati nei rapporti internazionali. E’ quello che emerge dalla Costituzione italiana in particolare dagli art. 10 e 11 che indirizzano e guidano l’azione della Repubblica. Può essere la prima indicazione di rotta per la presidenza italiana del G20.

Dopo la crisi finanziaria del 2008 i leader mondiali hanno cercato soluzioni multilaterali anche in tema di economia e hanno tenuto il primo vertice dei leader del G20 a Washington, andando oltre il ristretto orizzonte dei 7 (o 8 con la Russia) Paesi più industrializzati. Insieme, i membri del G20 rappresentano circa il 90 per cento del Pil mondiale, l’80 per cento del commercio globale e i due terzi della popolazione, nonché circa il 60 per cento dei terreni coltivabili e l’80 per cento circa del commercio di prodotti agricoli. Avevamo pensato di circoscrivere così il dibattito al margine da dare o meno al multilateralismo, mentre si discuteva di una possibile riforma delle Nazioni Unite che rispettasse meglio gli equilibri attuali tra Paesi. Il coronavirus, invece, con la sua spiazzante capacità di intrusione in quasi ogni angolo di mondo e di scuotimento di ogni sistema Paese, ha centrifugato i dibattiti. Resta una prospettiva sopra qualunque altra: mettere al riparo dalle spinte nazionalistiche i pilastri della democrazia e i presupposti del bene comune: significa lotta alla povertà e alle ingiustizie sociali, difesa di valori come la solidarietà. Pensavamo di averlo fatto con la costruzione europea, ma è ancora troppo fragile in tema di politica estera e di politica economica. Due aree chiamate direttamente in causa dalla pandemia del Covid 19. La sensazione è davvero di essere a un bivio: o rafforziamo le architravi istituzionali o ci sarà spazio solo per nazionalismi e potenze regionali. I cittadini europei, passata l’emergenza e i flash mob di incoraggiamento, potrebbero scoprirsi più disorientati, più arrabbiati di prima. Si può fare tanto su tematiche specifiche come quella urgente della questione fiscale. L’Ocse lavora per la creazione di un nuovo sistema internazionale adeguato al ventunesimo secolo, che corregga almeno due grossi vulnus. Il primo è che gli utili dei colossi tecnologici – siano statunitensi, europei o cinesi – non sono tassati in modo adeguato. Il secondo è che l’attuale sistema consente il dumping fiscale e distorce la concorrenza.

Vale la pena ricordare l’intelligente provocazione che George Orwell mette in bocca a uno dei suoi personaggi di 1984: “La scelta per l’umanità è tra libertà e felicità e per la stragrande maggioranza la felicità è meglio”. Se il prezzo della crisi che inesorabilmente si pagherà a seguito del Coronavirus dovesse essere riversato sui cittadini – come è stato per i danni della finanza creativa a partire dal 2008 – potremmo assistere a un’onda di nazionalsocialismi populisti, razzisti, totalitari più lunga e invasiva del previsto. Potremmo scoprire che, nonostante i numeri sull’alfabetizzazione, ampie fette della popolazione non hanno consapevolezza che non può esserci felicità senza libertà. Abbiamo già avuto un’idea di cosa comporti manipolare fette di popolazione con le fake news. Non significa solo una rovinosa resistenza nei confronti dei vaccini. Significa far passare i limiti delle democrazie come più gravi di ogni limitazione dei regimi dittatoriali o semi dittatoriali che assicurano il soldo. Va scomodato Toqueville, che insegna: “La democrazia è il potere del popolo informato”. Se è solo potere di popolo è populismo. Servono buon giornalismo e Sapere. Ma innanzitutto ci vogliono buone politiche da raccontare. Il punto è che, se viene meno la capacità da parte delle democrazie occidentali e in particolare dell’Europa di difendere i propri cittadini rischia di venir meno non solo la fiducia nell’Europa unita, ma anche in quello che rappresenta: un baluardo a difesa dello Stato di diritto. Per l’Italia c’è un terreno particolarmente fertile. Le politiche di sviluppo comprendono anche missioni negli ambiti della ricerca archeologica, antropologica, etnologica, che si estendono cronologicamente dalla preistoria all’epoca medioevale e geograficamente dal Vicino Oriente all’Africa, dall’Estremo Oriente all’America Latina. Non si tratta solo di attività scientifica di studio, ma di un prezioso strumento di formazione nel settore del patrimonio culturale in cui l’Italia si colloca a un livello di eccellenza internazionalmente riconosciuto. Come avremo bisogno di regole comuni per affrontare la crisi delle aziende – quello del settore aereo è solo un esempio – così avremo bisogno di regole comuni per difendere lo spazio culturale, che rappresenta il più privilegiato luogo di incontro, di promozione del dialogo, antitesi dei conflitti. E l’Italia deve sapersi giocare la carta della sua cultura così centrale nella vicenda del mondo Occidentale. Un patrimonio unico di umanesimo da rimettere in campo.

Alcuni scenari particolari:

Europa all’appello

Per i Paesi occidentali che ci siamo abituati a ritenere leader in tema di pace e di sviluppo dobbiamo considerare sfide cruciali.

       L’Europa ha aperto l’anno con la certezza della Brexit ma anche con tutti gli interrogativi sulla sua attuazione. Dal 1 febbraio è iniziato il periodo di transizione fissato fino alla fine del 2020. Fino al 31 dicembre di quest’anno non doveva cambiare nulla, ma il coronavirus non era previsto. Le incertezze hanno lasciato il posto a assoluti punti interrogativi. Diciamo che ci sono in ballo diverse centinaia di migliaia di posti di lavoro tra l’Europa e il Regno Unito. Finora il premier Boris Johnson ha detto che non ci sarà assolutamente nessun rinvio e che quindi o si chiude un accordo commerciale con l’Unione Europea entro dicembre oppure il Regno Unito sarà fuori senza accordo. Ma nel frattempo è arrivato il coronavirus e rinviare le scadenze potrebbe essere una priorità per tutti. Finora non si è mai vista l’Ue tanto unita come nel fronteggiare il Regno Unito. Sarebbe fallimentare cambiare registro.

       Intanto, l’Europa si è chiusa al mondo. E si spera sia un segno di compattezza e non la somma di tante chiusure. La decisione di serrare per un mese le frontiere esterne con le dovute eccezioni è  stata accompagnata da propositi di solidarietà: corsie preferenziali per il passaggio dei materiali medici, difesa della libera circolazione delle merci sul territorio, primi aiuti. E’ evidente che siamo davanti a una decisione senza precedenti in risposta alle serrate in ordine sparso tra i Paesi dell’area Schengen cui si è assistito man mano che il virus faceva la sua comparsa nei Paesi membri.

         Di fronte al Covid 19 l’Italia ha scelto, senza se e senza ma, la salute della popolazione e gli altri governi, dopo aver accarezzato l’idea della cosiddetta “immunità di gregge” per non fermare l’economia, hanno seguito lo stesso esempio. E, a quel punto, l’Europarlamento e la Commissione si sono sbilanciati a promettere che l’Ue sarà unita, mettendo in campo risorse considerevoli per fronteggiare il contraccolpo finanziario e soprattutto autorizzando deroghe al patto di stabilità. Si è tornato a parlare di bond comunitari, invocati come coronavirusbond dal presidente del consiglio dei ministri italiano Giuseppe Conte. Per anni nostri economisti, come il professor Alberto Quadrio Curzio, hanno invocato eurobond. E deve essere immediatamente chiaro che stare dalla parte dei cittadini in questa emergenza attuale deve significare combattere l’infezione ma anche prepararsi a gestire il dopo tsunami in termini di conseguenze economiche per cittadini, famiglie, imprese. Dopo anni di espressioni retoriche sull’ultima chiamata all’Ue, si avverte esattamente la sensazione che si sia arrivati all’ultimo appello.

Gli Stati Uniti al voto

         Negli Stati Uniti la rielezione di Trump nel voto presidenziale di novembre prossimo sembrava scontata fino all’arrivo del coronavirus, fattore in grado di rimettere in discussione le certezze della sua politica sotto lo slogan America first e il suo carisma. Trump ha prima relegato la questione a un virus cinese non arginato in un Paese come la Cina che “ha nascosto i pericoli” o “in un Paese piccolo come l’Italia”. Ha poi dovuto ammettere l’emergenza nazionale nel giro di pochi giorni prendendo atto del contagio in tutti e 50 gli Stati dell’Unione. Inizialmente ha annunciato lo stop ai voli nei Paesi europei ad eccezione del Regno Unito, dove il premier Johnson difendeva la scelta di non fermare nessuna attività, ma nell’arco di 24 ore ha tagliato fuori dalle rotte aeree anche la Gran Bretagna.  Nelle stesse ore, il fronte democratico, con le primarie, si è compattato intorno alla figura di Joe Biden. Potrebbe ora trovare terreno più fertile nella battaglia contro l’approccio iperliberista difeso da Trump anche in tema di sanità nazionale.

Il gigante cinese

         La Cina in pochi anni ha sviluppato una forte e moderna economia, che le ha fatto raggiungere nel 2014 il traguardo di prima economia mondiale per PIL a parità di potere d’acquisto. Non è più solo la “fabbrica” del mondo, ma ha anche una certa propensione al consumo, ed è diventata leader dell’high-tech, dell’alta velocità, dell’elettronica, dell’energia rinnovabile. Le scelte geopolitiche del governo di Pechino stanno rivelando la volontà di guidare il mondo. Ora, dopo diversi mesi sotto l’assedio del coronavirus fa i conti con i rientri di connazionali infettati all’estero e soprattutto con le conseguenze dello tsunami dei contagi.  Nell’immaginario resta la figura del dottor Li Wenliang che per primo ha segnalato in un gruppo privato di WeChat, l’app di messaggistica cinese, la possibile esistenza di un nuovo virus dello stesso genere della micidiale Sars. E’ stato interrogato dalla polizia locale con l’accusa di aver diffuso falsi allarmi e costretto a firmare una dichiarazione in cui ammetteva le sue responsabilità. È stato riabilitato solo dopo che il governo centrale ha diffuso la notizia ufficiale dell’epidemia. Alla sua morte per Covid 19, un gruppo di intellettuali ha immaginato una giornata per la libertà di espressione proprio nel giorno della sua scomparsa. Sui social effettivamente è esplosa la rabbia dei cittadini sui ritardi, ma il governo centrale ha risposto incriminando le autorità locali. Resta quell’hashtag condiviso milioni di volte prima di essere censurato: “Noi vogliamo la libertà di parola” (我们要言论自由 wŏmen yào yánlùnzìyóu).    In Cina si sta formando, lentamente, una società civile che cerca di erodere la centralizzazione politica. Ma l’emergenza da coronavirus in realtà, al di là della figura del dottor Li, rischia di limitare l’evoluzione di tale mobilitazione, in particolare con la quarantena forzata di milioni di cittadini e il controllo serrato su internet come sui movimenti delle persone.

         Non si può dimenticare Hong Kong, dove a quasi un anno dal loro inizio, le proteste non sono sparite a fine anno soltanto dalle home page dei siti internazionali, ma anche dalle strade della regione autonoma cinese nella quale per mesi centinaia di migliaia di manifestanti hanno chiesto più democrazia e maggiore indipendenza dalla Cina. Oltre 7.000 arresti, migliaia di feriti e almeno due morti direttamente legati alle proteste. La svolta c’è stata dopo il trionfo alle elezioni locali dei partiti   che sostenevano i movimenti delle proteste, con un tracollo di quelli legati all’establishment di Hong Kong e al partito comunista cinese.

L’incognita Russia

         Per la Russia è stato giallo coronavirus: per diverse settimane non si aveva notizia di casi nonostante i forti scambi con l’Europa e la Cina. Poi il 18 febbraio è arrivata la prima vittima. Il momento è cruciale per il presidente Putin: alla guida del Paese da vent’anni alternando il ruolo di primo ministro e di presidente, si prepara a succedere a se stesso con una riforma costituzionale che cancella il limite dei due mandati e consente al presidente in carica di ricandidarsi nel 2024. Dopo l’approvazione in parlamento e il placet della Corte Costituzionale che ha dichiarato le riforme “compatibili con la legge”, l’ultimo passo da fare è il referendum. La data individuata è quella del 22 aprile, ma non è detto che – a causa dell’emergenza coronavirus – non sarà rinviata.

  Sulla via della Seta polare

       Lo scorso 2 dicembre, in videoconferenza rispettivamente da Sochi e Pechino, il presidente Putin e il presidente Xi Jinping hanno assistito all’inaugurazione del gasdotto Forza della Siberia e simbolicamente rilanciato le relazioni commerciali e politiche tra i loro due Paesi. Il prezzo del gas rimane un segreto commerciale, ma fonti confermano che il valore complessivo del contratto (valido per i prossimi 30 anni) si aggira sui 400 miliardi di dollari. Sebbene in passato le relazioni tra i due Paesi siano spesso state animate da sentimenti contrastanti, ora viene rilanciato “il partenariato strategico russo-cinese nel settore energetico a un livello completamente nuovo”, per usare le parole dello stesso presidente russo.

         Oltre a gasdotti ed esercitazioni militari congiunte, Russia e Cina puntano anche a rafforzare i loro legami commerciali. L’anno scorso il volume degli scambi commerciali sino-russi ha raggiunto per la prima volta la cifra di 100 miliardi di dollari, e si punta al raddoppio entro il 2024. C’è la Via della Seta Polare. La regione artica è ricca di risorse e ha un grande valore politico e commerciale. Idealmente connette Asia, Europa e Nord America, cioè le regioni dove si concentra il 90 per cento del commercio internazionale. I cambiamenti climatici e lo scioglimento dei ghiacci, in particolare nei mesi estivi, potrebbero aprire un nuovo ventaglio di opportunità che sia Russia e Cina sono ansiose di esplorare.

         Mosca e Pechino hanno infatti subito entrambe delle “sanzioni” da Washington, sia di tipo politico che economico. Entrambi i Paesi contestano l’egemonia statunitense e cercano di trovare nuove alternative all’attuale ordine mondiale, seppur ovviamente con mezzi e modalità diverse. Vedremo se il 2020 rafforzerà o meno l’intesa tra Mosca e Pechino e cosa potrà il coronavirus. In questa e in altre convergenze.

 Nel bollente contesto del Vicino e Medio Oriente

         Il conflitto israelo-palestinese si è riacutizzato mentre non si fermano le violenze a Gaza e in Cisgiordania. C’è nuova tensione dopo la scelta del presidente Usa Trump di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, nel 2019, e poi, a inizio del 2020, di proporre un piano di pace che prevederebbe, tra l’altro, il riconoscimento da parte palestinese di “Gerusalemme capitale indivisa di Israele”.

          Il braccio di ferro tra Stati Uniti e Iran è stato segnato il 3 gennaio del 2020 dall’uccisione voluta da Trump del generale di Teheran Qasem Soleimani, capo della Niru-ye Qods, l’unità delle Guardie della Rivoluzione responsabile per la diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla repubblica islamica.  Al di là dell’immediata rappresaglia iraniana l’8 gennaio contro basi statunitensi in Iraq, si sono aperte nuove falde di conflittualità e si sono rafforzate alcune distanze su quello internazionale, a partire dalla difficile posizione dell’Ue nei confronti della politica estera statunitense e dall’accentuata lontananza tra l’amministrazione a Washington e la presidenza di Vladimir Putin a Mosca, da sempre alleato dell’Iran.

         Peraltro in Iran, mentre cresce l’epidemia di coronavirus e aumentano le sue vittime, a causa della mancanza di personale medico e della loro stanchezza per il grande numero di pazienti, riemerge il rischio di una rivolta popolare.

       Tralasciando l’escalation di tensione tra Israele e Hezbollah nel sud del Libano, bisogna guardare alla crisi siriana. Il conflitto è entrato nel suo drammatico decimo anno di carneficina. Nel nord ovest si continua a combattere mentre in tutto il Paese scarseggia cibo e oltre la metà delle strutture sanitarie risulta distrutta. Gli ospedali, infatti, sono stati e sono presi di mira dai bombardamenti. E’ solo una delle prove dell’assenza ormai totale di qualunque rispetto del diritto internazionale in materia di belligeranza. La crisi in Siria, scoppiata il 15 marzo 2011 con le prime dimostrazioni pubbliche contro il governo, è diventata “guerra civile”, segnata dal dilagare tra Siria e Iraq del cosiddetto califfato del sedicente Stato islamico (Is) sconfitto solo nel 2017. Sono intervenuti sul campo Russia, Stati Uniti, Turchia, oltre ad altri attori regionali, come l’impegno delle forze curde contro l’Is e la partecipazione dell’Iran – insieme con Mosca e Ankara – ai colloqui di pace ad Astana, in Kazakhstan, in parallelo a quelli dell’Onu a Ginevra. A inizio 2020 sono saltate alcune alleanze contro i ribelli: l’esercito siriano e quello turco si scontrano. Damasco accusa Ankara di ingerenza sul suo territorio e Ankara accusa Damasco di non rispettare la zona di de-escalation stabilita in precedenza nell’ambito dei colloqui tra Siria, Russia, Turchia, Iran. Di fatto, nella fase finale del conflitto si è aperta la questione della spartizione di potere sul territorio siriano tra quanti hanno appoggiato il presidente al-Asad. In gioco c’è il controllo di porti e pozzi petroliferi. A questo punto è evidente che si ragiona solo in termini di capacità di azione di potenze regionali con buona pace del diritto internazionale. E l’Occidente non dovrebbe girarsi dall’altra parte.

         L’aggravarsi della situazione umanitaria nello Yemen è un altro motivo di seria preoccupazione. Dopo l’accordo di Hodeidah tra l’esercito appoggiato dalla coalizione a guida saudita e i ribelli non è finito il dramma delle forniture e degli approvvigionamenti essenziali per una popolazione stremata.

         L’Iraq, dopo gli indicibili crimini inflitti dal sedicente Stato islamico alla popolazione – in particolare ai membri di minoranze religiose ed etniche – offre qualche speranza nel procedere verso la via della riconciliazione e della ricostruzione, ma la fase è estremamente delicata tra forti proteste e scontri. E il Paese è diventato terreno di confronto, tra l’altro, tra Washington e Teheran, che vorrebbe vedere ritirarsi tutte le forze statunitensi dal territorio iracheno. Anche in questo caso si palesa con sempre maggiore inquietudine la questione dello sfruttamento delle risorse energetiche.

         C’è poi la tensione nello Stretto di Hormuz, un limitato tratto di mare che divide il Golfo Persico dal Golfo dell’Oman che è stato al centro delle cronache a metà 2019. Da non dimenticare: anche qui, tra attacchi alle petroliere e abbattimenti di droni, si gioca la competizione tra Iran e Stati Uniti. Sullo sfondo rimane l’irrisolta contrapposizione tra Arabia Saudita e Iran.

         Spostando lo sguardo all’Afghanistan troviamo un Paese che gioca la sua partita più importante: per la pace con i talebani. Si sono seduti al tavolo delle negoziazioni con gli Stati Uniti ma non si può sapere cosa succederà se le forze Usa si ritireranno. A diverso titolo sono tanti gli altri attori statali coinvolti: Pakistan, Russia, Cina ed Iran sono tra i principali e tutti con interessi contrastanti. E  il cosiddetto Stato Islamico è stato sconfitto in Iraq e Siria, ma da sempre ha scelto l’Afghanistan come una delle sue principali basi operative.

L’Africa tra conflitti e carestie

       Al conflitto in Libia fa da sfondo la crisi nella martoriata zona del Sahel che si protrae da anni tra vecchio terrorismo, disgregazione militare, traffico di esseri umani. La sensazione è che ci sia un filo stretto tra questi fattori e che l’uno giochi a sostegno dell’altro. Di fatto, Nigeria, Niger, Burkina Faso sono solo alcuni dei 16 Paesi dell’area colpiti da guerre, instabilità, carestie, in un’area vastissima che parte dalle coste mediterranee libiche e si spinge fin giù alla cosiddetta “linea del sale”, per commerciare esseri umani o i loro organi. E la pace vacilla anche oltre questo orizzonte se si pensa che nel pacifico Camerun sono scoppiate violenze in seguito alle rivendicazioni delle regioni anglofone, mentre proseguono le scorribande di Boko Haram. La speranza va alla vicina Algeria dove abbiamo assistito per mesi a proteste sempre e solo di stampo pacifico, dove però, dopo la caduta di Bouteflika, le manifestazioni non si sono fermate perché sono state forti le forze in difesa del sistema autoritario anche senza la presenza del presidente al potere da 20 anni.

L’America Latina in rivolta contro le disuguaglianze  

       Un punto fermo in America Latina è il dramma del traffico degli stupefacenti e delle armi. E poi c’è una certezza: anche qui i trafficanti di esseri umani, che “masticano” di geopolitica, si adattano alle situazioni, rimodellano i percorsi, ma non perdono il business. C’è stata l’emergenza delle carovane di migliaia di persone in fuga dagli Stati dell’America centrale verso il Messico e verso gli Stati Uniti. Poi, la crisi politica e la crisi umanitaria in Venezuela – ormai il 90 per cento della popolazione si trova in condizioni di povertà o comunque di insicurezza alimentare – ha mobilitato milioni di persone sulla Ruta andina, la rotta verso Perù, Cile, Argentina. Si sono intrecciati fattori come la caduta del prezzo del petrolio e la resa dei conti per politiche che hanno affamato il grosso della popolazione. In tutto questo frangente, sono esplose proteste e rivendicazioni in un Paese dopo l’altro. E’ un grido ripetuto contro la corruzione e le ingiustizie sociali. E questo accade anche in un Paese come il Cile che consideravamo un’oasi di crescita economica, la Svizzera dell’America Latina. In realtà, rischiavamo di dimenticare un record: è fra i 14 Paesi con maggiore disuguaglianza al mondo. E anche qui, come in Bolivia, Ecuador, Repubblica Dominicana, etcetera, è scoppiato il malcontento. Anche in Colombia, a tre anni dalla firma finale dell’accordo di pace tra governo e il gruppo guerrigliero delle Farc – sottoscritto dopo 53 anni di conflitto – restano tensioni di carattere politico sociale e forti rivendicazioni contro le politiche economiche del presidente Ivan Duque.

         In tutto questo l’America Latina è forse il continente dove si possono trovare le donne più “potenti” e, allo stesso tempo, più maltrattate, ma una speranza viene proprio dall’universo femminile. Sono state diverse le presidenti elette in vari Paesi – un numero molto più alto rispetto all’Europa – e allo stesso tempo prosegue l’escalation di violenze sessuali e soprusi. Negli ultimi anni l’Argentina e il Cile hanno dato vita a movimenti contro la violenza sulle donne, con interessanti flash mob e prese di posizione. Stessa cosa anche in Messico, dove si consuma la più silenziosa guerra civile al mondo con 95 omicidi al giorno e un tasso di impunità in alcune zone del 90 per cento.  Anche in Messico, Paese nel Nord America ma di cultura latina, le iniziative nella giornata internazionale della donna 2020 hanno registrato una partecipazione di massa mai vista.

23 Marzo 2020  MeridianoItalia.tv

Guerriglia urbana in Messico

il commento di Fausta Speranza
18/10/2019

Culiacán, il capoluogo dello stato messicano del Sinaloa, è stata al centro di una vera e propria guerriglia urbana tra polizia ed esercito da un lato e il potente cartello della droga locale dall’altro. Gli episodi violenza, con decine di automobili date alle fiamme, cittadini costretti a rifugiarsi nei bar, è stata scatenata dall’arresto di Ovidio Guzmán López, figlio del narcotrafficante Joaquín Guzmán Loera, più noto come “El Chapo”, e considerato attualmente una delle persone a capo del cartello. Dopo più di dieci ore di scontri si apprende che il figlio di “El Chapo” sia tornato in libertà. Abbiamo chiesto alla giornalista Fausta Speranza, che ha pubblicato per noi un reportage sul Messico dal titolo MESSICO IN BILICO un breve commento che riportiamo qui sotto.

“Si tratta di un episodio che mette in luce soprattutto due elementi: la quantità e il livello di armi a disposizione della criminalità: da dispositivi di precisione a mitragliatrici. E questo deve ricordare che dovremmo chiedere “muri” di diverso tipo non solo contro i migranti ma contro i trafficanti di armi (da Usa a Messico) che sostengono e assicurano il mercato delle droghe.

Il secondo aspetto è quello dell’implicazione, in questo episodio, di forze dell’esercito e della polizia che oltretutto in Messico sono sdoppiate tra quelle federali e quelle dello stato locale. Il presidente Obrador da tempo prospetta la formazione di un’unica Guardia nazionale contro i narcos per “ottimizzare” ed evitare sovrapposizioni e maglie in cui si annida e rafforza la corruzione. Ma ci sono resistenze varie, mentre la popolazione ormai non ha più nessuna fiducia nei confronti nei confronti di nessuna divisa. Tutto questo rafforza le posizioni di chi come il figlio di “El Chapo” sta riorganizzando il crimine in Messico.”

Fausta Speranza

dal Treno della memoria 2019

  

“Troppo spesso la gente esige la libertà di parola per compensare la libertà di pensiero che invece rifugge”. Sono parole di Søren Kierkegaard di due secoli fa. Il filosofo danese non ha conosciuto le derive logorroiche che accompagnano oggi i social, ma ha fotografato l’attitudine umana che viene prima di qualunque assoggettamento alla tecnologia. L’attitudine a dare e a darsi risposte facendo a meno degli interrogativi, o partendo sempre dalle stesse domande.  Risposte possibilmente a voce alta, per imporle e imporsi, per provare a considerarsi importanti, o forse semplicemente per sentirsi vivi o darsi coraggio. Comunque, risposte, troppo spesso lapidarie,  come sono oggi le notizie postate e condivise: senza fonti, vere per assioma, perché non ci si chiede se siano false. Ma c’è almeno un posto al mondo dove tutto questo non funziona, dove, chiunque scelga di andare, viene trafitto dagli interrogativi: ad Auschwitz non si trovano risposte.

In quel che resta del campo di sterminio in terra polacca simbolo della follia nazista, si resta inchiodati dalla domanda più angosciosa: come si sia arrivati a così tanta disumanità teorizzata e orchestrata. E l’interrogativo più doveroso riguarda il futuro: se possa ripetersi. Primo Levi, sopravvissuto a Birkenau perché utile chimico e divenuto scrittore di fama mondiale con i suoi racconti, ha chiarito: “E’ accaduto, può accadere di nuovo”.

Partecipare a gennaio 2019 a un “Treno della memoria” della  relativa bellissima associazione del Salento ha significato scoprire quanta meravigliosa voglia di libertà di pensiero – prima ancora del legittimo desiderio di libertà di parola – l’iniziativa riesca a seminare tra i giovani che aderiscono. Gli studenti, preparatissimi, non hanno girato lo sguardo di fronte a nessuna sollecitazione e, soprattutto, al dibattito a conclusione del viaggio ad Auschwitz e a Cracovia, hanno permesso al pensiero di spaziare dal passato all’oggi, con un’assunzione di responsabilità fortissima. La domanda che ha riecheggiato di più, nella sala magna dell’Università che li ha ospitati, è stata: cosa posso fare io. L’orizzonte si è allargato alle sfide attuali che chiamano a muoversi sul crinale dei crinali: tra umanità e disumanità. Il ragionamento è tornato spesso all’immagine dei migranti che gettano nel Mediterraneo le loro vite nel disperato tentativo di salvarle dalle violenze che imperversano nei loro paesi africani o mediorientali. O si è ragionato sul muro che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump propone come risposta alle altrettanto disperate fughe dalla violentissima America Centrale verso il Nord America. La riflessione è arrivata anche alle ingiustizie sociali che trattengono in “ghetti” di fatto centinaia di milioni di persone nel mondo, destinate appena a sopravvivere mentre l’un per cento della popolazione mondiale detiene il 99 per cento delle risorse. Sollecitazioni doverose e pesanti, per le quali non è facile contribuire a cambiare le cose. Ma da quella sala universitaria è emersa chiarissima la responsabilità fondamentale: quella della consapevolezza. Sapere e capire, almeno per non contribuire con scelte quotidiane o politiche a logiche di disumanità, che prendono sempre nuove vesti ma non spariscono dal vissuto dell’uomo. Chiedersi sempre – come ha gridato al mondo Levi – “se questo è un uomo”.

       Unica via possibile per comprendere Auschwitz è studiare il contesto, l’humus che ha dato vita all’odio razziale contro gli ebrei, che in Germania negli anni Trenta del secolo scorso rappresentavano lo 0,8 per cento della popolazione. Non ci si può esimere dal continuare a studiare chi e come abbia incanalato frustrazioni, scontento sociale e valutare quante industrie abbiano guadagnato nell’affare dei forni crematori o del gas letale. Ma i libri non bastano. Lo ricorda lo storico di relazioni internazionali, Daniele De Luca, che non si stanca anno dopo anno di tornare al lager più infame. Insegna ai suoi studenti che si studia il passato per avere il giusto sguardo interlocutorio sul presente e che in qualsiasi fatto storico serve cercare di “starci dentro” il più possibile: leggere di Auschwitz non è uguale a visitarlo. Sentire, sebbene coperti adeguatamente, il freddo gelido del vento di questa zona d’Europa non è uguale a rileggere le testimonianze di sopravvissuti, anche se è impossibile mettersi nei loro poveri panni. In ogni caso – De Luca è perentorio – la visita si fa d’inverno, “perché qualcosa delle terrificanti sensazioni dei prigionieri arrivi sulla pelle”.

Il primo passo è il silenzio: quel silenzio ricco di ascolto vissuto dai ragazzi tra i viali del campo, in cui si è introdotti dalla scritta più beffarda della storia: “Il lavoro nobilita l’uomo”. Un arco di ferro e parole dove ad essere più dure sono le parole, false e irrisorie. L’area inizialmente doveva servire a far tacere i dissidenti polacchi che resistevano all’annessione forzata da parte della Germania, accompagnata dall’intenzione di annichilire cultura e lingua polacche, cancellando ogni segno di civiltà locale. Poi è diventato contesto esemplare, anche se non unico, del drammatico progetto di sterminio degli ebrei.

 Certamente vedere quei sassolini dentro una teca che sono ciò che resta di una produzione massiccia di Zyklon B, l’agente fumigante con cui si pensava di mettere a punto la “soluzione finale”, non lascia indifferenti. L’incredulità ti accompagna nell’area di lavori forzati definita Auschwitz I e nell’area di Monovitz, prima e ultima a essere state ultimate. E l’incredulità resta, mista a angoscia, quando cammini tra le rovine dell’area di Birkenau, voluta e usata espressamente per lo sterminio degli ebrei. E’ stata quella più distrutta dai nazisti in fuga, ma grazie ai racconti, ad  alcune fotografie rubate e a foglietti di appunti sotterrati da disperati che non potevano pensare che la memoria si perdesse, la realtà dei fatti rivive davanti agli occhi e nei ragazzi è stato evidente lo stupore per dettagli che si fissano come pungoli nella mente. In tre sale nel  Blocco II, adibito a carcere e a luogo di tortura, c’era il riscaldamento perché è quanto prevedeva la legge del Terzo Reich per i luoghi di detenzione. Nel gelo dell’inverno nelle capanne di Auschwitz, quelle tre stanzette per condannati, 90 centimetri per 90, erano riscaldate. Giulia si è mostrata sconvolta: «Come si poteva parlare di rispetto della legge?». Forse la consapevolezza più doverosa che sta maturando in questa ragazza è proprio questa: l’orrore è stato voluto pretendendo di stare nella legge. E solo 80 anni fa.

L’orrore è stato concepito, nonché tollerato dal popolo tedesco, in una logica di pianificazione, di strategia: in una combinazione diabolica e unica di ideologia, burocrazia, tecnologia. Ad Auschwitz tutto è stato scientifico. Non si riesce a dimenticare la teca che conserva le due tonnellate di capelli di donna ritrovati nel campo all’arrivo delle truppe russe a fine gennaio 1945, solo perché non avevano fatto in tempo a partire: tutto era perfettamente efficace, infatti, nella catena industriale che li riciclava in tessuti, come riciclava o smaltiva altro. I giovani che abbiamo seguito da vicino, 50 tra i 1500 in visita tra gennaio e marzo, hanno attraversato con attenzione e rispetto tutte le aree, dove hanno trovato dolore e morte migliaia di dissidenti politici polacchi, prigionieri russi, rom e sinti, omosessuali, milioni di ebrei. Hanno scelto di citare a voce alta alcuni nomi di vittime in un consueto momento di commemorazione, che è diventato particolare quest’anno a 15 anni dalla nascita del Treno della memoria.

Nei loro commenti i ragazzi non hanno smesso di ripetere che le atrocità compiute su uomini e donne inermi sono note, ma certamente trovarsi sullo scenario di Auschwitz è “un’esperienza unica”. Lo è stata anche per la giornalista che scrive. Lo è stata anche proprio perché trascorsa tra giovani ricchi di interiorità che restituiscono la speranza che alcuni dati riescono a far vacillare. Primo fra tutti quello relativo ai cosiddetti neet, giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano, non studiano, non seguono corsi di formazione, appunto “Not in Education, Employment or Training”. L’Italia ha il drammatico primato in Europa per numero di neet. Viaggiare tra centinaia di studenti preparati e motivati restituisce fiducia nel futuro. Resta l’inquietante consapevolezza di non avere politici che parlino di questi dati, che affrontino le voragini sociali che rappresentano. Voragini che inghiottono, se non le vite stesse, il senso di quelle vite.

Nel ricordo restano impresse le parole di Fabrizio, che dopo aver partecipato al primo Treno della memoria è tornato ogni anno da volontario dell’associazione. Diventato ingegnere, ci ha spiegato che quel viaggio gli ha “cambiato la prospettiva di vita”: “Ho imparato a sentire la comunità: nello sgomento per ogni negazione dell’umano che ti si palesa a Auschwitz ho sentito il bisogno di avvicinarmi a tutti coloro che come me rifiutano tutto ciò, con altre persone che rigettano qualunque logica di odio tra esseri umani”. Sono parole che ci sembrano “dure” come le parole di quella scritta: “Arbeit macht frei“. Ma non è l’imposizione del male a dare loro rigidità, piuttosto è l’opposto: è la fermezza di chi al male non si rassegna.

In questo, nella caparbia volontà di costruire bene, che argini il male, non si è soli, mai. Lo si è ancora meno se non si dimentica chi ha vissuto prima di noi. L’Europa, nella vulgata comune, sembra essere diventata fonte di problemi, il capro espiatorio per assolvere   politici nazionali incompetenti. Certamente non mancano le scelte inopportune o sbagliate o insufficienti da parte delle istituzioni europee, ma non si può dimenticare che non rappresentano altro che l’insieme dei capi di stato e di governo che il nostro tempo ha partorito. Si possono e si devono mettere in discussione le leadership, ma pensare, in nome di astratti sovranismi,  di distruggere il progetto comune europeo – basato sui principi di pace e di solidarietà – è insensato e terribilmente miope. Non si capisce perché  sfide epocali come flussi migratori o scossoni dell’economia    dovrebbero essere gestite meglio sgretolando la costruzione europea, lasciando tante piccole barchette nel mare della globalizzazione. I paesi membri dell’Ue condividono una cultura dello stato di diritto e di sistemi democratici che le grandi potenze che si affacciano prepotentemente sullo scenario mondiale – Russia e Cina – non sanno cosa siano. Frammentare le forze europee è suicida.

Piuttosto, l’Europa recupera sana vitalità se ritrova il respiro della dimensione di pensiero e di spirito  che era di quanti hanno saputo sognare e progettare un’integrazione di popoli e, dopo la tragedia dei due conflitti mondiali, sono stati capaci di rilanciare sugli individualismi, sulla banalità della litigiosità, sul clamore e il baratro dei proclami vuoti.

Oggi è urgente riflettere su alcune preoccupanti deviazioni dell’attuale discorso politico e mediatico: la semplificazione, la banalizzazione, l’estremizzazione. Imperversano sui social, insieme   con espressioni di razzismo, incitazioni all’odio e alla violenza. Deviazioni che sono possibili perché non c’è memoria di quanto sia costato l’abisso dei totalitarismi. Non c’è memoria dello slancio etico che ha portato, proprio in reazione al nazismo e al fascismo, al sogno di unità che ha accomunato poeti e romanzieri, come Salvador De Madariaga o Thomas Eliot, e intellettuali attivisti come Luigi Sturzo, Altiero Spinelli, Paul-Henry Spaak, prima ancora degli statisti che hanno sottoscritto i trattati europei, Schuman, Adenauer, De Gasperi. Negli scritti illuminanti e piacevolissimi di tutti questi giganti della storia ci sono risposte alle domande di Auschwitz.

Non si può buttare via la memoria della Shoah né l’antidoto al   razzismo. Non si deve lasciare spazio né al negazionismo né alle forze distruttrici che attentano ai sistemi democratici che abbiamo costruito a baluardo. Nella visionarietà di questi pensatori, si ritrova la responsabilità di riscoprire la dignità dell’uomo persona, e non solo cittadino o soggetto economico. Una battaglia da fare uniti come vecchio continente, culla del pensiero filosofico-cristiano che ha regalato al mondo il concetto di dignità di persona, di diritti, di stato di diritto. I limiti tangibili dell’Ue non possono offuscare la mente tanto da non capire che la democrazia non è scontata ed è il vero bersaglio di tante fake news. E’ inevitabile che il dibattito si sviluppi ormai sui social network, dove però si amplifica il rischio di parlare troppo e di valutare troppo poco.

De Madariaga, che definiva l’Europa “cristiana nella volontà e socratica nella mente”, la vedeva “destinata a cercare, attraverso le sue numerose vicissitudini, quella libertà di indagine senza la quale la mente non può lavorare più di quanto i polmoni possono respirare senza l’aria”. Perché non si torni a pensare qualcosa di simile a Auschwitz, non servono gli slogan, ma serve ritrovare il cielo, spazio simbolico di queste idealità, di spiritualità religiosa o laica, per il recupero urgente di un orizzonte di bene comune.

Il coraggio di resistere ai narcos

La caparbia ricerca di giustizia e il rifiuto della violenza da parte delle donne riaccende la speranza, in un Paese che deve fare i conti quotidianamente con sparizioni forzate e lo strapotere della criminalità organizzata.

 Si chiamano halcones, uomini assoldati dai cartelli della droga per spiare, riferire. Non hanno bisogno di armi, ma uccidono: libertà e vite. Lo fanno  fornendo informazioni utili per agguati o funzionali a ricatti. Halcones, cioè falchi, si traduce in un silenzioso, infame sistema di intelligence a servizio dei criminali del narcotraffico. E’ l’ultima frontiera del terrore nel più meridionale paese dell’America del Nord, dove scioccanti record di violenza convivono con l’irresistibile  mix  di natura,  storia, cultura, arte, spiritualità.

I dati sono da capogiro: ottantacinque omicidi e sei persone scomparse ogni giorno. E’ la media del 2018, che si avvia a battere il già terrificante record del 2017 di 31.000 morti. A metà ottobre, infatti, si contano oltre 25.650 vittime: il  21 per cento in più dei dieci primi mesi dell’anno scorso. Una sanguinosa e troppo silenziosa guerra civile, da raccontare augurandosi che il nuovo corso del presidente Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo –    in carica dal 1 dicembre dopo l’elezione a luglio – possa riuscire a invertire la rotta. In ballo non c’è solo il destino di un popolo che affonda le  radici in civiltà che risalgono a 10.000 anni avanti Cristo. Ci sono risvolti geopolitici che investono tutto il continente e tentacoli di narcotraffico che arrivano in Europa. Solo un esempio: rapporti Onu e procuratori locali attestano che in Calabria i narcos messicani hanno sorpassato i colombiani per quantità di cocaina venduta, con una caratteristica: non si accontentano di esportare, ma contendono alla ‘ndrangheta la gestione del territorio.

        Si palesa il dramma di un paese che ha un livello di impunità del 90 per cento, con picchi del 100 per cento a Ciudad Juarez, al nord, al confine con gli Stati Uniti, città emblema dello scambio mortale: dal Messico passano droga e esseri umani in disperata fuga dal Centro America, dagli States arrivano soldi e armi. Un business costato la vita negli ultimi 10 anni a 150.000 persone, di cui è stato ritrovato il cadavere. Per altre 35.000 scomparse resta la memoria. Ma la violenza criminale rischia di non preservare più neanche i luoghi turistici: a Cancún, nella penisola dello Yucatàn tra Golfo del Messico e Caraibi, nota per le spiagge incantevoli, il 28 luglio, trenta uomini armati hanno sparato in un ristorante uccidendo tre agenti e due clienti. Il pensiero va ad Acapulco, sull’Oceano Pacifico:  spiaggia simbolo negli anni Sessanta di jet set mondiale e di bella vita. Oggi, lo stato in cui si trova, Guerrero, è tra i più colpiti  dalla criminalità e dalla corruzione tra le forze dell’ordine. A fine settembre, è stata commissariata la polizia locale, con arresti eccellenti. E c’è un altro dato che abbiamo constatato: ben 140 scuole del territorio sono state chiuse in assenza di un minimo standard di sicurezza. In questo contesto, nei pressi della chiesa cittadina di San Cristóbal, a fine settembre l’arcivescovo di Acapulco, monsignor Leopoldo González González e il nunzio apostolico, monsignor Franco Coppola, hanno inaugurato un murale per ricordare i volti delle vittime della violenza. Tra questi ci sono diversi sacerdoti, che hanno parlato “troppo” di riscatto dal narcotraffico e dalla corruzione. Mentre scriviamo, arriva la notizia della tentata irruzione nella residenza del cardinale emerito Norberto Rivera costata la vita alla sua guardia. E subito dopo un altro colpo: è scomparsa la giovane donna di 23 anni, Paola Ramirez Rizo, che abbiamo visto partecipare all’inaugurazione del murale. In un attimo l’angoscia generale prende il suo nome e il suo volto. Sappiamo che in alcuni casi si tratta di sequestri risolti con un pagamento: è un business gestito da intermediari. Ma ricordiamo anche bene i troppi macabri rituali di ritrovamento raccontati dalla gente che, nonostante il terrore, tra mille difficoltà, è riuscita a parlarci: corpi  di donne o uomini violati, torturati, amputati. Paola non è una giornalista o  un’attivista e non arriva alle cronache, che raccontano di 12 giornalisti uccisi in 12 mesi, o di 133 politici freddati in campagna elettorale. Ma è uno dei tanti volti che abbiamo incontrato in un paese dove possedere un’arma è un diritto costituzionale, con la sola limitazione di rispettare il mercato legale. Ma in assenza di controlli, è diventato diritto di uccidere.

Qualunque legalità viene meno se 43 studenti scompaiono nel nulla, sequestrati, ad Ayutzinapa il 26 settembre 2014, da agenti di polizia, mentre marciavano verso Città del Messico per ricordare l’anniversario della strage del 2 ottobre 1968: 300 studenti, disarmati massacrati dalle forze dell’ordine  nel quartiere storico di  Tlatelolco. Tutti chiedevano al paese di rinnovarsi. E, secondo la Rete nazionale dei diritti dell’infanzia (Redim), tra il 2006 e il 2018 tra i desaparecidos si contano 6600 minori: bambini e adolescenti sacrificati al mercato degli organi. Il 40 per cento si registra nello stato del Messico e nello stato di Puebla. Non sono affatto i più poveri: il primo ha il privilegio della capitale, unica per preziosità dei reperti precolombiani, affascinante edilizia coloniale e  vincente modernità. E lo stato di Puebla è un territorio tra i più ricchi di arte e di storia di tutte le Americhe.

Dal 2006,  anno di inizio della presidenza di Felipe Calderón, l’esercito imperversa nelle strade per combattere il narcotraffico: il presidente Enrique Peña Nieto, subentrato nel 2012, ha confermato la stessa linea. Ci sono stati arresti di spicco, come quello del  noto boss El Chapo, ma il risultato è stata una parcellizzazione dei cartelli della droga e una moltiplicazione dei las zetas, militari al soldo dei narcos.

Obrador ha vinto le elezioni superando i due partiti protagonisti  della scena politica degli ultimi decenni, il Pri e il Pan, e presentandosi con il Movimento per il rinnovamento nazionale, Morena, che ha conquistato una buona maggioranza al Congresso e diversi governatorati locali, tra cui quello della capitale: una leadership forte per un personaggio che è già stato sindaco di Città del Messico. Le premesse ci sarebbero tutte per la svolta promessa. Ha annunciato il ritiro dell’esercito dalle strade e guerra aperta alla corruzione. E poi c’è la provocazione più forte lanciata in campagna elettorale:  l’ipotesi di un accordo con i protagonisti del narcotraffico sulla falsariga dell’intesa di pace raggiunta in Colombia tra governo e guerriglieri delle Farc. Ma ci si chiede chi sarebbero gli interlocutori in uno scenario frammentatissimo.

E’ tutta aperta anche la partita in tema di economia. Obrador ha promesso un freno al “liberismo selvaggio” dei suoi predecessori. La riforma della compagnia petrolifera Pemex, in rosso, sarà solo il primo banco di prova, oltre all’intesa sbandierata a ottobre per il rinnovamento dell’accordo commerciale tra Stati Uniti, Messico e Canada. Una storia tutta da scrivere, in cui si spera di superare il capitolo sulla carneficina quotidiana. Solo il coraggio di alcuni e in particolare di tante donne, suggerisce speranza, come il caso, proprio a Ciudad Juarez, di una avvocato e di una giudice che chiamano misoteras, agitatrici:  hanno “agitato” tanti equilibri riuscendo a condannare alcuni militari per violenze sessuali. O il caso di sei cittadine che dal 2006 chiedono giustizia per gli stupri subiti da forze dell’ordine in occasione di una manifestazione nello stato del Messico: si sono appellate fino alla Corte interamericana. Fa sperare la loro caparbia ricerca di giustizia, in un paese in cui la vitalità si impone, oltre la morte, tra i colori più accesi.

di Fausta Speranza

 

I migranti in carovana si avvicinano agli Usa

La lunghissima fila di esseri umani che ha tagliato in due il Messico puntando verso gli Usa al momento di andare in stampa è giunta Tanapatepec, nello stato di Oaxaca. I migranti in marcia, in fuga da Honduras, Guatemala e San Salvador, hanno in massima parte rifiutato la proposta del premier Pena Nieto, un piano di accoglienza nel Paese chiamato Sei a casa tuache prevedeva regolarizzazione e accesso ai servizi di base, a patto di essere ospitati in Chiapas e Oaxaca. Secondo molti di loro, infatti, le condizioni di quelle zone sarebbero simili ai Paesi di provenienza. Il viaggio della carovana è cominciato il 13 ottobre scorso in Honduras (Paese che primeggia per tasso di omicidi, 56 ogni 100 mila abitanti nel 2016, secondo la World bank), quando 160 persone si sono radunate nella città di San Pedro Sula. Grazie al passaparola sono rapidamente decuplicate, riuscendo ad attraversare il Guatemala. AI momento dellingresso in Messico, sarebbero state 7 mila, secondo l’Onu. Una seconda carovana si è formata in Guatemala nella speranza di ripetere limpresa della prima. Mentre lAmerica, attraverso il presidente Trump e i suoi ambasciatori locali, minaccia il rimpatrio chi proverà ad attraversare il confine. Ma il movimento non si ferma. Prossima destinazione: Città del Messico.

Paolo Cherubini

Innocenti evasioni

“Innocenti evasioni”: uso e abuso politico della musica pop   di Fausta Speranza

Accade che non ci sia niente di più anticonformista della normalità. Non è un genitore conservatore a cercare di farlo capire a un figlio perso tra piercing e tatuaggi ma è uno storico che rilegge con sguardo professionale e passione musicale oltre 30 anni di canzoni, da metà Anni Cinquanta alla fine degli Anni Ottanta. Emerge una lettura del rapporto tra canzoni  e impegno politico libera da preconcetti ideologici e per questo nuova.
Parliamo del volume “Innocenti evasioni” di Eugenio Capozzi, professore di storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Nel libro, edito da Rubbettino, non è la musica ad essere sotto esame ma è il significato politico e sociale o, meglio, come si legge nel sottotitolo, “l’uso e l’abuso politico”. Tutto ciò ha suscitato alla fine di ottobre a Napoli uno stimolante dibattito tra giornalisti, docenti e il produttore discografico Giancarlo Lucariello.
E’ un po’ come riascoltare la colonna sonora di anni cruciali della storia contemporanea dal secondo dopoguerra all’avvento digitale, che in Italia significa lo spazio tra il primo benessere e la Milano da bere. Con un’operazione che la storica della letteratura Emma Giammattei ha definito fortemente innovativa sul piano storiografico perché supera le barriere tra forme ‘alte’ e ‘basse’ di cultura.
Dal rock’n’roll alla new wave, dal country e soul alla musica d’amore adolescenziale e musica psichedelica, dalle canzoni d’autore impegnate al pop balneare, si spazia nel mondo occidentale: protagonisti Stati Uniti, Gran Bretagna e Europa, ma c’è un flash anche sulla musica brasiliana. Si parte dagli anni in cui proprio le canzoni hanno nutrito l’esplosione del fenomeno delle comunicazioni di massa. Niente come la musica ha fatto la fortuna di radio pubbliche e private e niente come i dischi ha catturato l’attenzione e la passione dei giovani della generazione dei baby boomer, cioè figli del benessere e della cultura del tempo libero.
Tutto questo è tra i punti di partenza dell’analisi di Capozzi che dissacra qualche simulacro. Ad esempio, se non si può negare quella che definisce la “assoluta virale comunicativa del pop e del rock”, non è corretto continuare a far passare l’idea, tanto sostenuta fin qui, che quella musica sia stata sempre espressione di ribellione. A ben guardare, c’è un crogiolo di messaggi diversi: afflati politici e filosofici ma anche sentimenti pubblici e privati, e tanto scansonato divertimento. Altro mito da superare: in tanto rock’n’roll o country non c’è solo spontaneità, autenticità, lotta alla società negativa e ingiusta. E non c’è solo anticonsumismo. Va ricordato che alle spalle c’è un solidissimo star maker machinary, un apparato discografico che fa un altrettanto solidissimo business, condizionando pesantemente gusti e tendenze. E proprio i baby boomer che contestano le costruzioni economico-sociali dei genitori si prestano per primi al consumismo che il nuovo benessere di quegli anni permetteva: e la musica, dai dischi ai concerti, dai ritrovi agli strumenti, è uno dei lussi e mercati nuovi. Nulla da demonizzare, ma certamente da non negare in nome di una presunta età dell’oro di una presunta cultura della spontaneità.
Capozzi denuncia anche un “edonismo rinunciatario spacciato per rivoluzione”, cioè un invito a godere senza limiti e senza condizionamenti sociali che diventa però in tanti casi un modello assolutamente omologante di vita, di abito, di scelte, che, se partono da un elemento critico in difesa della natura e della naturalezza, in troppi casi, tra ansie ecologiste, finiscono in forzature innaturali a droghe o a promiscuità. Canzoni come “Quando è moda è moda” di Gaber aiutano magistralmente a capire quanto possa diventare conformista l’anticonformismo e integrato il ribelle. Lo storico dell’arte Stefano Causa, nel suo intervento al dibattito, ha sottolineato il valore dell’analisi di Capozzi parlando senza mezzi termini di rovesciamento di una “vulgata” stanca. Il direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco Demarco, ha affermato che Capozzi invita a ripensare quelle che ha definito le troppo facili distinzioni tra “impegno” e “disimpegno” e tra “progressismo” e “conservazione”.
Nel libro c’è anche l’analisi di una spinta al ritorno ad alcuni valori tradizionali in tante canzoni pop. Capozzi ci porta a rileggere i testi di Mogol per Battisti, che canta tra l’altro “Perché no”, in cui la trasgressione alla quale allude il titolo è quella di fare cose normali e quasi banali con la propria donna come andare al supermercato e ‘parlar di surgelati rincarati’. O le canzoni dei Pooh, dove spesso il protagonista maschile interpella l’elemento femminile che più risente dell’anelito alla vaghezza dei rapporti. Anche qui solo un esempio: “Cara bellissima”, in cui la donna si impone di lasciarsi sedurre ma senza concedersi sentimenti e l’uomo ne soffre. L’invito, dunque, è a capire meglio tendenze e bisogni passati sotto silenzio rispetto a un certo impegno politico-sociale gridato. E a capire meglio anche la pressione, sfociata nel famoso  processo pubblico a De Gregori in un concerto del 1976, su cantautori che all’impegno su temi sociali alternavano o preferivano contenuti intimisti. A questo proposito, alla presentazione-dibattito, il produttore Lucariello, che ha lanciato tra gli altri i Pooh, si è sbilanciato a dare testimonianza diretta di come fossero “emarginati” cantanti di peso come Battisti, gli stessi Pooh o Baglioni in quello che ha fotografato come il clima di movimentismo di sinistra. Salvo poi scoprire che in privato tanti intellettuali militanti li ascoltavano e apprezzavano.
In definitiva, Capozzi chiarisce: ciò che è stato politicizzato nelle canzoni non sempre è stato libero da abusi e forzature e non sempre è stato davvero rivoluzionario, anticonsumistico, anticonformistico. E ciò che non è stato politicizzato, non è detto che non avesse un forte significato sociale. Insomma, è lo storico a invitarci a riascoltare quelle che, per dirla con Bennato, a volte “sono solo canzonette” e a volte no. Ma non deve essere un presupposto ideologico a deciderlo.

da Area di novembre 2013

Progetto Pompei: arrivati soldi ma ….

Il “Grande Progetto Pompei”: arrivati soldi, attenzioni mafiose, esperti, ma mancano i custodi

di Fausta Speranza


105 milioni di euro, 66 ettari di area archeologica, 22 nuove assunzioni: sono i numeri essenziali del Grande Progetto Pompei che in questo mese dovrebbe avere una svolta operativa.  Intanto, per quanto riguarda i soldi, la Direzione Investigativa Antimafia ha già bloccato due appalti perché in odore di cosche mentre, per quanto riguarda il nuovo personale, restano comunque scoperte le guardiole dei custodi.
Dal 2010 le cronache non risparmiano gli allarmi su Pompei per crolli vari. Quello alla Schola Armatorum, o meglio conosciuta come Casa del Gladiatore, suscitò, oltre alla sollevazione dei media internazionali, l’appello duro del presidente Napolitano. Da lì partì qualcosa di concreto, il Grande Progetto Pompei per il quale l’Unione Europea contribuisce con 40  milioni di euro e l’Italia impiega 60 milioni dei fondi che sempre da Bruxelles provengono e che avrebbero preso altre vie. Fanno 105 milioni, di cui 70 potrebbero essere impiegati già entro la fine dell’anno. Ci sono progetti e idee. Sono arrivati da circa un anno al sito di Pompei 13 nuovi archeologi e 8 tra architetti e funzionari. Se a qualcuno sembrano pochi, va ricordato che prima gli archeologi erano 4. Ma il punto è che mancano custodi. Al momento si verifica che sulla carta a coprire i turni dell”intera giornata sono meno di 30 custodi di cui qualcuno ovviamente ogni tanto sta male o sta in ferie. Su 66 ettari di area. Capiamo perché la maggior parte delle Domus di Pompei siano chiuse ai visitatori, oltre al rischio crolli.
Facciamo un giro al sito che conserva il fascino indiscutibile della storia ritrovata, dell’affaccio su ciò che è stato. I turisti non mancano. La maggior parte sono incanalati nei percorsi guidati. Pochi girano da soli. Probabilmente con le poche ore a disposizione delle gite organizzate, tanto più se di altri paesi o continenti, non si accorgono più di tanto di quanto non sia visitabile. A chi si sofferma, fanno effetto i tanti cartelli di vietato l’accesso. I pannelli sanno di posticcio ma di un posticcio logorato dal tempo. Anche noi scegliamo una guida, anzi due. Si tratta di due dei giovani archeologi assunti in quella che ci piacerebbe pensare come la nuova era di Pompei. Si chiamano Luigi Scaroina e Laura D’Esposito. Sono giovani e disponibili a dedicare del tempo che dovranno recuperare anche se già fanno sistematicamente 20 ore di straordinario al mese che nessuno paga loro. Sono concreti e diretti. Ci accompagnano dove vogliamo. Scaroina ammette i grandi problemi del sito ma ci invita anche a guardare le cose da vicino e non con i riflettori dei media. Ci spiega con documentazione alla mano che il grande crollo del 2010 in realtà è consistito in una sola pietra antica più una parte di cemento armato messo ovviamente di recente. Non doveva succedere ma Scaroina chiede maggiore attenzione prima di strillare che crolla Pompei. Un richiamo a far prevalere la precisione sul sensazionalismo non fa mai male. Ci sono da ricordare in realtà altri cedimenti come quello al teatro piccolo che inquietano perché si immagina quanti altri simili potrebbero accadere. E poi ci sono flash di immagini che non vorremmo vedere: angoli di incuria o ad esempio le teche con i calchi che ci restituiscono l’immagine dei corpi rapiti alla vita nel sonno e che contengono le ossa di quelle persone conservate come solo gli scherzi della natura possono fare. Le teche sono a malapena coperte ma sono vecchie e non hanno termoregolazione. Ricevono i flash delle foto di forse tutti i 2 milioni di visitatori che ogni anno accedono al sito. Facendo mente locale sul numero di esperti e soprattutto su quello del personale che dovrebbe sorvegliare interventi e comportamenti, e considerando la ampiezza dell’area archeologica, i conti non tornano.
Scaroina ci assicura che alcuni progetti di intervento sono partiti. E poi ci parla appassionatamente dei progetti più importanti che potrebbero partire. Studiati, preparati, in attesa dell’avvio. E’ chiaro chi dovrebbe dare il via: il nuovo Direttore Generale per gli scavi di Pompei. E’ figura nuova, voluta di fascia dirigenziale più alta. E’ la seconda novità dopo lo scorporo delle Soprintendenze: fino ad ora una sola Soprintendenza si occupava di Napoli e Pompei.  Con la conseguenza di accorpare due territori difficilissimi e diversissimi. Tra i miracoli prodotti dall’emergenza crolli, che pure non avremmo voluto avere, c’è quello di una Soprintendenza per la sola zona archeologica di Pompei. Ma il punto è che il nuovo Soprintendente può poco a livello operativo senza il Direttore Generale. Il tutto sotto il cielo d’Italia, dove non ci sono tempi certi per le nomine e dove la durata del governo è messa in dubbio un giorno su due.
C’è un conto da fare subito a proposito di Soprintendenza unica.  Verifichiamo che l’introito dei biglietti per la visita al sito fruttano 25 milioni di euro l’anno. Finora erano inghiottiti dalla cassa comune dell’unica Soprintendenza. Ora arriveranno a quella che gestisce solo Pompei. Anche questo dovrebbe significare qualcosa oltre ai 105 milioni. In attesa che significhi interventi di messa in sicurezza o altro, per il momento rappresenta un’attrazione fatale per le mafie. Parlando con Scaroina, si respira ottimismo: già in due casi, l’intervento assegnato a una ditta è stato sospeso perché, in questa nuova era, la torta sta sotto lo stretto controllo della Dia, Direzione Investigativa Antimafia. E Scaroina lancia un’altra stoccatina ai media: si chiede perché gridano all’allarme ogni volta che si viene a sapere di un sopralluogo della Dia in uno dei cantieri: fa parte della doverosa vigilanza che è scattata da alcuni mesi e dovrebbe rassicurare piuttosto che allarmare. E’ un punto di vista più che comprensibile e fa bene pensare che ci sia qualcuno che non teme controlli, in questa Italia un po’ sgangherata dove a volte sembra che chiunque abbia qualcosa da nascondere. Ma il punto è un altro. Anche Scaroina deve ammettere che il blocco delle due ditte in odore di mafia ha già fermato di molto i passi che anche in attesa del nuovo Direttore generale si erano potuti fare. E si abbandona a un sospiro quando gli ricordiamo che la scadenza per il compimento del lavoro affidato al Grande Progetto Pompei per il restauro e la messa in sicurezza c’è e non è poi lontana: è il 2015. Ci viene da pensare che, seppure a titolo diverso, tanti dei soldi provengono da Bruxelles e dunque questa volta a qualcuno dovremo rendere conto. Anche qui respiriamo un’aria nuova: Scaroina sorride tradendo una certa soddisfazione sul fatto che qualcuno verificherà il lavoro fatto. Si respira voglia di fare e non è poco.

Tra tanta doverosa preoccupazione di salvaguardia, però, torna forte il pensiero dello studio di ciò che è stato. Tanto si è ricostruito della vita a Pompei al momento della terribile eruzione del Vesuvio nel mese di agosto del 79 d.C., ma tanto c’è ancora da scoprire. Per esempio ci sarebbe da analizzare gli elementi sulla vita precedente agli ultimi anni di Pompei prima dell’eruzione. Gli studiosi non mancano: ogni anno ottanta università ottengono permessi mirati a missioni di studio particolari. Provengono da 15 Paesi diversi. Operano sul terreno già scavato con rilevazioni e esplorazioni  circoscritte. A nessuno è dato di sognare di scavare i 22 ettari ancora non esplorati. La reazione di tutti, amministrativi o archeologi, è la stessa: è impensabile, per i costi insostenibili. Emerge dagli archeologi anche una sottile ma ferma consapevolezza: l’umanità oggi non è all’altezza. Molto più opportuno pensare che la terra, che “conserva molto meglio di qualunque mano d’uomo”, preservi ancora per un po’ tesori che forse ad altre generazioni sarà possibile disvelare. Nessuna domanda scalfisce la sicurezza della risposta: da 30 anni sostanzialmente si studia e preserva ciò che è emerso e non si scava; è tutto quello che si può fare. Sentiamo la mancanza di una voce discordante. Vorremmo sentire uno slancio visionario magari un po’ romantico, vorremmo percepire l’ostinazione della curiosità che altre epoche hanno tanto conosciuto. Sarebbe un sentire antico eppure forse nuovo per questa epoca di oscurantismo della cultura.
da Area di ottobre 2013

Emergenza Foro Romano

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Al di là della pedonalizzazione di Via dei Fori Imperiale, c’è l’emergenza Foro Romano

Si fa presto a dire Parco archeologico: dopo le discussioni sulla pedonalizzazione di Via dei Fori Imperiali, la domanda più urgente non è tanto quante macchine continuino a percorrerla o quanto traffico sia rimbalzato su Via Merulana o quanto i cittadini siano contenti, ma piuttosto che cosa ne sia del contiguo Foro romano. Racchiude mille anni di storia tra circa il 500 a.C. e il 500 d.C. ma rappresenta una sorta di passeggiata tra ruderi.

L’idea è bella: un Parco archeologico dove Roma è nata per iniziativa di Romolo. L’ha spiegato il sindaco Marino: sarebbe l’obiettivo ultimo della pedonalizzazione. E un personaggio di rilievo del mondo del teatro come Proietti lo ha invocato, forse anche sognando che diventi quello che è il teatro di Taormina in Sicilia o il teatro di Epidauro in Grecia: monumento storico di indicibile valore ma anche spazio fruibile alla cultura.

Tra gli archeologici della Sovrintendenza si raccoglie scetticismo assoluto sull’ipotesi di cambiamenti significativi. Ne incontriamo uno che gentilmente ci parla e offre dati interessanti ma non vuole comparire. Prima di proiettarci nel futuro, facciamo una visita al Foro, che, nei mesi estivi quando la calura imperversa e nel tardo pomeriggio sarebbe più piacevole fare una visita, chiude alle 18.

Facciamo una passeggiata al Foro con un architetto amante di storia antica,  funzionario del Comune. Il suo sguardo va dal culturale all’istituzionale. Si chiama Vincenzo Antonio Ambasciano, lavora al neo Primo Municipio ma fuori dello stabile c’è ancora scritto Municipio XVII, come prima dell’accorpamento. Ha affiancato per anni, nel suo impegno di studio all’Università, il noto prof. Massimo Birindelli. Con noi non ha nessun problema a metterci la faccia: parla di “degrado”, di “passeggiata tra i ruderi di turisti abbandonati a loro stessi”. Effettivamente basta guardare di fronte all’Arco di Settimio Severo: su capitelli e frammenti di colonne bivaccano indisturbati visitatori con bibite gassate in mano. Nessun cartello e, pur soffermandosi per ore, non si riuscirebbe a notare alcun richiamo da chicchessia. “Non ci sono controlli”: questo amaramente lo ammette anche l’archeologo che resta senza nome.

L’architetto Ambasciano, con una passionalità che richiama al senso enorme di quello che abbiamo di fronte, ci ricorda che nell’area sono stati trovati scheletri di necropoli preesistenti alla fondazione di Roma, del VII secolo a.C. E soprattutto ci ricorda che il Foro era il cuore di ogni attività, tra religione e politica, dal tempio di Vesta alla Curia. Al Foro campeggiava lo Umbilicus Urbis Romae: una sorta di cono di mattoni, centro ideale della città da cui partiva ogni misurazione di distanze per tutto l’impero. Resta il basamento ma senza nessuna indicazione. Così come per la secolare Via Sacra, la via che dalle pendici del Campidoglio arrivava all’Arco di Tito, percorsa da potenti e condottieri al rientro da imprese: i turisti possono camminare sui basolati rimasti senza alcuna segnalazione. L’archeologo boccia l’idea di qualunque pannello descrittivo: “deturperebbe”. Immaginiamo almeno un tratto da lasciare protetto dal camminamento. L’archeologo spiega che per simili iniziative si dovrebbero coordinare Sovrintendenza, Ministero dei Beni Culturali e Comune che “hanno sì contatti ma non una struttura di collegamento vero e proprio”. Struttura peraltro di cui “si parla da tempo” per diversi motivi.

Parliamo di scavi. I punti di coperture che nascondono l’impegno della Sovrintendenza sembrano abbandonati. Sappiamo di archeologi e speleologi impegnati e qualcosa si può leggere su riviste specializzate. Ma anche la nostra fonte anonima alla Sovrintendenza ci conferma: sono interventi isolati e tesi alla conservazione, nessuna campagna di scavi per restituire qualcosa di più di quello che giace sotto gli occhi di tutti. Eppure sappiamo che con la legge di Roma Capitale del 2000 sono arrivati “una marea di finanziamenti”. Quando domandiamo come mai non venga divulgato quasi nulla dell’impegno della Sovrintendenza in loco, l’archeologo ci dice: “Non siamo abituati a concepire questo”. E poi aggiunge: “Siamo pochi: dal 2000 ad oggi i funzionari sono stati ridotti esattamente del 50%”. Che si riducano gli addetti ai lavori per lo sfruttamento del nostro petrolio, i beni culturali, non è una novità in Italia ma resta uno scandalo. Ma parlando di più con l’archeologo cogliamo una resistenza di fondo all’idea di far emergere qualcosa: percepiamo il timore che non ci siano risorse per gestire patrimoni che è quasi meglio lasciare conservati come il tempo ha deciso di fare. Ovviamente il Foro è patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco ma non riceviamo fondi, solo l’indicazione di vincoli di manutenzione e conservazione. Ci piacerebbe sapere cosa ne pensi l’Unesco del bivaccamento di turisti sui capitelli, dei sandali e scarpe da ginnastica sull’unico tratto rimasto della Via Sacra, e ci piacerebbe sapere cosa ne pensi dell’idea di ignorare patrimoni ancora nascosti sotto terra.

Il nostro archeologo si rifiuta di accettare la definizione del Foro, così come si presenta oggi, come un’area praticamente recintata e basta. Rivendica giustamente il lavoro di quanti tentano di occuparsi della manutenzione e si dice convinto che scavare per riportare alla luce altro materiale non sia possibile in un’area così densa. Non è un archeologo, ma l’architetto Ambasciano su questo la pensa diversamente. Suggerisce intanto di “tirare su tutto quello che si può rimettere in piedi”, di “scavare per tirare fuori altro e, perché no, anche creando supporti che aiutino a ricostruire i monumenti come erano”. Lascia intendere che progetti del genere dovrebbero avere delle scadenze, che creerebbero un’attesa. Attualmente, ci fa notare, i lavori avvengono come in una sorta di limbo: “senza che qualcuno si aspetti resoconti o risultati”. Ci fa un esempio: il complesso del Carcere di Mamertino si visita solo in parte per via degli scavi in corso: da 30 anni e senza scadenze.

L’indicazione di tempi in Italia sembra un optional inconsiderato. Sul cartello sulla facciata del Palazzo Senatorio su Via del Campidoglio a tutt’oggi si legge che sono in corso lavori strutturali, per un costo di 2 milioni e 500.000 euro, della durata di 560 giorni a partire dal primo luglio 2007. Calcolare che siamo fuori già del doppio del previsto è immediato. Di altro non è dato sapere. Resta la consapevolezza che stiamo parlando dell’area archeologica più densamente ricca di storia al mondo e resta la consolazione che qualcuno come l’architetto Ambasciano continui a sognare altro.

di  Fausta Speranza in Area del 1 settembre 2013

La rivoluzione di Papa Francesco

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La rivoluzione datata di Papa Francesco tra “normalità” e “semplicità”

Tra “normalità” e “semplicità” Francesco sta operando una rivoluzione nella Chiesa. La percezione è di tutti anche se ognuno la spiega a modo suo, credenti e non credenti. La rivoluzione consiste nel ripartire con adesione profonda dal Vangelo. E’ una rivoluzione datata, con un potenziale nuovo di decisionalità. Ma non è tutto qui. C’è anche un riposizionamento tra livello vitale del messaggio cristiano e piano dottrinale.
“Dobbiamo abituarci a essere normali”, sottolinea Papa Francesco ai giornalisti in aereo di ritorno dal Brasile, rigorosamente improvvisando, senza più domande precostituite. La normalità è la valigetta portata a mano, il continuo richiamo alla misericordia e alla capacità di perdono di Dio, l’uso della parola gay, l’attitudine a condannare il peccato e a voler bene al peccatore, la mano tesa ai divorziati. Per Francesco è normale perché è quanto insegna il Vangelo. Ed è normale ricordarlo a gran voce, insieme con la “necessità di condannare” l’indegna condotta di preti come mons. Scarano, accusato di gravi traffici illeciti. Poi c’è il suo invito a studiare il tema della nullità matrimoniale ma anche la conferma della posizione già nota della Chiesa su aborto e nozze omosessuali. E normale per Francesco è stato istituire nel giro di poco commissioni per la riforma della Curia e dello Ior, centri di potere politico e economico del Vaticano. E normale è promettere che se ne vedranno presto i frutti. E poi ci sono missioni per sacerdoti in Africa o altrove avviate in 48 ore.
La normalità si sposa con la semplicità: “Dio ci chiede in questo momento più semplicità”, spiega. E fa fuori abiti e troni regali, abita in una residenza più che essenziale, viaggia in aereo senza il consueto lettino, in uno dei tanti posti come gli altri. Ma la semplicità di Francesco non è racchiusa solo in queste scelte. Si esprime soprattutto nell’essenzialità dei messaggi più rivoluzionari, ma meno ripresi, con cui ripropone la bimillenaria rivoluzione di Cristo che ha sentenziato: non si può servire Dio e Mammona, richiamando al rischio di asservirsi al denaro.  Papa Francesco senza mezzi termini denuncia: “Chi comanda oggi è il denaro”. Ma fa meno notizia di altro. Si scaglia contro “la politica economicistica senza un qualunque controllo etico, un economicismo autosufficiente”. Ma nessuno ci fa un titolo. Dichiara inaccettabile che bambini muoiano di fame e anziani non abbiano accesso a cure, ma la condanna non occupa una pagina di giornale. Condanna le lobby che si fanno “organizzazioni di potere”, ovunque siano. Lamenta che “manca un’etica umanistica nel mondo” e chiede di “stimolare una cultura dell’incontro riducendo l’egoismo”. E’ la stessa semplicità che l’ha condotto a Lampedusa, vicino agli ultimi, i migranti più disperati. In questo caso è stato accompagnato da una straordinaria copertura mediatica.
Ma la Chiesa che sta accanto ai poveri non dovrebbe meravigliare. E’ come dire che la Croce rossa si occupa dei malati o l’Onu di cercare la pace. E’ vero che spesso la Chiesa non è stata all’altezza del suo messaggio ma non si può dire che l’abbia sempre tradito e soprattutto l’opzione non è nuova e non dovrebbe sorprendere. La notizia sta nel decisionismo: Francesco è deciso a scuotere fortemente la Chiesa per riportarla accanto a chi sta nelle periferie del mondo.
Paolo VI nella Messa a conclusione del Concilio Vaticano II nel 1965 diceva al mondo: “Per la Chiesa nessuno è estraneo, escluso, lontano”. Era l’abbraccio al mondo del Concilio, voluto da Papa Giovanni XXIII, che sarà presto santo, nella convinzione che “il Vangelo non cambia ma cambia la nostra comprensione del Vangelo alla luce dei tempi nuovi”. Giovanni Paolo II ha percorso continenti nell’ottica dell’incontro e del dialogo, sulle orme di Paolo VI che fu il primo Papa a andare in Terra Santa, in India, alle Nazioni Unite. Benedetto XVI ha dedicato alla misericordia l’enciclica Deus caritas est e, a 50 anni esatti dall’apertura del Concilio, a ottobre 2012,  ha parlato di “speranza disattesa”. Papa Francesco afferma: “Il Concilio non è stato pienamente messo in pratica. In media ci sono voluti 100 anni per ogni Concilio, ora siamo a metà strada”. La filosofia è quella di Papa Giovanni XXIII: non si deve avere paura di cambiare per aderire meglio al Vangelo. E Papa Francesco dichiara: “Ci sono cose che erano utili in altre epoche, con altri punti di vista, che adesso non servono più, devono essere riorganizzate”. Ma nel frattempo che cosa è successo che rende oggi tanto rivoluzionarie certe parole di Papa Francesco che invece sono in linea con i predecessori? L’impressione di chi scrive è che in troppi casi nella vita vissuta di tanta parte della Chiesa, su impulso di zelanti uomini di chiesa, sacerdoti e laici, si metteva in atto una strisciante ma pesante sovrapposizione della logica del catechismo della chiesa cattolica, che 30 anni dopo il Concilio cercava di delineare linee dottrinali, sugli straordinari documenti del Concilio stesso che non aveva voluto essere dottrinale ma vitale e pastorale. Si è troppo spesso ridotto la trascendenza universale del Concilio all’esaltazione del catechismo, che doveva essere uno strumento. Risanare questo sfasamento, riscoprire la dimensione alta di comunione che sta prima della dottrina sembra il cuore della vera rivoluzione di Francesco.

di  Fausta Speranza in Area del 1 Agosto 2013