Dare regole a Internet: la sfida per l’informazione e per i legislatori

“Dare regole a Internet è la sfida più esaltante del mondo dell’informazione nei prossimi anni”. Sono parole del segretario della Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi), Franco Siddi, al dibattito organizzato a Roma dall’Unione Cattolica Stampa Italiana (Ucsi) a Marzo. Titolo: “’Il lato oscuro della Rete. La sfida di Ulisse oggi: varcare il virtuale”. Un incontro organizzato partendo dalla consapevolezza che Internet rappresenta un mondo di felicissime potenzialità ma anche di alti rischi e soprattutto che sfugge alle attuali legislazioni legate a confini e giurisdizioni. Un incontro pensato con l’esperto di sicurezza informatica Fabio Ghioni, e seguito da un’intervista per Area.
L’hacker Fabio Ghioni, divenuto famoso per il caso Telecom ed oggi consulente di governi e istituzioni internazionali, apre orizzonti di riflessione sulla zona oscura ai più della Rete, cioè i meandri tecnici. Una dimensione in ombra che potrebbe per certi versi incidere sulla vita di ognuno di noi più della zona “illuminata” della navigazione senza limiti di luogo o di tempo. Chi gestisce i dati che immettiamo ogni giorno sui social network è solo uno degli interrogativi che generalmente non ci si pone, pur vivendo l’amicizia virtuale per ore al giorno. Ghioni chiarisce l’assoluto arbitrio dei singoli operatori di FaceBook, per fare un esempio. I sistemi degli operatori di telecomunicazioni che hanno a disposizione i dati più sensibili (posta elettronica, password, dati telefonici…) sono accessibili da Internet attraverso fornitori esterni. Chi sa dove si trovino, e – assicura Ghioni – chi ci lavora lo sa, in soli cinque minuti può fare un copia e incolla dei tabulati o della lista degli intercettati.     “Quando si parla di sistemi inviolabili – assicura Ghioni ad Area – è solo per fare operazioni di facciata”. A questo proposito, un po’ sottovoce Ghioni ci fa una considerazione pesante: “Se un sistema è vulnerabile, è possibile violarlo dando la colpa agli hacker, ma se è completamente sicuro rappresenta un problema anche per le agenzie di intelligence che non possono accedervi senza essere scoperti. Lasciarli vulnerabili è spesso una scelta”.
Ghioni invita tutti a maggiore consapevolezza, mentre toglie sonno alle notti. Spiega che gli aggiornamenti continui dei service provider, che al massimo ci risultano noiosi, sono momenti di comunicazione aperta con il nostro computer in cui le macchine potrebbero comunicare qualunque tipo di dati e non solo quelli relativi all’aggiornamento. Ancora: cancella ogni illusione di sicurezza sull’utilizzo delle reti Wi-Fi: da tecnico assicura che non c’è ad oggi un sistema Wi-Fi che non sia vulnerabile. Per non parlare dei virus che permettono di tramutare qualunque computer in un computer spia, cosiddetto Zombie, che trasmette ogni tipo di dato a un pc terzo. Se consideriamo che le società più evolute dell’Occidente sono anche le più tecnologizzate e digitalizzate, il pensiero corre subito alla cyber criminalità e al cyber terrorismo. Basti pensare che solo sapendo qual è l’indirizzo da attaccare di un sistema critico si può bloccare un’intera nazione, per esempio il suo sistema elettrico.     “La cosa incredibile – sottolinea Ghioni – è che gli unici Paesi vulnerabili sono quelli occidentali”. E’ impossibile, infatti, pensare a un cyber attack a Paesi come l’Iran o l’Iraq, perché non hanno sistemi critici collegati a quelli informatici. Non sono digitalizzati. D’altro canto, però, Fabio Ghioni che è consulente di diversi paesi arabi, ci spiega che l’Iran ha la più grossa organizzazione governativa d’attacco: la Iranian Cyber Army. La Cina è specializzata nello spionaggio aziendale: ruba informazioni, formule e, senza spendere milioni in ricerca, produce, minacciando le nostre economie. Mettere in ginocchio un’azienda attraverso un computer è anche un modo di fare guerra.
Scenari inquietanti sui quali non si può non tenere alta la riflessione. Tutto ciò, che investe i dati personali dei singoli utenti di Internet ma si ripercuote anche sulla società intera, chiama in causa i legislatori. Il cyber world, infatti, rischia di rimanere terra di nessuno. La legislazione non tiene il passo della tecnologia. Dal diritto romano fino ad oggi le normative si fondano su territorio e giurisdizione ma Internet ha scardinato i parametri, creando il mondo virtuale della Rete che va oltre tempo e spazio. I legislatori a livello nazionale tentano regolamentazioni ma basta dire che un pedofilo o uno stalker che opera da un computer collegato ad un Internet Protocol Number diverso da quello del suo computer e del suo Paese non lascia traccia delle sue scorribande odiose in Rete e, dunque, non è rintracciabile. Un altro esempio: negli USA il Patrioct Act permette tra le altre cose che le autorità accedano ai dati personali dei cittadini senza restrizioni. Ma gli utenti Microsoft, come quelli di Google, sono sparsi in tutto il mondo. Ciò potrebbe significare che le autorità americane possono violare la privacy di un cittadino italiano avvalendosi di una legge statunitense.
Anche il fatto che le poche normative in materia a livello nazionale siano diverse da Paese a Paese contribuisce al far west. In Russia il pirataggio informatico non è un reato. In Corea del Sud è obbligatorio far coincidere l’identità virtuale con la propria identità reale. Andando a Seoul e scoprendo questa norma ci si sente in una giovane democrazia che conserva retaggi della presidenza quasi assoluta che ha avuto fino a qualche anno fa, ma poi parlando con Ghioni si comincia a pensare diversamente. Ghioni, innamorato della tecnologia digitale, hacker libero pensatore, approverebbe immediatamente l’obbligo di coincidenza di identità. Spiega: “la privacy da difendere è un’altra cosa, non è la libertà di mentire su web”. Ma se, come è in Corea del Sud, per i social network si imponesse nel resto nel mondo la corrispondenza tra identità reale e identità virtuale, meno persone forse aderirebbero a un sistema che rappresenta un bacino di informazioni  per compagnie pubblicitarie e non solo. Gli interessi in campo non mancano. E infatti l’hacker che spiega la necessità di avere regole sottolinea anche a gran voce l’enorme difficoltà, proprio per le implicazioni di tanti fattori.
Emerge tutto lo spessore di un dibattito epocale: la necessità di senso critico per il singolo utente e la necessità di una riflessione, a livello globale, sul piano legislativo. Da parte sua, Andrea Melodia, presidente dell’Ucsi nazionale, lancia un vero e proprio appello ai giornalisti e alla società civile a mantenere alta la riflessione per pretendere regole, sposando la battaglia per la trasparenza sulle identità. Emerge il bisogno condiviso di una qualche forma di controllo del mondo virtuale che ovviamente non deve lontanamente significare controllo di contenuti, censura, come fanno circa 60 governi al mondo. Ma per paura di sconfinare nel controllo o per scetticismo sulle difficoltà di governance, ci si può abbandonare all’idea che Internet sia terra di nessuno senza se e senza ma? A questo proposito è chiaro che qualunque forma di “controllo” debba essere sovranazionale anzi mondiale. E dunque, ci sembra che, oltre agli appelli che si sentono da più parti ad una governance mondiale in tema di economia, si aggiunga anche la stessa esigenza in tema di Internet.
Va detto che in Unione Europea e negli Stati Uniti qualcosa bolle in pentola. A Bruxelles a inizio anno la Commissione Europa ha presentato un regolamento sulla privacy dei dati che però è solo un’indicazione mentre per esempio la battaglia concreta con google per avere maggiore trasparenza sul rastrellamento e l’uso di dati personali è tutta aperta. A Washington sono in discussione al Congresso due proposte di legge, siglate SIPA e SOPA, che a dire il vero si concentrano di più sulla questione copyright.  Solo recentissimamente Obama ha lanciato un appello a trovare forme di tutela della privacy on line. Ma si sa che le sensibilità sono diverse: in EU il diritto alla privacy è assoluta priorità, negli Stati Uniti concettualmente viene dopo il diritto d’impresa. Certamente un accordo sulla privacy tra EU e USA aiuterebbe. Risulta chiara comunque la complessità anche solo a immaginare una normativa generale.
A proposito di sistemi immaginabili, va menzionato Logbox, un sistema che rappresenterebbe praticamente una  “scatola nera” per Internet che, come per gli aerei, possa dirci la verità di quanto accaduto su web. LogBox è stato presentato al Parlamento Europeo dall’europarlamentare PPE Tiziano Motti su idea di Ghioni. Prevede di crittografare i dati mettendo la “chiave” per decriptarli nelle mani di autorità, notaio, utente stesso. Dunque un certificato digitale che passa attraverso la garanzia di 3 entità, tra cui l’utente stesso che ha voce in capitolo.
Il meccanismo implica la “collaborazione” dei sistemi operativi. Dunque si chiamano in causa Windows, Apple, Linux. Dovrebbero contenere le caratteristiche di generazione di tutti i log (in pratica i tabulati) di attività che vengono attuati dal computer su cui gira il sistema operativo. Non è poco, perché così i log sarebbero firmati digitalmente in modo da far risalire a uno specifico computer e al suo utilizzatore. E questo indipendentemente da qualunque accorgimento per anonimizzare qualunque attività illecita. Ghioni assicura che i costi per l’operazione sarebbero estremamente bassi. Il sistema è attualmente all’analisi della Commissione Europea. Ghioni ci confessa: “Non credo che verrà approvato perchè in tanti non sono interessati alla trasparenza”. Ci convince sempre di più sull’importanza di un dibattito della società civile.
Resta da sottolineare che tutto il discorso non tende minimamente a demonizzare Internet o social network. Si tratta semmai di rivendicare maggiore educazione all’uso. E’ bello ricordare che il Consiglio d’Europa ha giustamente inserito a dicembre scorso tra i diritti fondamentali dell’uomo quello dell’accesso a Internet. E che il Parlamento Europeo ha assegnato a fine 2011 il Premio Sacharov per la libertà di pensiero a esponenti di diversi Paesi del Nord Africa che hanno fatto la “primavera araba” nei loro Paesi anche attraverso la Rete.  Il punto è che Internet è innanzitutto un’opportunità ma va conosciuta meglio nei suoi contenuti come nei suoi meandri tecnici. Un esempio di meandri del prossimo futuro: Internet 3.0. Significa non più solo computer che comunicano tra loro ma anche elettrodomestici e oggetti di uso quotidiano che comunicano in Rete attraverso sensori. Non si può non seguire quest’altra accelerazione della tecnologia con la riflessione e il pensiero. D’altra parte è sempre quello che accade all’uomo di ogni tempo: la tecnologia lo catapulta sempre in terreni nuovi dove si ritrova a reinventare il pensiero.
Si capisce la sfida che il mondo virtuale pone all’umanità di oggi. Con la consapevolezza che Ulisse è sempre nell’animo umano. Nell’antichità, l’Ulisse di Omero sfidava e veniva sfidato dai confini fisici tra noto e ignoto. Nel Medio Evo l’Ulisse di Dante “sconfinava” inseguendo la conoscenza tra vizi e virtù dell’animo. Poi nel ‘900, l’Ulisse di Joyce ha rappresentato la stessa brama di conoscenza ma sui “confini” tra conscio e inconscio. Oggi, Ulisse è sfidato sempre sul solito terreno della conoscenza ma nella zona in ombra tra reale e virtuale.  Fausta Speranza

Aprile 2012

Il rapporto tra le religioni 10 anni dopo l’11 Settembre

10 anni dopo l’11 Settembre, “Negli ultimi giorni alcuni ritenevano che ciò non sarebbe stato possibile, a causa dei tragici eventi negli Stati Uniti…”. Esattamente 11 giorni dopo il drammatico 11 Settembre 2001, Giovanni Paolo II pronunciava queste parole, mettendo piede in Kazakhistan, paese dell’Asia centrale a maggioranza musulmana ma di tradizione multietnica e multireligiosa. Le sue parole erano ferme come la decisione di mantenere la prevista visita pastorale ad Astana e in Armenia nonostante l’alto allarme internazionale e lo choc delle Torri gemelle.
E’ stato subito evidente a tutti, oltre al dolore e alla paura, che l’attentato a New York fosse uno di quei fatti che segna un prima e un dopo. Passati dieci anni, sono stati fatti tanti bilanci. Tra questi ce n’è uno particolarmente delicato: sul rapporto tra le religioni. Si parlava a gran voce, con timore, di un possibile scontro di civiltà. Oggi, un po’ sottovoce, si riconosce che le tre principali religioni, monoteiste, si presentano una di fronte all’altra ognuna con un rispettivo bagaglio di “fondamentalismo” al loro interno che dieci anni fa non aveva lo stesso spazio.
L’11 Settembre è figlio del fondamentalismo islamico e dunque nel caso del mondo musulmano è palese come il fenomeno fosse già in atto. Nel caso del giudaismo e del cristianesimo invece dobbiamo riconoscere che in questi dieci anni di inizio Millennio le forme di espressione che definiremmo ‘retrò’ si sono moltiplicate e accentuate. Lo sottolinea il prof. padre Giovanni Rizzi, biblista della Pontificia Università Urbaniana, che ci aiuta anche a dare una definizione di fondamentalismo. Ci spiega che si manifesta “quando si accentua una religiosità radicale che compie l’errore grave di fare a meno di alcune delle fonti della propria religione, in particolare della tradizione che media i testi religiosi fondatori con la storia della religione stessa”.  Per l’Islam significa una lettura integralista e politica del Corano che salta la tradizione interpretativa. Per il Giudaismo significa l’esasperazione delle implicazioni politiche. Per l’ambito del Cristianesimo, significa in sostanza trascurare il Concilio Vaticano II in nome di un tradizionalismo, che – dice padre Rizzi – “è una caricatura semplicistica della tradizione”. Il Concilio – afferma – offre ai cattolici documenti che hanno oggi più che mai validità e attualità, eppure in tanti “è venuta meno la speranza del Concilio, la fiducia di costruire”. Come dire che, a 50 anni dall’apertura del Concilio, stiamo attraversando, a parte il ruolo illuminante di uomini di Chiesa, una fase di ripiegamento. D’altra parte, è vero per tutti che senza speranza il ripiegamento è assicurato.
E’ facile trovare letture critiche del fondamentalismo islamico, ed è anche abbastanza facile trovare attente analisi di come un certo mondo ebraico rilegga la storia di Pio XII, ad esempio. Meno facile soffermarsi su quanto accade nel mondo cattolico.
Nel documento Nostra Aetate del Vaticano II si legge: “Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non cristiane”. Fin qui una consapevolezza che precorreva i tempi. Poi un fermo proposito: “Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, la Chiesa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino”. “La Chiesa cattolica – prosegue – nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle altre religioni… Considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”.
Tutto ciò lo ricordiamo per guardare a quanto accaduto a Parigi per lo spettacolo ‘Sul concetto di volto nel Figlio di Dio’, di Romeo Castellucci. Non interessa in questa sede entrare nel merito della valutazione dell’opera che presentava motivi di riflessione ma suscitava anche forti perplessità per alcuni gesti. Il punto qui non è questo: il punto sono alcune manifestazioni aggressive di alcuni contestatori cristiani fuori del teatro dove lo spettacolo veniva messo in scena. Lì – dice padre Rizzi – si è espresso un certo ‘fondamentalismo cattolico’ che non vorremmo vedere. Poi padre Rizzi fa esempi di tutt’altro genere: ricorda la scelta di alcune parrocchie di ospitare in Chiesa musulmani per le loro preghiere, vista l’assenza di loro luoghi di culto. Salvando le buone intenzioni, non si può non temere la confusione tra identità, che non è mai un buon sentiero sul percorso dell’ecumenismo, o sulla via del dialogo. Anche questo può essere estremismo. Inoltre padre Rizzi cita le tendenze di alcuni esponenti di movimenti ecclesiali che pretenderebbero di “sostituire la teologia insegnata nelle università pontificie con surrogati del tutto insufficienti”: vorrebbero ottenere un avvallo di programmi formativi autonomi, senza un vero confronto con tutta la grande tradizione della Chiesa, che non può essere ridotta al pensiero del  fondatore di una realtà ecclesiale. Non è questo il modo di lasciar soffiare lo Spirito che arricchisce la spiritualità dei movimenti ecclesiali. Tutto ciò sa in qualche modo di esagerazione, di esasperazione e di semplicismo irresponsabile. E rischia di essere questa la cifra dei rapporti tra le religioni in un momento storico in cui l’accelerazione delle migrazioni comporta di per sé sfide niente affatto banali.
Intanto si ridisegnano equilibri mondiali in tutto il Medio Oriente e nel continente africano e assistiamo ai massacri di cristiani in Nigeria da parte di gruppi di estremisti islamici. Ci ricorda che è sempre in agguato il rischio delle strumentalizzazioni delle religioni per guerre di potere. E’ un rischio che trascende il periodo in questione e ci riporta a momenti storici che attraversano 1400 anni di storia di rapporti tra musulmani e cristiani. Certamente non c’è solo tutto ciò in questi anni: ci sono quanti guardano alla Congregazione per la dottrina della fede che continua il suo impegno serio e fruttuoso di ermeneutica del Concilio. “Un’ermeneutica – ricorda padre Rizzi – che non è né di destra né di sinistra”. Inoltre ci sono quanti non dimenticano la personale testimonianza di dialogo che ha vissuto papa Giovanni Paolo II, oggi Beato. Papa Wojtyla – va detto – proprio seguendo l’entusiasmo del Concilio ‘apriva porte’ e comunicava aperture ma nello stesso tempo chiamava il teologo Ratzinger alla guida della Congregazione per la Dottrina della fede, quasi come ideale “controparte” di tanto slancio. Padre Rizzi dice: “Con il cardinale Ratzinger Giovanni Paolo II si assicurava note di accortezza, di ponderatezza”. Ecco la cifra della Chiesa ufficiale che però alcuni rischiano di trascurare. E c’è anche altro: c’è l’impegno del magistero di Benedetto XVI. Troppo facile citare solo l’episodio di Ratisbona, con gli effetti di tensione procurati da una certa interpretazione delle parole del Papa, o la tensione con gli ebrei per l’apertura al vescovo lefebreviano negazionista. C’è molto altro, a partire dalla storica visita di Benedetto XVI alla Moschea Blu di Instanbul, in Turchia. C’è il dialogo importante con i musulmani che Benedetto XVI è riuscito a proseguire su un piano culturale, visto che in questa fase storica è praticamente impossibile il dialogo sul piano teologico. Una scelta accorta che può portare frutti importanti, spiega padre Rizzi. Una scelta che sembrerebbe paradossale sotto il Papa teologo per eccellenza. Ma il cammino intravisto dalla Nostra Aetate non è mai stato definito facile in nessun documento e non può esserlo nel contesto del “trend epocale all’estremismo” individuato da padre Rizzi. Bisogna aggiungere qualcosa: quando, nel 2007, 138 saggi musulmani hanno scritto a Benedetto XVI una lettera chiedendo in sostanza di riprendere il dialogo – anche con l’intento di superare l’accerchiamento internazionale e la possibile equivalenza tra Islam e estremismo – chiedevano un dialogo teologico. Con la sua risposta attraverso il segretario di Stato cardinale Bertone, Benedetto XVI ha invece messo a fuoco l’impegno sul piano culturale. Questo la dice lunga sugli anni di cui stiamo ragionando. Padre Rizzi riconosce: “Il mondo cattolico ha bisogno ancora di chiarimenti interni prima di un dialogo teologico con l’Islam”. E c’è da dire che alcuni frutti si sono visti: i saggi da 138 sono diventati presto 500 e dopo la prima adesione di sunniti anche gli sciiti hanno aperto un tavolo di trattative. Intanto proseguono sotto il magistero di Benedetto XVI gli incontri ad Assisi, voluti da Giovanni Paolo II. Ma – come si nota spesso – ci sono meno momenti di preghiera comune. L’importante, in questo momento storico, è mantenere un dialogo. In fondo è anche tutto quello che hanno potuto gli incontri interreligiosi nella cittadina di San Francesco. Dal punto di vista dottrinale, infatti, non è stato raggiunto alcun passo avanti. Ma resta il valore profondo dell’incontrarsi. Come restano le parole di Benedetto XVI alla vigilia dell’ultimo incontro ad Assisi: “I cristiani non cedano mai alla tentazione “di diventare lupi tra i lupi”.    E ancora restano le parole di Giovanni Paolo II in quella particolarissima visita pastorale in un paese musulmano a 11 giorni dalla tragedia degli aerei kamikaze. Rivolgendosi ai cristiani diceva: “Alla forza della testimonianza unite la dolcezza del dialogo”.  Fausta Speranza

Gennaio 2012

Non più solo PIL ma PNS

Non più solo PIL ma PNS, Prodotto Nazionale Sapere: è la proposta dell’India all’Onu di Fausta Speranza, pubblicato su www.fabioghioni.net il 19 dicembre 2011

Dall’Homo Sapiens all’Homo Cognoscens: è possibile una “evoluzione biologica del pensiero” nella teoria dell’economista Umberto Sulpasso

Per capire il grado di “ricchezza” di un Paese non basta la rilevazione del Pil: è la convinzione dell’India che si appresta a presentare formale richiesta all’Onu di introdurre anche l’indicazione del Prodotto Nazionale Sapere. Il nuovo Indice di rilevazione, che in inglese suona Gross National Knowledge Product, dovrà dare la misura di quanto uno Stato sia in grado di produrre Sapere, di accumularlo, di farlo circolare. Non si tratta di eliminare il Pil ma di aggiungere un parametro che può fare la differenza. Ne è convinto l’economista Umberto Sulpasso, docente in diverse Università statunitensi, che ha contribuito a pensare l’iniziativa e che è concretamente impegnato a elaborare il possibile calcolo del Pns, perchè non sia solo un’idea. Per fare un solo esempio, si vogliono indicare dei fattori che possano essere Moltiplicatori del Sapere, con i quali avrebbero a che fare politiche fiscali e finanziarie.
Il termine Sapere evoca orizzonti di umanità, con l’immagine di Ulisse che tenta di varcare le Colonne d’Ercole della conoscenza, in ogni epoca. Ma in più c’è il concetto di Sapere condiviso che da sempre è un motivo di avanzamento delle società. Inoltre ci sembra un’idea geniale valutare il benessere di un popolo dal grado di conoscenze, perchè conoscenza significa anche libertà. Nulla come l’ignoranza crea catene all’uomo e lo espone a falsità. Nulla come un pensiero banale lo limita. Pensiamo alle nostre società ricche imbrigliate da un pensiero dominante, segnate dall’ansia di possedere oggetti glorificati come portatori di felicità, di venerare l’apparenza, condizionate negli ultimi anni da tanta banalità e stupidità televisiva.
In India ci sono studiosi e uomini delle istituzioni che stanno lavorando a tutto ciò. In attesa della presentazione all’Onu dell’articolata e precisa proposta, il prof. Sulpasso teorizza il tutto in un particolarissimo libro intitolato Darvinomics, edito da Il Saggiatore. Spazia da teorie economiche a citazioni letterarie, dalla fantascienza al jazz, attraverso anche colloqui impossibili con personaggi del passato. Il lettore è accompagnato e a volte sballottato anche da interpretazioni personalissime da approfondire, ma senz’altro arricchito. E’ l’arricchimento brutale e essenziale di chi sceglie la lucidità.
La prima consapevolezza è quella delle reali dimensioni della crisi economica che attraversa l’Occidente: Sulpasso afferma che è una crisi che può far implodere il nostro mondo di fronte alle economie crescenti di Cina e Russia che hanno rispettivamente la demografia e l’energia dalla loro parte. Teorie e meccanismi economici applicati finora hanno prodotto le attuali società in cui cresce il divario tra ricchi e poveri, cresce la disoccupazione e aumentano i costi dell’istruzione. La Gran Bretagna è l’esempio più lampante anche perchè lì ci sono state forti proteste dei giovani per l’aumento delle tasse scolastiche ma non è affatto l’unico paese. Dei tagli al Sapere si parla meno ma è forse l’elemento che più taglia le gambe al futuro, insieme al dramma della disoccupazione. Ed è proprio l’Occidente, che dovrebbe vantare l’arma del know how di fronte alle ricchezze di Cina e Russia, a tagliare l’istruzione. Pur senza amare le dietrologie da Grande fratello, non si può non concordare con Sulpasso quando dice che tutto questo fa pendant con la promozione di un’ignoranza diffusa che crei consenso, senza se e senza ma. L’Occidente non è solo questo insieme di negatività, per fortuna, ma per capire da dove viene la crisi è dalle debolezze che si deve partire. Perciò seguiamo Sulpasso nell’analisi che peraltro non è nuova. E’ rivoluzionaria invece la proposta di riscatto.
Per un Occidente un po’ addormentato, Sulpasso immagina nuove formule economiche che vadano oltre quella che definisce la Fossil Economy, cioè l’economia che andava bene prima dei profondi cambiamenti della globalizzazione. E chiama la nuova economia da inventare Darwinomics. Il concetto è spietato: se la disoccupazione continua a crescere, la fame porterà a conflitti sociali e guerre, e dunque il primo significato è che ne va della sopravvivenza della specie. Il secondo significato è che Darwin insegna che nei processi di selezione della specie non è il più forte a sopravvivere ma è quello che riesce meglio a modificarsi per adattarsi al nuovo ambiente. L’appello è chiaro: attento Occidente a non rimanere uguale a te stesso, solo più vecchio e più ignorante.
L’ignoranza è l’alternativa drammatica alla consapevolezza e alla capacità di produrre idee. Ci sembra questo il punto centrale. E qui ci piace pensare che si aprono  anche orizzonti di speranza. Nello scenario di una TV diventata quasi monopolio di un Sapere niente affatto indirizzato a creare coscienze vigili, si sono affacciate nuove forme di informazione e di comunicazione: Internet, con i suoi spazi dilatati, e i social network, promotori di condivisione per definizione. Spuntati un po’ in sordina, stanno palesando tutte le loro potenzialità, a partire dalla “primavera araba”. Ma non possono essere lasciati a loro stessi, per tanti motivi. L’uomo deve essere sempre attore protagonista di ogni tecnologia e non esserne in balia acriticamente. Personalmente ci piace ricordare l’espressione di Erich Auerbach: “solo l’uomo, ma in tutti i casi, in qualsiasi situazione terrena, è eroe drammatico e deve esserlo necessariamente”. Insomma, all’uomo spetta pensare e guidare la rivoluzione del Sapere che può salvarlo dalla nuova Grande recessione, che non è più solo uno spettro.
Va detto che Sulpasso azzarda un vero e proprio passaggio biologico da Homo Sapiens a Homo Cognoscens, cioè “da antropo che sa a quello che usa correttamente il proprio Sapere”. Dunque si parla dell’affascinantissima prospettiva di una evoluzione biologica del pensiero. Un ulteriore stimolo alla riflessione. Un ulteriore stimolo a promuovere pensieri creativi che entrino in conflitto con i pensieri dominanti, come è giusto che sia per avere dinamiche di crescita del pensiero e del Sapere dell’umanità! In definitiva, un appello a focalizzarsi sulle risorse intellettuali del pianeta per far fare all’uomo un passo in avanti.

La questione di genere: un dibattito serissimo da non relegare alle sedi Onu

A primavera all’Onu si discuterà di orientamento sessuale e di identità di genere ma non sarà più solo per combattere violenze e discriminazioni. Sarà per sdoganare la scelta di identificarsi in una X in alternativa all’indicazione di maschio e femmina e soprattutto sarà per discutere se essere una X è solo una questione di sensazione e non di fisicità.
Mentre discutevamo di diritti delle donne e di giusta lotta a ogni forma di violenza e discriminazione ai danni del femminile e delle persone omosessuali, ci si accorge che senza troppo clamore il diritto internazionale viene sfidato sul terreno dei termini, o meglio della definizione dei termini. Il punto sta diventando se una persona può decidere a prescindere dalla propria fisicità sessuale di essere donna o uomo o X.  Non stiamo dicendo che con un’operazione chirurgica la persona può modificare tale fisicità perchè questa è una frontiera già aperta. Il punto ora sta diventando se, senza nulla operare sui propri organi, una persona possa scegliere di identificarsi in un genere diverso dagli organi stessi. Certamente è dovuto il rispetto per l’inquietudine, la sofferenza, le difficoltà che a livello umano le persone coinvolte possono provare nel volersi identificare con qualcosa di diverso dalla naturale fisicità o in alcuni casi per situazioni oggettivamente non chiare dalla nascita. Ma è d’obbligo ragionare sui principi. Ad introdurre in modo serio e palese questa finestra di discussione è stata la notizia, commentata più o meno in termini di curiosità, della normativa introdotta a ottobre in Australia che prevede la X nei passaporti, in alternativa a maschio e femmina, per transgender e trans. Il pronunciamento giuridico che lo autorizza è preciso: la persona ha facoltà di scegliere il genere al di là dell’evidenza fisica. Basterà infatti una lettera del medico che attesti che quella persona sente di essere donna, uomo o trans per ribaltare quello che la natura fisica dice. La prima cosa che viene da chiedersi è se in un giorno diverso quella persona sentirà una cosa diversa. Ma viene anche da chiedersi come sta messo il diritto internazionale, chiamato prima o poi in causa da questo pronunciamento giuridico.
Il vecchio continente pensando all’appuntamento a primavera a livello di Nazioni Unite si sentiva preparato. Sia l’Unione Europea a 27, sia il Consiglio d’Europa a 47 Paesi, si sono pronunciati più volte contro ogni forma di discriminazione di genere. I dati denunciano un livello di inaccettabile violenza e discriminazione nonostante tutte le Carte sottoscritte e, dunque, i pronunciamenti non sembrano mai abbastanza. In particolare a settembre scorso è approdata al Parlamento Europeo una Risoluzione che ha avuto pareri favorevoli dal Partito Popolare come da quello Socialista e Liberale e Democratico. Il testo si richiama alla Risoluzione A/HRC/17/19 del Consiglio dei diritti umani dell’Onu e esprime la costante preoccupazione del Parlamento Europeo per le violazioni dei diritti umani delle persone LGBT e cioè lesbiche gay bisex transessuali. La sigla è da imparare perché ritorna ormai in tutti i discorsi e i documenti relativi alla questione di genere. Compare da più tempo nei testi del Consiglio d’Europa che ha come finalità proprio quella di tutelare i diritti umani. Il Consiglio d’Europa già nel 2010 ha adottato una sua Risoluzione sul tema. Si tratta della risoluzione 1728 che afferma che “in tutti i paesi membri del Consiglio d’Europa l’omosessualità è stata discriminata”. Ricorda che “in base al diritto internazionale tutti gli esseri umani sono nati liberi e uguali per quanto riguarda la dignità e i diritti”, per poi sottolineare che “non deve essere permesso considerare l’orientamento sessuale e l’identità di genere come motivi di discriminazione”. Precisamente spiega che “secondo la Corte Europea dei diritti dell’uomo una differenza di trattamento è discriminatoria se non ha oggettive e ragionevoli giustificazioni” e che “dato che l’orientamento sessuale è l’aspetto più intimo della vita privata di un individuo, la Corte considera che soltanto ragioni particolarmente serie possono giustificare differenze di trattamento basate su orientamento sessuale”. C’è l’invito a ogni paese membro a “sradicare ogni forma di omofobia e transfobia”, in particolare “sostenendo a livello nazionale cambiamenti nella legislazione e nelle politiche”. Fin qui discorsi già aperti, che non interessa in questa sede analizzare. C’è un punto invece che ci riporta al dibattito che intravediamo giungere dall’Australia. A ben guardare, infatti, nella Risoluzione del Consiglio d’Europa si legge: “L’identità di genere fa riferimento alla esperienza interiore e individuale di genere sentita profondamente da ogni persona”. La domanda da farsi è quale margine di interpretazione lasci questa affermazione. Forse da parte di chi l’ha sottoscritta nel 2010 non c’era la consapevolezza che qualche Corte introducesse il riconoscimento di “sensazioni” di genere. O forse sì. Impossibile dirlo. Ma in ogni caso il dibattito va aperto seriamente a partire dalla normativa di Sidney che autorizza passaporti con M, F, X.
Ma non è l’unico spunto: in Canada compirà un anno proprio in primavera Storm, il figlio, o la figlia, di tali Kathy e Witterick David Stocker. Il sesso del bambino è proprio quanto non è dato sapere. La coppia infatti ha pubblicamente chiesto alle autorità di poter omettere ogni indicazione su questo e conferma di non averlo comunicato neanche ai nonni. La motivazione: la scelta del sesso sarebbe una “questione personale” del nato/a, che lui/lei dovrà decidere, nell’ottica che definiamo inquietante della coppia, “senza condizionamenti sociali”. Della vicenda aggiungiamo solo che i nonni hanno espresso pubblicamente disappunto e preoccupazione. Raccogliendo spunti dall’Australia al Canada, siamo andati a fare una chiacchierata con un politico britannico di fama internazionale in tema di diritto: Lord Alton. Conferma che la questione di genere è stata finora sottovalutata. Precisamente parliamo di David Patrick Paul Alton, Baron Alton of Liverpool, noto per aver promosso campagne contro l’aborto in stretta sinergia con ambienti laici e atei. Professa più che pubblicamente di essere cattolico, ma, quando si tratta di diritti umani – ci tiene a sottolinearlo – “bisogna sentirsi innanzitutto cittadini responsabili prima ancora che credenti”. Lord Alton in questi anni si è messo in contatto con medici e intellettuali atei che si sono posti un problema di fronte ad alcune cifre: la Gran Bretagna in un anno registra 250.000 aborti, cioè più di 600 al giorno. Dietro alle cifre ci sono donne con il loro vissuto e 60 milioni di euro spesi. Al di là del valore della difesa della vita da parte della Chiesa cattolica, in tanti si sono posti il problema. E Alton fa anche un altro esempio: la pena di morte. Se davvero siamo nel mondo in controtendenza è perchè in tanti hanno testimoniato il valore di ogni vita umana ma anche perchè l’opinione pubblica in sempre più paesi sta considerando oggettivamente che non c’è nesso tra pena capitale e maggiore sicurezza. E poi l’eutanasia: Alton assicura che se il parlamento britannico non si è adeguato all’apertura fatta da alcuni Paesi è “perchè il dibattito tra la gente è molto forte e l’opinione pubblica coinvolta”. Per tutti questi temi Alton tiene aperta la discussione con l’Associazione Libertarian for life, movimento che conta molti credenti e non. In definitiva, sulla questione di genere Lord Alton raccomanda proprio un dibattito più trasversale possibile: “Non lasciare la questione di genere solo a chi la affronta come questione politica o religiosa ma coinvolgere tutti i cittadini come i media”. Ognuno deve porsi l’interrogativo se dichiararsi donna, uomo o trans possa essere solo questione di una sensazione. E ognuno deve prepararsi a un dibattito che al momento è solo accennato e circoscritto al prossimo incontro all’Onu ma che in realtà apre interrogativi su parecchi fronti. Se tutti siamo d’accordo a condannare violenza e discriminazione contro Lgbt, infatti, è tutto da dibattere su altre richieste che indubbiamente premono da parte dei gruppi che stanno dietro a questa sigla: adozione, matrimonio, fecondazione assistita. Se non abbiamo più neanche la distinzione biologica “reale” tra uomo e donna come punto di riferimento per ragionare su tutto ciò, il dibattito diventa davvero arduo.  Fausta Speranza

Dicembre 2011

La persecuzione dei cristiani in Iraq: strategia del fondamentalismo

Fermare la carneficina di cristiani in Iraq, e non solo, è dovere della comunità internazionale ma l’Europa e il resto del mondo dovrebbero innanzitutto comprendere che non c’è in gioco solo la difesa di vite umane: c’è in gioco la libertà religiosa in quanto “cartina tornasole di tutte le più importanti libertà”. A definire così la libertà religiosa è stato Giovanni Paolo II e l’attuale drammatico scenario di persecuzione contro i cristiani non fa che confermare la profondità e la profeticità di questa definizione. Il massacro nella Cattedrale di Baghdad, diabolicamente pianificato a fine ottobre solo pochi giorni dopo la conclusione del Sinodo della Chiesa cattolica sul Medio Oriente, rappresenta un triste simbolo di come il fondamentalismo e l’intolleranza cerchino di minare la libertà, partendo dalla libertà religiosa. Il Rappresentante personale della presidenza dell’OCSE contro razzismo, xenofobia e discriminazione nei confronti dei cristiani, Mario Mauro, lo ha detto chiaramente nel suo libro intitolato ‘Guerra ai cristiani’: “Le comunità cristiane documentano il dramma della libertà dell’uomo di fronte al potere”. Accanto alla voce del cattolico europarlamentare italiano, citiamo una voce laica di Oltreoceano: il Direttore  del Washington Institute’s Project on the Middle East Peace, David Makovski. Ci ha detto: “La storia insegna che non esiste una soluzione magica per pacificare il Medio Oriente e che l’unica via potrebbe essere quella di capire meglio le dinamiche in atto senza cercare grandi teorie ma investendo in piccole azioni positive”. E ha aggiunto: “Proprio quello che il terrorismo vuole colpire”. Terrorismo e fondamentalismo colpiscono ciò che è positivo e costruttivo: per questo colpiscono la libertà religiosa.
Si prende a pretesto Dio per il potere. E’ il dramma del Medio Oriente e non solo. E’ il dramma che ha insanguinato troppe pagine della storia. E che ha visto purtroppo in passato anche cristiani protagonisti di violenze. E’ ben chiaro nelle parole di Benedetto XVI nell’esortazione postsinodale ‘Verbum Domini’: “La religione non può mai giustificare intolleranza e guerre. Non si può usare la violenza in nome di Dio!”. Nella Messa conclusiva del Sinodo, il Papa ha chiesto “pace e libertà religiosa e di coscienza”. Peraltro il Papa si è unito all’appello del Sinodo per una maggiore unità tra i cristiani nelle terre che hanno visto nascere il Cristianesimo. Ha detto: “Abbiamo bisogno di umiltà, di riconoscere i nostri limiti, errori, omissioni per poter formare un cuor solo e un’anima sola”. In Medio Oriente ci sono 22 “chiese cristiane”, la Chiesa cattolica ne conta 7. Il Sinodo ha fatto emergere la ricchezza di riti antichi e diversi ma anche la povertà di antiche e nuove divisioni. Il Sinodo ha dato al mondo una lezione anche esprimendo – in sintonia con l’umiltà invocata dal Papa – un mea culpa: ha stigmatizzato il “proselitismo cristiano” di alcuni gruppi evangelici che “non fanno una doverosa riflessione sulle differenze di concetti e di atteggiamenti nei musulmani e nei cristiani prima di aprire un dialogo che non può che essere rispettoso”. E ha criticato alcuni esponenti di movimenti cattolici che “si impegnano in Terra Santa senza studiare abbastanza usanze, tradizioni, cultura e lingua locali”.
La Chiesa riconosce i propri limiti e dovrebbe fare altrettanto la comunità internazionale. Il Papa dal Sinodo ha lanciato un appello che non dovrebbe rimanere inascoltato: “I governi delle Nazioni garantiscano a tutti la libertà di coscienza e di religione, anche di poter testimoniare la propria fede pubblicamente”. E nella lettera che ha inviato, poco dopo per mano del card. Tauran, al presidente iraniano Ahmadinejad, in risposta a una sua missiva, ha ricordato che “il rispetto della dimensione trascendente della persona è condizione per la costruzione della pace, così come il dialogo interreligioso e interculturale è via importante per la pace”. Il dialogo presuppone la libertà religiosa.
In Oriente libertà di religione vuol dire solitamente libertà di culto. Non si tratta dunque di libertà di coscienza, cioè della libertà di credere o non credere che il Cristianesimo difende, di praticare una religione da soli o in pubblico, di cambiare religione. In Oriente la religione è, in generale, una scelta sociale e perfino nazionale, non una scelta individuale. Cambiarla è ritenuto un tradimento verso la società.
Da 7 anni, dall’intervento militare in Iraq, gli analisti guardano a quanto accade a Baghdad come a un paradigma di quanto potrebbe accadere in tutto il Medio Oriente. Il dittatoriale ma laico Stato dell’Iraq si è bruscamente aperto alla democrazia ma anche al fondamentalismo. Rappresenta un difficile banco di prova per tanti equilibri. Ma dell’Iraq non si parla nei nostri media ad eccezione di resoconti frettolosi degli episodi più gravi di violenza: solo la punta dell’iceberg della mattanza quotidiana. Non si racconta la sfida inarrivabile per un governo di unità nazionale durevole. Non si racconta abbastanza il dilagare del fondamentalismo. Così come non si racconta la difficile fase politica del Libano. Altro Paese paradigma: il Paese dei cedri è l’unico nel Medio Oriente dove i cristiani hanno avuto una rappresentanza politica. E soprattutto, le più alte cariche dello Stato sono assegnate ai tre gruppi religiosi principali: il presidente della Repubblica è cristiano maronita, il primo ministro è sunnita, il presidente del Parlamento è sciita. E questo ha un valore grandissimo perchè alcuni dei massacri quotidiani che avvengono in Iraq, in Afghanistan e in Pakistan sono dovuti a lotte fratricide tra diverse componenti o correnti dell’Islam. La minoranza sciita è oggetto di attacchi tanto quanto altre minoranze. Dunque se è vero che i cristiani sono perseguitati in nome di un’errata e strumentale sovrapposizione tra Cristianesimo e Occidente e in quanto espressione dei valori di libertà, tolleranza e laicità positiva, è altrettanto vero che in realtà ad essere combattute dalle frange violente dei radicalisti islamici sono tutte le minoranze che non si adeguano alla logica dominante o potenzialmente dominatrice. La vera posta in gioco è solo il potere. In quest’ottica, il Libano rappresenta un esemplare esperimento di convivenza e di equilibrio tra poteri, che però è messo a dura prova negli ultimi tempi dalla preoccupante instabilità politica. Andrebbe strenuamente sostenuto dalla comunità internazionale. Del paese dei cedri, invece, non parla nessuno.
Anche di mons. Padovese si è parlato troppo poco e male. E’ quanto è emerso dal toccante intervento al Sinodo di mons. Ruggero Franceschini, successore del vescovo dell’Anatolia ucciso in casa il 3 giugno scorso dal suo autista. Del  predecessore ha difeso la memoria dalle “insopportabili calunnie fatte circolare dagli stessi organizzatori del delitto” su presunte relazioni omosessuali del vescovo martire. Mons. Franceschini non ci sta a vedere infangata la memoria di mons. Luigi Padovese e non ci sta a sentir parlare di un gesto da squilibrato e al Sinodo ha parlato chiaramente di “ultranazionalisti e fanatici religiosi” di “un omicidio premeditato da esperti della strategia della tensione, dagli stessi poteri occulti che il povero Luigi  pochi mesi prima aveva indicato come responsabili dell’assassinio di Don Andrea Santoro, del giornalista armeno Dink e dei quattro protestanti di Malakya”. Resta la considerazione del Papa: “Questo assassinio non può essere attribuito alla Turchia e ai turchi e non deve oscurare il dialogo”. Ribadito questo, va detto che nella laica Turchia l’uccisione di Don Santoro, a febbraio 2006, e quella di mons. Padovese, quattro anni dopo, rappresentano un inquietante segno del dilagare del fondamentalismo. Anche di questo non si parla abbastanza. Mons. Franceschini al Sinodo ha aggiunto: “La Chiesa di Anatolia è a rischio sopravvivenza: ve ne faccio partecipi con un tono di gravità e urgenza”. Poi lo slancio del pastore: “Voglio tuttavia rassicurare le chiese vicine, in particolare quelle che soffrono persecuzione e vedono i propri fedeli trasformarsi in profughi, che come Conferenza Episcopale turca saremo ancora disponibili all’accoglienza e all’aiuto fraterno, anche oltre le nostre possibilità”. Questa è la forza dirompente del Cristianesimo che tanto dà fastidio al fondamentalismo nel Medio Oriente. In Turchia a fine ‘800 i cristiani erano 4 milioni, oggi sono meno di 100.000; in Iraq solo nel 2004 se ne sono andati 40.000 cristiani; nella culla del Cristianesimo, a Betlemme, non troppo tempo fa i cristiani rappresentavano il 70% della popolazione, oggi su 35.000 abitanti sono meno di un sesto. Anche se bisogna dire che in alcuni Paesi del Medio Oriente dopo anni di abbandoni oggi si registra un’immigrazione da Paesi cattolici come le Filippine. Ma ad essere ingombrante è il messaggio di amore, di pace e libertà, al di là dei numeri. La comunità internazionale dovrebbe agire, ma prima dovrebbe capire la piega che ha preso la crescita esponenziale di un certo Islam politico iniziata dagli anni ’70 e quello che rappresenta il Cristianesimo.
L’Islam tende ad essere onnicomprensivo: religione, società e politica sono un unicum. La laicità statale è processo incompiuto. Quando questo unicum è in mano al radicalismo è Sharia e intolleranza. Quando il radicalismo è in mano ai violenti è terrorismo. Di fronte a tutto ciò non andrebbe dimenticato il concetto di laicità positiva difeso dalla Chiesa cattolica. In sostanza significa distinguere il ruolo della religione da quello dello Stato ma non negare il ruolo anche pubblico della religione. Ma in questa fase storica sembra che in Occidente non si capisca più a pieno il valore della laicità positiva: sembra offuscata dal pregiudizio del laicismo, cioè la posizione radicale di quanti vorrebbero far fuori completamente la religione da ogni ambito o dibattito pubblico relegandola alla sfera privata. Una posizione che rischia di essere radicale tanto quanto il radicalismo islamico o i fondamentalismi del secolo scorso.
A questo proposito è interessante ricordare alcune parole di mons. Luigi Padovese raccolte insieme con altre nel bel libro che gli è stato dedicato con il titolo di “come chicco di grano”, Edizioni Terra Santa, a cura di Giuseppe Caffulli. Si tratta di parole pronunciate in un intervento fatto l’11 ottobre 2009 nella Basilica di San Marco a Venezia, dove era stato invitato a parlare della realtà dei cristiani in Turchia. Mons. Padovese, dopo aver parlato della Turchia e di Don Santoro come un uomo che voleva essere ponte tra Occidente e Oriente, interrogava le coscienze dicendo: “A molti cristiani oggi in Europa è difficile pensare la religione al di fuori di una concezione individuale e intimistica, a volte è perfino difficile affermare in pubblico che si ha una fede privata, confessare a parole la propria fede; c’è anche un diffuso timore di trattare temi religiosi”. Queste parole restano come un monito all’Europa e all’Occidente: con questi timori si viene meno alla sfida decisiva di difendere la laicità positiva di fronte al fondamentalismo che caccia, stupra, uccide i cristiani, proprio per le libertà che testimoniano.  Dicembre 2010

A 60 anni dalla Convenzione dei diritti umani: nuovi diritti nazionali e sovranazionali

L’Europa festeggia 60 anni di impegno in difesa dei diritti umani mentre discute di nuovi possibili diritti e assiste a un braccio di ferro sempre più impegnativo tra diritto internazionale e diritti nazionali. Il 4 novembre 1950 il Consiglio d’Europa presentava la Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali. Sei decenni dopo, non è solo anniversario ma anche acceso dibattito e attesa per scadenze importanti. A ottobre si è giocata una partita delicata all’interno dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, che vive dal 1949 proprio per la difesa dei diritti umani e che raccoglie oggi ben 47 paesi. E’ stato respinto il Rapporto della deputata britannica Christine McCafferty che avrebbe oscurato l’esercizio dell’obiezione di coscienza per chi, lavorando nel settore sanitario, rifiuta pratiche quali l’aborto o l’eutanasia. Di più: è stato sostituito con un nuovo testo in cui il diritto del personale medico all’obiezione di coscienza viene sancito in maniera esplicita. Dunque, risultato ribaltato, con buona sorpresa di tutti. A ben guardare, il diritto alla libertà di coscienza è tra i diritti fondamentali riconosciuti nel 1950, così come il diritto alla vita. L’aborto, invece, non è tra i diritti fondamentali ma viene ammesso in molti paesi come eccezione al diritto alla vita. Eppure molto lasciava pensare che ci fossero i numeri per aprire alla possibilità di equiparare il presunto diritto all’aborto al diritto alla libertà di coscienza. Non è stato possibile grazie all’azione di diversi parlamentari, tra cui l’italiano Luca Volontè promotore di determinanti emendamenti, e all’appoggio di moltissime Ong europee e diverse chiese cristiane. In prima fila lo European Centre for Law and Justice. Il direttore, Grégor Puppinck, ha rispolverato il Principio IV dei Principi di Norimberga, voluti dopo la tragedia nazista: “Il fatto che una persona agisca obbedendo al proprio governo o ai propri superiori non la solleva dalla responsabilità nei confronti della legge internazionale perché resta provvisto della facoltà di una scelta morale”. Dunque la propria coscienza innanzitutto. Poi la Raccomandazione 1518 del Consiglio d’Europa del 2001: “Il diritto alla libertà di coscienza è un fondamentale aspetto della libertà di pensiero, coscienza e religione”. Poi l’articolo 10.2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto in conformità con le leggi che a livello nazionale disciplinano l’esercizio di tale diritto”.
Questa partita giocata alla vigilia del 60esimo ha significato che i solenni impegni della Convenzione dei Diritti Umani del Consiglio d’Europa sono ancora vivi e hanno tenuto all’insidia del documento della deputata socialista che terminerà con la fine dell’anno il suo mandato parlamentare. Ma Grégor Puppinck, parlando con Area, dopo aver espresso la soddisfazione per questo “importantissimo risultato”, assicura che “in parecchi appoggiavano l’iniziativa” e che “partite simili aspettano dietro l’angolo”. Anche in ambito di Unione Europea negli ultimi anni si è mosso qualcosa nel tentativo di vietare l’obiezione di coscienza in materie sanitario-riproduttive. Ma non è l’unico argomento sul quale si affaccia la richiesta di nuovi diritti.
Il fatto che a distanza di 60 anni l’evoluzione della società imponga qualche revisione non stupisce nessuno. Ma Marta Cartabia, docente di Diritto costituzionale all’Università Milano Bicocca, spiega ad Area un rischio preciso: “Il problema serio è che questi nuovi diritti vengono introdotti non attraverso una riflessione generale sui cambiamenti che la nostra società ha subito e quindi gli adeguamenti possibili, ma piuttosto vengono aggiunti o per via giurisprudenziale o attraverso risoluzioni, come quella tentata dalla McCafferty, votate da organismi internazionali”. Il diritto individuale non può che discendere dai principi stabiliti dalla Convenzione, ma – avverte la Cartabia – “se questi presunti nuovi diritti vengono introdotti fuori da un contesto generale vengono concepiti come assoluti”.
Fin qui abbiamo parlato di battaglie parlamentari, ma la prof.ssa Cartabia ci introduce all’altra sfida su cui riflettere: la via giurisprudenziale. Le sentenze delle Corti di giustizia, infatti, fanno scuola. Ricordiamo che l’UE ha la sua Corte che ha sede a Lussemburgo e che il Consiglio d’Europa ha la sua Corte che risiede a Strasburgo, dove sono anche i due rispettivi parlamenti. A pronunciarsi sul Crocifisso è stata la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, cioè la Corte che fa capo al Consiglio d’Europa. Ha accolto in prima istanza il presunto diritto di una cittadina straniera residente in nord Italia di non avere la Croce nella classe dei propri figli perchè la Croce avrebbe minato il suo diritto a un’educazione laica. La Corte si è pronunciata in prima istanza il 3 novembre 2009, l’Italia ha fatto ricorso con l’appoggio formale di 10 paesi, ottenendo il pronunciamento in seconda ed ultima istanza della Grande Chambre, deciso il 30 settembre scorso ma non ancora reso noto. C’è anche un altro caso di grande rilevanza arrivato alla stessa Corte e non ancora sciolto: 3 donne irlandesi rivendicano il diritto di abortire nel loro paese, che per legge non lo ammette. Si pronuncerà direttamente la Grande Chambre senza passare attraverso la prima istanza.
Veniamo così all’altro aspetto fondamentale dell’attuale dibattito in tema di diritti: il braccio di ferro tra legislazione nazionale e diritto internazionale. Nel caso del Crocifisso è stato ricordato quanto la sua presenza nelle scuole sia radicata nella legislazione italiana: non solo dello Stato sabaudo come è stato erroneamente detto nella prima sentenza, ma nel diritto dello Stato liberale dei primi del novecento che peraltro era in piena tensione con la Chiesa. Non solo: è stato ricordato quanto sia radicato nel sentire religioso così come nel vissuto culturale e nella tradizione italiana. E peraltro non solo in Italia, visto che la Croce compare in bandiere del Nord Europa. Per quanto riguarda, poi, il caso dell’aborto in Irlanda, basta ricordare che il timore che abbracciare la Costituzione dell’UE significasse per il paese finire per approvare prima o poi l’aborto è stato il motivo centrale del no al referendum sulla Costituzione nel 2005. E ancora se ne parlava al momento delle campagne mediatiche sull’adesione al ridimensionato Trattato di Lisbona nel 2007. Dunque, in questi due casi il diritto internazionale rischia di piovere sulle teste dei cittadini che a livello nazionale vivono tutt’altro. Certamente il dilemma non è nuovo, tanto che sia il Consiglio d’Europa che l’Unione Europea si erano posti il problema. L’Europa allargata a 47 del Consiglio d’Europa ha stabilito il principio del “margine di apprezzamento”, in base al quale si riconosce la dialettica tra esigenze unitarie e rispetto delle diversità nazionali. Nel caso dei 27 Stati membri dell’Unione Europea si chiama “principio di sussidiarietà”: prevede che si possa legiferare a livello comunitario là dove è possibile farlo, altrimenti si deve scendere al livello dello Stato nazionale o anche delle sottostanti entità territoriali. In entrambi i casi, tradotto in parole povere, si tratta di considerare le specificità di ogni Paese, che ha la propria storia e cultura. Il punto è che si avverte una pressione più o meno strisciante a minare questi due principi. Non sarebbe cosa da poco, e non solo per Crocifisso e aborto che sono stati solo i primi temi di grande rilievo affrontati. A valanga sarebbero travolti molti altri. Eppure i totalitarismi del secolo scorso, dal cui orrore è sorta la spinta a creare le strutture sovranazionali che potessero difendere pace e rispetto contro le derive nazionaliste, dovrebbero sempre ricordare a tutti che non è cancellando la coscienza e il suo spessore culturale che si costruisce una società migliore. Non è con l’appiattimento dei popoli su un unico standard che si costruisce una società di valori. Significava e significa ben altro l’impegno dei padri dell’Europa a mettere nero su bianco valori universalmente condivisibili. Per il bene comune e non per l’annullamento comune delle identità.  Novembre 2010

Tra sicurezza e tutela della persona I diritti umani visti dal Meeting

PROLIFERAZIONE. Il cardinale Scola avverte: «Destoricizzazione e astrazione portano al rischio che la carta dei diritti diventi un elenco telefonico». di Fausta Speranza

Rimini. Il tema dei diritti umani ha fatto da filo rosso all’edizione del Meeting di Rimini che si è conclusa ieri. Dall’immigrazione alla libertà religiosa, passando per crisi economica e sussidiarietà, e senza dimenticare il tema della vita. La rivendicazione di presunti o sacrosanti diritti ha tenuto banco, precisando a punti fermi e aprendo dibattiti. Tra i punti fermi, la tutela della dignità umana e il rispetto dell’identità. Tra gli spunti di discussione, il confine tra decisioni nazionali e decisioni sovranazionali e il limite tra diritto e desiderio. In tema di crisi globale c’è stato l’appello del ministro dell’Economia, GiulioTremonti, a una mentalità non più nazionale ma europea e mondiale per tutelare il diritto al lavoro, ma anche gli appelli della società civile e del presidente della Commissione europea, Barroso, alla sussidiarietà. In tema di immigrazione, le parole del ministro degli interni Maroni sul bisogno-diritto di sicurezza dei cittadini, come primo passo per una serena integrazione, si sono sposate con l’appello all’accoglienza dell’associazione La Strada. Nella presentazione del libro “Guerra ai cristiani” di Mario Mauro, capo gruppo del Pdl a Strasburgo e Rappresentante personale della presidenza dell’Osce contro razzismo, xenofobia e discriminazione, è emersa la forte denuncia: per 200 milioni di cristiani è in pericolo il primo di tutti i diritti: il diritto alla vita, a causa di strategie politiche ammantate da discriminazione religiosa. Quelli che hanno dato più spunti di riflessione sono stati proprio il dibattito intorno al diritto di libertà religiosa, che è anche diritto a non credere, e quello sulla presenza religiosa nello spazio pubblico. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha parlato di responsabilità politica. Di responsabilità del diritto ha parlato il professore Joseph Weiler, l’avvocato che in sede di appello ha tenuto l’arringa difensiva dell’Italia contro la sentenza della Corte europea di Strasburgo che chiedeva la rimozione del Crocifisso dalle aule. Weiler, ebreo, non ha difeso il crocifisso ma la libertà di averlo a simbolo di tradizione e identità. Un diritto dell’Italia e degli altri Paesi che hanno il crocifisso nelle classi ma anche delle monarchie del Nord Europa che hanno la croce nelle bandiere, o della Gran Bretagna che consegna la Bibbia nella cerimonia di incoronazione del sovrano. È qui il punto critico: la questione dei diritti umani si ritrova compressa tra piano nazionale e piano sovranazionale, in questo caso della Corte del Consiglio d’Europa. È chiarissimo anche nelle parole di due studiosi intervenuti al Meeting e incontrati dal Riformista: Marta Cartabia dell’Università Milano Bicocca e David Kretzmer dell’University School of Law di New York. Entrambi confermano il rischio di «corto circuito tra decisioni dei singoli Stati e pronunciamenti delle due Corti europee, quella del Consiglio d’Europa e quella dell’Ue, o del Comitato diritti umani dell’Onu». Di quest’ultimo, ha fatto parte il professor Kretzmer. È innegabile che la formulazione di Carte che mettono nero su bianco i valori fondamentali validi per tutti è una conquista indiscussa e indiscutibile della civiltà. Solo una Carta sovranazionale che si basasse, come è stato, su un comune denominatore di valori condivisi poteva, infatti, essere garanzia da arbitrii governativi e nazionalistici, come i totalitarismi e Auschwitz. Ma dal Meeting i due studiosi lanciano l’allarme sulla tendenza a «una proliferazione eccessiva di diritti», nell’ambito di “un processo di rincorsa del diritto individuale”. Con loro concorda il Patriarca di Venezia. Il cardinale Angelo Scola, che è intervenuto alla pensosa kermesse di CL su Chiesa e postmodernità, interpellato dal Riformista, denuncia “il rischio che la carta dei diritti diventi un elenco telefonico” e parla di “destoricizzazione e astrazione del diritto” che mina la centralità della persona. E proprio qui, in questa espressione chiave di tutti gli incontri targati CL, secondo il cardinale di Venezia c’è proprio la discriminante per capire ciò che rende non soggettivo ma universale un valore e, dunque, un diritto. Il cardinale Scola non ha dubbi: “Se si fa a meno dell’apporto della religione e dell’etica in tema di centralità della persona può venir meno l’equilibrio tra diritti, doveri e leggi e si può perdere il confine tra diritto, desiderio e voglia”. Sul piano nazionale come su quello sovranazionale.

Il Riformista del 29 agosto 2010

Barroso non sposa il federalismo

Rimini. L’Europa glissa in tema di federalismo fiscale. Al Meeting di CL, il presidente della Commissione Europea, Barroso, interpellato da Formigoni sui possibili contributi dell’UE alla realizzazione del federalismo fiscale in Italia, ha preferito non rispondere. Tema della tavola rotonda, alla quale ha partecipato anche il presidente del gruppo Pdl a Strasburgo Mario Mauro, era il rapporto tra Europa e regioni. Barroso si è mantenuto sul terreno comune della sussidiarietà, promuovendo Formigoni “professore di sussidiarietà”. Promozione nobile, accolta con applauso: è parola cara alla dottrina sociale della Chiesa che ritorna in tutti gli incontri di CL e compare in documenti ufficiale dellUE Significa che la persona e le componentivarie della società vengono prima dello Stato ma anche che l’intervento sussidiario deve essere portato dal livello più vicino al cittadino. Formigoni ha fatto presente che il termine ancora non compare in 85 vocabolari del mondo e in un certo linguaggio informatico e Barroso ha risposto, scherzando ma non troppo, che per quanto riguarda il web impera ancora troppo la statunitense Microsoft.

Il Riformista del 28 agosto 2010

Don Camisasca: Famiglia Cristiana fuori dalle Chiese

«”Famiglia Cristiana” non va venduta fuori delle Chiese»: lo ha affermato, ieri sera al Meeting di Rimini, don Massimo Camisasca, erede di don Giussani e personaggio di spicco di Cl. È il Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo. Ha presentato il suo libro intitolato “Padre. Ci saranno sacerdoti nel futuro della Chiesa?”, Edizioni San Paolo. «Il settimanale dei Paolini è legittimato ad esprimere opinioni politiche ma se lo fa non può essere venduto sul sagrato di una parrocchia». Ha spiegato che sono soprattutto ragioni di opportunità a raccomandare il celibato, per poi sottolineare che la questione del sacerdozio alle donne, invece, è questione dogmatica: «Solo un Papa eretico potrebbe aprire alle donne, mentre superare il celibato potrebbe anche accadere». È intervenuto anche sulla pedofilia nella Chiesa. «Quando è un prete ad aver abusato di un bambino – ha affermato – quel prete ha ucciso in quel bambino la considerazione di se stesso ma anche la considerazione di Dio».

Il Riformista del 27 agosto 2010

E Pansa rimpiange il «curiale Rumor»

Fini è uno sciagurato e tutto il resto non è noia ma disastro. È la sintesi del pensiero di Giampaolo Pansa che rimpiange la Dc ed è disposto anche a rievocare il vecchio adagio: si stava meglio quando si stava peggio. Ieri al Meeting di Rimini ha presentato il suo ultimo libro “I cari estinti”, edito da Rizzoli, che racconta 40 anni di professione giornalistica impegnata a seguire la politica italiana. Il volume, dai titoli ironici e accattivanti, è concentrato sugli anni 1948-1989, dunque proprio la prima Repubblica. Il giornalista, che ha scritto per le più importanti testate (oggi il suo Bestiario esce ogni domenica sul “Riformista”) e che ha oggi 75 anni, ha ripercorso anni cruciali della storia italiana guardandoli da questo 2010 che ha definito «fosco» e segnato in politica da «carrozzoni personali ». Nel libro, diciamo subito che manca stranamente la figura di Cossiga che Pansa ha ricordato come «non autentico democristiano ma anarchico cattolico liberale». Un «uomo coraggioso » che però secondo Pansa non rientrava nell’analisi del libro. Per tutti gli altri politici citati c’è un aggettivo: da De Mita «aggressivo » a Berlinguer «monacale», a Craxi «ardimentoso». A proposito di Craxi, l’ampio spazio dedicato al leader socialista e gli inviti a «non ricordarlo come l’unico dei corrotti» può riaccendere il dibattito sul revisionismo craxiano, ma non è Craxi il leader politico che esce meglio dal libro di Pansa. E’ Mariano Rumor, il «perfetto democristiano». Anche se «un po’ curiale», – ci ha detto Pansa – ha messo in campo le migliori energie per il bene comune che siano state messe in circolo finora: «equilibrio e saggezza». Ricordando anche tutti i limiti della vecchia Dc, dalla corruzione alla generazione del debito pubblico, Pansa ha ribadito di «sentire la mancanza di quell’equilibrio che ha salvato l’Italia negli anni del dopoguerra e negli anni del terrorismo». E il punto è che «non si intravedono all’orizzonte possibili protagonisti di una terza Repubblica ». Pansa ha scherzato e ironizzato con la platea del Meeting, che si è dimostrata particolarmente affettuosa, e ha tessuto un elogio dell’ironia, «a patto che sia bonaria e non cattiva». Ma parlando dell’oggi, ad un certo punto, dall’alto dei suoi anni ha impostato la voce per dire che «l’Italia rischia la guerra civile». E ha puntato il dito contro la cultura dell’apparire che svuota tutto di significati. «Oggi non c’è l’ombra della solidità della Dc – ha aggiunto sempre con tono serio – e non so se l’attuale classe dirigente riuscirebbe a superare prove come quella del caso Moro». «Sia a destra che a sinistra, oggi ci sono le caricature dei politici di un tempo». Pansa ha partecipato al Meeting di CL del 1986 e poi alle ultime edizioni dal 2008. Dietro le quinte ci ha confidato di provare «un’emozione del tutto particolare per la gente del Meeting che esprime, come non capita spesso, interesse e entusiasmo». Forse sono queste alcune delle risorse possibili da cui ripartire dovendo inesorabilmente guardare al futuro.

Il Riformista del 26 agosto 2010