Il dolore del Papa per i preti pedofili

in Prima pagina

“Il Papa soffre moltissimo per le vicende della pedofilia che hanno reso la Chiesa così poco credibile e hanno oscurato l’immagine del prete buon pastore”

Non fa giri di parole il vescovo di Ratisbona, monsignor Gerhard Ludwig Muller, il prelato tedesco al quale Benedetto XVI è profondamente legato

all’interno:

Il vescovo di Ratisbona parla del dolore del Papa per la vicenda pedofilia

«Il Papa soffre moltissimo per le vicende della pedofilia che hanno reso la Chiesa così poco credibile e hanno oscurato l’immagine del prete buon pastore» Non fa giri di parole il vescovo di Ratisbona, monsignor Gerhard Ludwig Muller, il prelato tedesco al quale Benedetto XVI ha chiesto di curare personalmente la raccolta della sua Opera omnia da cardinale. Monsignor Muller ha presentato a Rimini proprio il primo volume di questa raccolta degli scritti precedenti la sua elezione al Pontificato. «Questo scandalo fa soffrire Benedetto XVI perché oscura l’immagine del prete buon pastore ed è emerso nell’Anno sacerdotale fortemente voluto dal Pontefice. Ma non bisogna perdere la fiducia nell’efficacia della presenza di Dio nella vita degli uomini».

A Rimini, nella giornata inaugurale del Meeting di Comunione e liberazione, monsignor Muller ha accettato di parlare con Il Riformista del momento che vive la Chiesa cattolica. Il vescovo di Ratisbona parla di «Circostanze» che rappresentano «un banco di prova per i sacerdoti e per il senso del sacerdozio». «Benedetto XVI è profondamente addolorato – ha sottolineato monsignor Muller – anche perché lo scandalo ultimo della pedofilia ha investito in pieno l’Anno sacerdotale da lui fortemente voluto ». Ma «la Chiesa non si fonda su un’ideologia, non è una costruzione di idee, piuttosto è la nave di Pietro su cui Cristo è sempre presente e fa sì che non affondi», nonostante le miserie degli uomini. Così monsignor Muller ha riassunto, accanto al profondo dolore, la certezza del Papa che «la Chiesa dopo le tempeste sarà più forte di prima». Il punto essenziale, per il prelato tedesco, è non perdere la fiducia «nell’efficacia della presenza di Dio»   che significa «non cancellare il mistero dall’esperienza umana».

Il discorso arriva al cuore degli scritti dello studioso Ratzinger. I volumi previsti sono 16. In questo primo libro troviamo proprio il discorso sull’uomo e il mistero di Dio perché è dedicato alla liturgia. Il teologo Ratzinger spiega che cancellare il mistero dall’esperienza umana è proprio quello che la modernità cerca di fare. La liturgia è terreno delle più conservatrici posizioni del cardinale, prima, e di Papa Benedetto XVI, poi. E questo proprio perché – spiega – la «creatività» nella liturgia porta a un «personalismo » e a una «banalizzazione» che negano l’apertura al campo visivo di Dio. Si sta parlando di alcune espressioni liturgiche degli anni del post Concilio che hanno aperto a elementi nuovi. Nelle parole del cardinale Ratzinger c’è la convinzione che nelle novità ci sia quella modernità che più che innalzare a Dio blocca l’uomo sul suo «virtuosismo». Da qui la nota difesa di tutti gli aspetti tradizionali della liturgia, compresa – come ha spiegato monsignor Muller – la posizione fisica delle Chiese, orientate o meno a Est, e la posizione del sacerdote rispetto all’assemblea, di spalle o di fronte. Una difesa della tradizione ribadita con fermezza dal vescovo di Ratisbona, prima di esprimere la convinzione che condivide con Benedetto XVI: «Oggi l’educazione liturgica di sacerdoti e laici è deficitaria». E qui bisogna riferire che alle parole di monsignor Muller è seguito uno degli applausi più vigorosi dell’assemblea che seguiva la presentazione nell’aula magna del Meeting. La sala non era piena come accade per altri incontri ma l’attenzione è stata altissima. Una partecipazione premiata anche dall’emergere di aspetti meno noti. È vero infatti che questo è il cuore della riflessione di Ratzinger in tema di liturgia, ma è vero anche che c’è tanto altro di cui si sa molto poco. Ad esempio, questa affermazione che, senza saperne la provenienza, potrebbe essere attribuita a un sacerdote con tendenze new age: «L’unione sessuale è uno dei momenti attraverso i quali l’eternità getta uno sguardo sull’uomo». Sembra evidente che se si fa un discorso ampio e serio sulla liturgia non si resta tra i temi che interessano dalle nuvole in su, come a volte si pensa. L’uomo corporeo e storico – spiega nei suoi scritti lo stesso studioso Ratzinger – può incontrare Dio solo in modo umano.

All’incontro del Meeting ciellino era presente don Giuseppe Costa, il sacerdote salesiano direttore della Libreria Editrice Vaticana, che pubblica l’Opera Omnia di Joseph Ratzinger e che sistematicamente pubblica gli scritti di Papa Benedetto XVI. Don Costa ha annunciato da Rimini che sarà presto completo il secondo volume di Benedetto XVI su Gesù di Nazareth, affermando di essere già stato «contattato da tutti gli editori del mondo». La riedizione di scritti del passato, dunque, corre in parallelo rispetto alla scrittura nuova del Papa studioso, che insegna che «la ragione potenziata dalla fede si interessa di tutto».

«Il Riformista» del 24 agosto 2010

Pedofilia

Un quadro della Via Crucis come tanti ma diverso da tutti: rappresenta il dolore di un abuso sessuale. 45 anni dopo, il bambino violato da una suora è diventato un artista che dice di non essere mai riuscito a rimuovere del tutto i fatti. Il 9 agosto scorso ha accettato di tornare all’Opera serafica di Merano dove era stato accolto perché orfano, per incontrare l’attuale direttore, Peter Hofer, e la madre Superiora delle Suore terziarie, Klara Rieder. Loro, a nome della Chiesa, hanno chiesto perdono a Peter Paul Pedevilla, in arte Peter Verwunderlich. Lui si è lasciato stringere la mano visibilmente scosso e non ha chiesto soldi. Ha chiesto che quel quadro con il suo dolore rimanga nell’Istituto. E’ solo un episodio ma racconta qualcosa di quel “lungo processo di ripresa e di rinnovamento ecclesiale” che Benedetto XVI ha chiesto alla Chiesa dopo le ferite della pedofilia “inferte al corpo di Cristo”. Un cammino che si è aperto portando speranza nuova anche se purtroppo è sembrato iniziare tardi: è sempre troppo tardi quando non si risparmia dolore. C’è anche una tappa significativa a livello giuridico, segnata sempre ad agosto. Si tratta della chiusura del caso Kentucky, dove oltre a rivendicare giustizia per vittime di abusi si era alzato il tiro facendo causa alla Santa Sede in quanto ritenuta responsabile finale. Dopo sei anni di causa, l’avvocato delle tre vittime coinvolte, William McMurry, ha annunciato la decisione di rinunciare. Secondo l’avvocato del Vaticano, Jeffrey Lena, è stato dimostrato che la causa era sbagliata nel merito. Peraltro lo stesso McMurry ha ricordato che almeno una delle vittime che aveva intentato causa al Vaticano è tra quanti hanno raggiunto già un accordo con le diocesi. Nello Stato del Kentucky l’arcidiocesi di Louisville si è impegnata per un risarcimento di 25 milioni di dollari.
Il processo di risanamento  è fatto di percorsi e tappe diversi. In Irlanda la prossima tappa comincia ora, in autunno: i prelati nominati dal Papa “visitatori” stanno per partire per andare a vedere come stanno le cose in Diocesi, seminari, congregazioni religiose. Ma la consapevolezza e l’allerta sono per tutte le diocesi del mondo, dopo che lo scandalo, scoppiato negli Stati Uniti nel 2002, è riscoppiato quest’anno in Irlanda, in Germania e in altri Paesi d’Europa. Non è più tempo di chiacchiericci. E’ tempo per tutta la Chiesa di “stare più umili”, di “chiedere a Dio la grazia di essere all’altezza dei sacrifici che ci vogliono per superare errori e mediocrità”. E’ quanto raccomanda, parlando con Area, mons. Domenico Sigalini, presidente della Commissione episcopale per il laicato della CEI. E’ vescovo di Palestrina e assistente ecclesiastico dell’Azione Cattolica. “I giovani chiedono radicalità – ci dice – e le vicende della pedofilia nella Chiesa sono state per loro una coltellata alle spalle”. Dei media che hanno denunciato, mons. Sigalini dice che “hanno svolto una funzione positiva”. E aggiunge: “C’è altro male nella Chiesa che i giornali non scrivono: esiste come esiste l’impegno di tanti per chiedere a Dio che aiuti la sua Chiesa fatta di peccatori”. Mons. Sigalini ricorda che “abbiamo avuto in passato papi indegni di essere vicari di Cristo” e sottolinea che la Chiesa deve saper guidare la purificazione. “Benedetto XVI – afferma – ha saputo far chiarezza”.
Benedetto XVI ha espresso “vergogna e rimorso”, ha parlato di “danno immenso provocato alle vittime”, di “seri errori commessi nel trattare le accuse”, di “procedure inadeguate per determinare l’idoneità dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa”,  di giustizia di Dio che “esige che rendiamo conto delle nostre azioni senza nascondere nulla”. Ai colpevoli ha detto: “Dovete rispondere davanti a Dio come pure davanti ai Tribunali debitamente costituiti”. Si è espresso in particolare nella Lettera ai cattolici di Irlanda ma lo ha fatto anche in Australia, Stati Uniti, Malta. Ha incontrato più volte vittime di abusi e lo farà molto probabilmente anche in Gran Bretagna. Di fronte alla tentazione del vittimismo, ha chiarito: “Il ”pericolo più grave” per la Chiesa oggi non viene dalle ‘persecuzioni’ esterne ma dal male che la ‘inquina’ dall’interno”. Ha voluto l’aggiornamento delle norme canoniche sui Delicta graviora del 2001.
Di “progresso della cultura giuridica” parla il portavoce del Papa affermando che “le normative sono il risultato di un lavoro in corso da molti anni”. Poi però nell’intervista esclusiva ad Area ammette: “E’ certamente vero che il fatto che nei media e nell’opinione pubblica è cresciuta la consapevolezza sugli abusi ha portato anche nella chiesa a sviluppare una parallela consapevolezza dell’urgenza di normative e  protezione dei bambini”. E aggiunge: “La Chiesa profondamente colpita e umiliata si rende conto e reagisce. Sarebbe auspicabile che questo avvenisse anche nella società dove avvengono la massima parte degli abusi, non certamente limitati o concentrati nel mondo della Chiesa.”
Il piano delle norme, di cui si sentiva il bisogno, è solo un’altra tappa del cammino. Tra le pieghe di qualche percorso ci sono anche “attacchi scorretti e infondati”, come ha denunciato il Papa. Lo ha detto ai primi di agosto, pochi giorni dopo la pubblicazione da parte del settimanale Panorama del dossier su un sottobosco di relazioni omosessuali con preti a Roma. In alcuni corridoi vaticani giurano che un prete, di cui si parla nell’articolo senza indicare nominativo completo e oscurando il volto, sia stato immediatamente individuato. Sembra siano scattati seri provvedimenti. A scandalizzare in particolare era la scioltezza nel frequentare ambienti di vizio e depravazione senza peraltro nascondere di essere un prete. Ma gli “attacchi” di cui ha parlato Benedetto XVI non sono le denunce – ci spiega p. Lombardi – ma alcuni “modi di criticare la Chiesa che sono strumentali: qualcuno non mira tanto ad un’effettiva purificazione della Chiesa quanto ad attaccarla per le sue posizioni controcorrente sull’uomo e sulla famiglia, e dunque matrimonio stabile tra uomo e donna, eutanasia etc.” La vicenda degli abusi può essere per qualcuno l’occasione per “calcare la mano in modo critico”.
Negli Stati Uniti già alla fine del ‘92 il Wall Street Journal calcolava a più di 400 milioni i dollari pagati dalla gerarchia cattolica in risarcimenti. Nel 1997 la diocesi di Dallas si è impegnata a sborsare 119 milioni di dollari. Nel 2007 l’arcidiocesi di Los Angeles ha accettato di pagare la cifra record di 660 milioni di dollari a 508 vittime di molestie. Cifre da capogiro, da business. Ma p. Lombardi mette subito in chiaro: “E’ legittimo cercare un risarcimento tangibile di quanto sofferto, il riconoscimento della dignità violata e della gravità dell’abuso subito”. Però il portavoce del Papa ammette che “alcuni avvocati ne hanno fatto una fonte di guadagno, considerando diocesi o istituzioni responsabili piuttosto che le singole persone, in modo da chiedere cifre particolarmente consistenti”. Ma p. Lombardi ci tiene a sottolineare che stabilire congrui compensi o svelare eventuali strumentalizzazioni è compito dei giudici. La Chiesa deve occuparsi di altro, del suo specifico: l’ascolto. E ci confida: “Mi colpisce moltissimo che alcune persone, se si dà loro la possibilità di farlo in una forma riservata e rispettosa, parlano di quanto subito anche dopo decenni e mostrano di essere ancora in cerca di un risanamento interiore: è qualcosa di molto importante e di molto profondo”.  I centri di ascolto sono una realtà da tempo presso alcune diocesi ma certamente ora che tanto di sommerso è venuto alla luce saranno più impegnati, anche per casi prescritti secondo la legge ma non “prescritti” nell’anima. Viene in primo piano la vicenda belga e anche in questo caso ci sono stati nel mese di agosto sviluppi. Parliamo delle perquisizioni del 24 giugno scorso nella sede dell’arcidiocesi di Malines-Bruxelles e nella residenza del cardinale Godfried Danneels, nell’ambito delle indagini sugli abusi sessuali sui minori da parte di membri della Chiesa locale. Il punto è che le perquisizioni hanno significato la chiusura della commissione di inchiesta istituita dalla Chiesa e il passaggio di mano alla giustizia civile. Di nuovo c’è che la Procura generale di Bruxelles è intervenuta giudicando tali azioni “irregolari”. Bisognerà attendere ora la Corte d’Appello. Intanto l’avvocato Fernando Keuleneer, legale dell’arcidiocesi di Malines e del cardinale Danneels, definisce l’intervento della Procura “una sconfessione di quelle perquisizioni-evento” e si chiede “se ci fossero elementi concreti specifici, o se lo scopo non fosse andare ‘alla cieca’ sperando di trovare qualcosa”. P. Lombardi sottolinea che “la commissione istituita dalla Chiesa riceveva confidenze, testimonianze da parte di vittime che erano venute per farlo alla commissione della Chiesa e non al tribunale”. E aggiunge: “Se la polizia prende tutta la documentazione, perché ritiene che la Chiesa non sappia fare il suo mestiere, in un certo senso vanifica e rende impossibile lo svolgimento di questa dimensione dell’affrontare i problemi come risanamento interiore, che la Chiesa o organizzazioni che sappiano mettersi in ascolto profondo possono fare ma che non farà mai una giustizia civile e un tribunale”.
Se è vero, come è vero, che la dimensione dell’ascolto è uno specifico della Chiesa, gli uomini di Chiesa devono fare ammenda anche su questo terreno: non solo è mancato in troppi casi l’ascolto dei segnali che venivano da vittime ma anche l’ascolto dei sacerdoti: un “ascolto” appena più attento del mondo interiore e della psicologia di quelli che poi hanno commesso abusi, li avrebbe esclusi dal ministero. P. Lombardi ammette: “In molti casi si è trattato di persone che non avrebbero mai dovuto essere sacerdoti perché nella loro personalità c’erano tare, tendenze che li rendevano non adatti per il ministero e pericolosi per gli altri.”  Allarga il discorso a tutta la società per dire che “in passato c’era una cultura generale di riservatezza, non solo nella Chiesa, che ha influito negativamente e c’era anche un’idea non sufficientemente approfondita della natura psicologico-medica di tendenze alla perversione, alla pedofilia: ci si immaginava che fossero colpe o delitti di cui uno si poteva pentire e non commetterli più. Adesso si è molto più consapevoli del fatto che si tratta generalmente di tendenze profonde da cui è difficile poi cambiare.” A proposito della riduzione allo stato laicale che tanti cattolici vorrebbero accadesse più spesso, p. Lombardi dice: “Se si tratta di persone che rimangono pericolose nel ministero per gli altri, è chiaro che è meglio che lascino il ministero completamente, ma in altri casi possono essere sufficienti limitazioni molto rigide di ambienti da frequentare, di attività da svolgere.” Tanti laici hanno difficoltà a capire questi ultimi casi, ma mons. Sigalini ci invita a considerare che “qualunque padre di famiglia tenta fino all’ultimo di recuperare il proprio figlio prima di arrivare al punto di cacciarlo di casa”.
Resta da dire che tra tanti percorsi individuati, si dovrebbe parlare di più anche di quelli all’interno della società e della famiglia: se è vero che la pedofilia nella Chiesa è “una pugnalata alle spalle”, non è meno grave all’interno delle mura domestiche o in altri ambiti educativi, o non è meno aberrante in settori spesso bene organizzati e tollerati di turismo sessuale. E’ legittimo chiedersi se si sia aperta o no una stagione nuova anche in questi ambiti. Agosto 2010

Un grido alla Chiesa e al mondo

Questo vuole essere il Sinodo per il Medio Oriente chiesto dalle chiese locali a Benedetto XVI, che lo ha fissato dal 10 al 24 ottobre 2010. Un’Assemblea voluta per discutere i problemi che affliggono la regione a partire dal rischio che i cristiani scompaiano là dove il Cristianesimo è nato. Base di lavoro è l’Instrumentum Laboris, consegnato dal Papa ai rappresentanti dell’Episcopato del Medio Oriente di tutte le diverse confessioni, il 6 giugno a Cipro. Un testo che ha ricevuto la giusta attenzione mediatica ma che in molti casi è stato presentato come l’indicazione del Papa. Invece, è stato scritto dal Consiglio presinodale, organismo che ha messo insieme le istanze dei Sinodi dei vescovi delle Chiese orientali cattoliche, delle Conferenze Episcopali, dei Dicasteri della Curia romana, dell’Unione Superiori Generali, dei tanti singoli e gruppi ecclesiali, interpellati dal questionario dei Lineamenta. Il testo integrale è pieno di: “alcuni pensano che… altri mettono in luce che…”. Benedetto XVI si pronuncerà con l’Esortazione postsinodale.
La denuncia dell’occupazione israeliana nei Territori palestinesi c’è ed è forte, come forti sono state le parole di Benedetto XVI contro il Muro e contro l’embargo a Gaza. Ma c’è altro. Medio Oriente significa Terra Santa, Iraq, Turchia, Libano, Iran. Territori dove i cristiani sono minoranza e, a parte lo Stato ebraico, i musulmani sono maggioranza, sia pure di cultura araba, turca o iraniana. Territori dove la Chiesa sente il bisogno di affermare  che “non c’è contraddizione tra i diritti della persona e quelli di Dio”. Rivendica così la libertà di religione che sia anche libertà di coscienza: spesso in Oriente si riconosce la libertà di culto ma non la libertà di credere o non credere, di praticare una religione senza impedimenti, di cambiare credo.
Ci sono anche critiche a cristiani: alcune comunità evangeliche creano problemi per il loro proselitismo. Inoltre, alcuni gruppi fondamentalisti cristiani giustificano, in base a una distorta lettura delle Sacre Scritture, l’ingiustizia politica imposta da Israele ai palestinesi: il che rende più delicata la posizione dei cristiani arabi. Qui viene in mente il titolo scelto per il Sinodo: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola”. Il Sinodo è stato voluto anche per ritrovare unità tra i cristiani in Medio Oriente. E l’Instrumentum Laboris è chiaro: unità non solo tra diverse confessioni ma anche tra diverse comunità locali o tra pastori e gruppi di movimenti ecclesiali, che operano con zelo ma non sempre dopo aver studiato la specificità dei contesti che trovano. “I cristiani –si legge– sono cittadini indigeni”. A proposito del contesto, non manca la raccomandazione a costruire una maggiore collaborazione con ebrei e musulmani nel campo religioso, sociale e culturale, per il bene delle società.
Conflitti e tensioni nella regione mediorientale hanno un’influenza diretta sulla vita dei cristiani. In Terra Santa, l’occupazione israeliana nei territori palestinesi rende la vita impossibile a tutti. Usciamo dall’ambito dei documenti ufficiali per raccontare quello che abbiamo visto sul campo.  Girando per la Cisgiordania, ci si sente dire: “Noi cristiani palestinesi paghiamo tutto il prezzo da parte israeliana e da parte palestinese”. Il prezzo da parte israeliana si riassume nel Muro che frammenta il territorio cisgiordano e impedisce movimenti e lavoro. Del prezzo sul fronte palestinese, va detto che si fa sempre più strada il fondamentalismo, che si nutre della frustrazione e della disperazione per lo stallo nei negoziati e per l’isolamento. La società palestinese, curvata da anni di dolore, è oggi appesantita dalla contrapposizione tra il movimento integralista Hamas, che controlla Gaza da giugno 2006, e il partito Al Fatah di Abu Mazen presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese.  A giugno 2007 lo scontro è stato fisico. Da allora una scossa di tensione permane palpabile, mentre cresce in Cisgiordania il numero delle donne velate. Guardando all’Iraq, la guerra ha distrutto anche il rispetto per le minoranze, prima fra tutte quella cristiana. In Libano i cristiani sono divisi sul piano politico e confessionale e l’instabilità crea sempre più difficoltà. In Egitto cresce l’Islam politico. In Turchia sono stati uccisi in 4 anni due uomini di Chiesa: Don Santoro e mons. Padovese, vicario apostolico in Anatolia, che aveva contribuito all’Instrumentum Laboris. Ovunque l’emigrazione è una realtà. A Betlemme, culla di Gesù, su 35.000 abitanti i cristiani sono circa 6000, un sesto. In un passato non troppo remoto rappresentavano i 3 quarti. “Se il Cristianesimo dovesse affievolirsi o scomparire proprio là dove è nato, sarebbe una perdita per la Chiesa universale”: è questo il grido dell’Instrumentum Laboris. Con tutta evidenza, il Medio Oriente si fa laboratorio delle sfide della Chiesa universale. Si capisce perchè Benedetto XVI annunciando il Sinodo abbia auspicato che “siano presenti anche esponenti delle chiese dei vari continenti”.
Ovunque, il messaggio cristiano universale parte dal riconoscimento della dignità di ogni persona fatta a immagine e somiglianza di Dio. Da qui la “politica” della Santa Sede: criterio di ogni sistema politico o sociale deve essere il bene della persona umana, tutta, spirito e corpo. Da qui, anche la politica della Santa Sede in Medio Oriente: pace, giustizia e stabilità sono condizioni indispensabili per promuovere i diritti umani nella regione e dunque vanno perseguite.
La crescita dell’Islam politico è un fenomeno particolare che colpisce il Medio Oriente ma non solo e che si è sviluppato a partire dagli anni ’70. Il cuore della crisi regionale, il drammatico conflitto israelo-palestinese, ha radici più lontane. Da tempo parliamo di una pace che manca da 50 anni ma di recente l’Economist ha scosso le coscienze parlando di guerra dei 100 anni. Il messaggio del vicario di Cristo pellegrino su quelle terre è stato sempre uguale, così come la promozione di giustizia, pace,  riconciliazione, ma i contesti che hanno trovato Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 2000 e Benedetto XVI nel 2009 sono stati diversi. Papa Montini è stato a Betlemme quando ancora non era a guida palestinese. Non ha mai nominato lo Stato di Israele perchè il Vaticano non lo riconosceva: l’Accordo base è arrivato nel 1993. Non c’era neanche l’Accordo con la parte palestinese, raggiunto nel 2000. Giovanni Paolo II si è recato in Terra Santa dopo la grandissima speranza degli accordi di Oslo del 1993, il Nobel a Arafat e la grande delusione dopo l’uccisione di Rabin. Benedetto XVI si è recato nel disorientante momento seguito all’operazione ‘Piombo fuso’ di Israele contro la Striscia di Gaza. Diverse anche le misure di sicurezza: quasi ingenue per Paolo VI che, tra l’altro, percorse la stretta Via dolorosa di Gerusalemme tra uomini della Legione araba, e che ancora non aveva vissuto l’attentato di Manila; più  studiate per il Papa che era stato colpito quasi a morte nella sua Piazza San Pietro; imponenti per il Papa tedesco che aveva pronunciato il coraggioso e contestato discorso di Ratisbona e che aveva rimosso con spirito di carità la scomunica ai lefevriani, tra cui però si annidavano e si annidano antisemiti. Le parole di tutti e tre restano nella storia della Chiesa e del mondo. Certamente rimane ineguagliata la straordinarietà della scelta di Paolo VI, primo Papa pellegrino in Terra Santa e primo Papa a salire su un aereo, proprio per compiere quel viaggio che aveva annunciato ai Padri riuniti nel Concilio Vaticano II. Sulla scia dell’ecumenismo voluto dal Vaticano II Paolo VI si è recato in Medio Oriente; Giovanni Paolo II lo ha fatto dopo la sua enciclica Ut unum sint; Benedetto XVI dopo aver pronunciato all’insegna dell’ecumenismo la sua Omelia della Messa di inizio del pontificato. Quello che non si era visto in Duemila anni, una generazione l’ha già visto tre volte.   16 Giugno 2010

Una lettera al Papa è l’ultima speranza dei disperati di Ashraf

Sono disperati e chiedono aiuto al Papa. Fin qui niente di strano. Si rivolgono a Benedetto XVI con un’intensa, e allo stesso tempo semplice, lettera firmata da 36 nomi arabi. Sono iraniani, membri dei Mojaheddin del Popolo, l’organizzazione che fino a gennaio scorso stava nella lista nera dei terroristi dell’Unione Europea e che compare ancora nella black list degli Stati Uniti. Al Papa chiedono di “evitare una catastrofe umanitaria”. Si definiscono “vittime di ingiustizie e di oppressione” e dichiarano di essere “indeboliti da giorni di sciopero della fame”. Sono abitanti di Ashraf, il campo profughi in Iraq dove da 25 anni sono rifugiati dissidenti del regime islamico di Teheran. Il campo ospita 3400 persone di cui 1000 donne e centinaia di bambini. I 36 di cui parliamo sono stati prelevati dal campo dalle forze dell’ordine irachene il 28 luglio scorso e da allora sono nel carcere iracheno di Al-Khalis, a 30 Km da Ashraf. Nella lettera datata 12 settembre, si definiscono “ostaggio” delle forze dell’ordine irachene e si appellano al “Grande leader religioso della Chiesa Cattolica Romana e difensore dell’eredità di Cristo”. Raccontano al Papa, con asciutta drammaticità, di aver subito “torture” e di soffrire “condizioni igienico sanitarie disumane”. Giurano di essere “tenuti in carcere illegalmente e con false e inesistenti accuse”. Raccontano che il Tribunale locale, esattamente un mese dopo l’arresto, il 28 agosto, ha ordinato la scarcerazione in assenza di accuse, ma che dall’ufficio del premier iracheno Al Maliki è giunto l’ordine di continuare a trattenerli. Da quel momento hanno iniziato lo sciopero della fame. “Umilmente” chiedono “a Sua Santità il Papa” di “adottare tutte le misure in suo potere” per aiutarli, cominciando da “un appello perché intervengano funzionari dell’ONU”. Per loro stessi incarcerati, chiedono il rilascio ma anche, nell’immediato, l’assistenza medica adeguata “per i sette di loro che sono seriamente feriti”. Per la popolazione di Ashraf, denunciano il rischio di ulteriori violenze. Gli abitanti del campo profughi, così ostili al regime islamico di Teheran,  hanno vissuto indisturbati sotto il laicissimo Saddam Hussein. Allo scoppio del conflitto nel 2003, hanno accettato di consegnare ogni tipo di arma e hanno, dunque, goduto della IV Convenzione di Ginevra in quanto persone non coinvolte nella guerra. Non hanno avuto problemi fino al passaggio di poteri alle autorità irachene, al momento del ritiro delle forze statunitensi a inizio 2009. In primavera è cominciato un isolamento che è diventato assedio, con scarsità di beni alimentari e mancanza di qualunque tipo di carburante. Assedio confermato anche da una delegazione di parlamentari europei. Quindi, il 28 luglio scorso, l’attacco da parte delle forze dell’ordine irachene. Nella lettera, i 36 raccontano che “al momento della loro cattura sono state uccise 11 persone e sono state ferite altre 500”. “Considerata l’influenza del dittatoriale regime in Iran sull’Amministrazione dell’Iraq – affermano nella lettera – abbiamo grande paura e preoccupazione”. A parte la situazione attuale, quello che angoscia di più è la prospettiva di una “estradizione di massa in Iran”. Spiegano al Santo Padre che “già in molte occasioni il regime iraniano ha fatto richiesta in tal senso”. “In attesa di forze dell’ONU ad Ashraf, – scrivono – le forze militari statunitensi ancora presenti in Iraq dovrebbero assicurare protezione agli abitanti del campo”. Dovrebbero farlo – spiegano – “in base agli accordi sottoscritti dalle autorità USA proprio con tutti gli abitanti di Ashraf”. Per ottenere tutto ciò, l’appello al Papa: “Il suo impegno per le persone in carcere e per la popolazione di Ashraf eviterà un’altra catastrofe umanitaria e solleverà dalle pene e dalle sofferenze le famiglie e i parenti degli abitanti del campo che protestano e si sono uniti allo sciopero della fame in 19 differenti città del mondo”. Tra queste città ci sono Londra, Parigi, Toronto, ma pur essendoci decine di persone ormai sulle sedie a rotelle di fronte a varie Ambasciate, perché segnate da 50 giorni senza cibo, non se ne è parlato granchè. Da qui la scelta disperata ma nello stesso tempo carica di speranza di appellarsi a Benedetto XVI, con una citazione di un brano del Vangelo di Luca in cui si dice che Gesù è stato mandato per proclamare che gli oppressi saranno liberati dagli oppressori.

15 settembre 2009

A 40 anni dallo sbarco sulla luna

A 40 anni dallo sbarco dell’uomo sulla Luna, intervista di Fausta Speranza al responsabile dei laboratori del Centro aereospaziale del MIT: altro che Marte – dice – la tecnologia deve essere al servizio della salute del nostro pianeta

Alla NASA hanno annunciato il taglio di 400 posti di lavoro due giorni fa. Alla maggior parte dei dipartimenti del MIT nel 2009 si taglia il budget dell’8%, l’anno scorso era stato già tagliato del 10% e anche nel 2010 ci sarà un ulteriore 10% in meno di finanziamenti. Non si può parlare di andare su Marte con questi presupposti. Così taglia corto il discorso sul secondo sogno spaziale dell’umanità John Hoffnar, del Dipartimento di Astrofisica e Ricerca Spaziale del mitico Massachuttes Institute of Technology di Boston. Lo abbiamo incontrato nel suo Space Laboratory alla vigilia del 40esimo anniversario dello sbarco sulla Luna. E’ vero che l’Amministrazione Bush nel 2005 ha commissionato alla NASA gli studi per una possibile missione umana fino a Marte, ma non è così facile pensarla oggi, anche se lo sbarco sulla Luna è avvenuto con un computer che praticamente equivale al software di un telefonino di oggi. Ma poi Hoffnar ci spiega che in questi 40 anni dalla camminata lunare qualcosa è cambiato nell’approccio della tecnologia: oggi è più “con i piedi per terra”. Se è proprio uno scienziato spaziale a dirlo, c’è da crederci. John Hoffnar, gentile e informale come la sua Tshirt, ci conferma: la tecnologia deve migliorare la qualità della vita di tutti i giorni delle persone. Certamente andare sulla Luna ha significato aprire a studi importanti: sono 30.000 i diversi oggetti prodotti utilizzando tecnologie messe a punto negli anni della corsa alla Luna, dal goretex delle giacche a vento al rivestimento in teflon per pentole antiaderenti, dai microchip che hanno permesso di concepire il personal computer ai cibi liofilizzati, dalle tecnologie alla base dei satelliti meteorologici e delle telecomunicazioni ai pacemaker e agli spettrometri di massa in chirurgia. Ma Hoffner raccomanda: oggi dobbiamo concentrarci di più sul nostro pianeta: studiare lo spazio non tanto per “camminarci” ma per capire come ridurre l’impatto negativo dell’inquinamento sul nostro pianeta Terra. E ci tiene a precisare che, almeno al MIT, “è cambiata la mentalità di ingegneri, scienziati, professori: più proiettati su “soluzioni vere” – spiega – anche perchè la società esercita su di loro una certa pressione in questo senso, che non c’era negli anni Sessanta. “Oggi siamo più pragmatici: pensiamo che ci vogliono grandi iniziative per l’energia pulita e per il risparmio di energia”. Siamo ad un punto di svolta: non possiamo trascurare ulteriormente la salute del nostro pianeta. Mentre dice questo,  scuote la testa e aggiunge: “Se ce lo fanno fare”. Il problema è quello dei finanziamenti. Hoffner ricorda che tra il 1958 e il 1975 sono stati spesi almeno 25 miliardi di dollari, pari a circa 150 miliardi di oggi, e sono state coinvolte centinaia di migliaia di persone, a diverso titolo, nell’impresa spaziale. Un’impresa che rappresenta il più grande investimento di tecnologie della storia, un’impresa che ha significato credere come non mai nella ricerca. A parte la crisi attuale, scoppiata nei mesi scorsi, “gli Stati Uniti negli ultimi dieci anni hanno accumulato un crescente deficit innovativo, investendo meno in informatica, micromeccanica e biotecnologie”: queste sono parole di Paul Krugman, Nobel dell’economia 2008, che denuncia, dunque, un trend negativo per la ricerca iniziato ben prima della crisi dei subprime. Insomma la situazione non è rosea. Facciamo presente a John Hoffnar che nelle sue parole c’è un evidente scetticismo velato di pessimismo che non ci aspettavamo nel cuore della ricerca mondiale e soprattutto nell’era di Obama. E appena sente nominare il presidente Obama, cambia espressione: “La nuova amministrazione rappresenta la speranza per la ricerca, ha priorità diverse rispetto alla precedente e l’ambiente sta realmente tra queste”. Obama può dare un’accelerata e contribuire a saldare quel deficit innovativo, che anni di esborsi per le guerre hanno lasciato in eredità. E’ una speranza,  ribadisce Hoffner spiegando però che “Obama non potrà tradurla in realtà senza cambiare il corso dell’economia”.
Dopo l’impronta dell’uomo sulla Luna è sembrato quasi che l’umanità raggiungesse l’apice delle proprie potenzialità: il presidente John Fitzgerald Kennedy, che morirà sei anni prima dell’allunaggio, di fronte alla prospettiva dello sbarco sulla Luna, scriveva: “Se riusciremo a superare la serie infinita di difficoltà, a partire da quella di un viaggio a una temperatura che è la metà di quella del sole, dobbiamo essere orgogliosi e audaci”. Oggi, ci conferma Hoffner, sono i robot a rappresentare  l’ennesima frontiera per l’immaginario. Al MIT se ne stanno mettendo a punto di straordinari, con applicazioni dal contesto medico al contesto domestico. Sostituire l’uomo stesso è l’ennesima frontiera della sfida dell’umanità a se stessa ma – aggiunge Hoffner – sempre a patto di non dimenticare dove l’uomo vive.

Il Riformista 21 luglio 2009

In Europa i cattolici rialzano la testa

 

Bruxelles- In vista delle elezioni del 2009, i politici e i gruppi legati alla chiesa si compattano. Per farsi sentire nel continente in crisi con voce nuova.
di Fausta Speranza – da Bruxelles

Panorama, pag. 110, 23 dicembre 2008 In un’Europa bloccata dalla crisi economica e incapace di riforme istituzionali, i cattolici lanciano un segnale: una piccola mostra fa da cavallo di Troia nel cuore del Parlamento europeo, dominato dai laici. S’intitola Il realismo di Gaudì e la speranza dell’Europa e porta questo messaggio: tornare ai valori dei padri fondatori della Ue. Non è solo un momento culturale, ma uno squillo di trombe per la campagna elettorale in vista delle elezioni europee a giugno.
La mostra accosta dettagli dell’architetto Gaudì e parole di Robert Schuman, fra gli architetti della costruzione europea. Due personaggi in odore di beatificazione che hanno ispirato il vicepresidente del Parlamento europeo Mario Mauro, del gruppo Popolari e democratici cristiani, ideatore della mostra che é stata fino ai primi di dicembre a Milano. L’episcopato belga si é già mosso per riaverla a Bruxelles. Fra i temi delle europee 2009, non solo in Italia, saranno centrali i valori. Il presidente del Parlamento europeo, Hans-Gert Pöttering, dichiara per esempio a Panorama:” I valori cristiani sono parte del capitolo dei diritti fondamentali compresi nel trattato di Lisbona. Se entra in vigore, la protezione di famiglia, minorenni e anziani é assicurata”.
L’assemblea costituente aveva rifiutato di inserire una citazione sulle radici cristiane del Continente nel preambolo del trattato costituzionale europeo, firmato nella prima versione a ottobre 2004. Rifiuto che aveva spinto i politici cattolici nell’angolo, sebbene il gruppo dei popolari fosse maggioranza in parlamento. Ai vertici di parlamento e Commissione Ue in questo mandato ci sono due cattolici praticanti: Pöttering e José Manuel Durao Barroso (che ha sostituito il cattolico Romano Prodi). Un’iniziativa dei due leader politici è stata la proclamazione del 2008 come Anno europeo del dialogo interculturale, dunque anche interreligioso.
In programma, conferenze di esponenti di varie fedi: sono già stati accolti a Strasburgo il Gran Muftì di Siria, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, il Rabbino capo del Regno Unito e il Dalai lama. Papa Joseph Ratzinger, che pure ricorda costantemente, oltre alla dottrina cattolica, il peso del Cristianesimo nella civiltà europea, invece non ci sarà. “Sfortunatamente Benedetto XVI non può venire quest’anno” ha dichiarato Pöttering, augurandosi di poterlo accogliere prima della fine del suo mandato a giugno. Fra i movimenti ecclesiali, il più rappresentato a Bruxelles è Comunione e liberazione. C’é uno stretto legame del movimento con Mauro. Inoltre, molti funzionari e amministrativi di varie nazionalità partecipano agli incontri di “scuola di comunità” negli spazi dell’Europarlamento.
L’Opus Dei conta affiliati tra personalità rilevanti di ciascun paese, anche se i loro “incontri di formazione spirituale” si svolgono in ambiti culturali. Sant’Egidio é invece l’unica realtà ecclesiale accreditata in qualità di ong presso le istituzioni europee, così come lo è presso l’Onu. Anche se con un ruolo solo rappresentativo.
Quanto alla Chiesa istituzionale, sul piano diplomatico c’é la nunziatura della Santa Sede presso le istituzioni europee; e, con un altro ruolo, l’osservatore Vaticano presso il Consiglio d’Europa. A livello di vescovi sono due gli organismi: la Comece e il Ccee. E’ poi entrato nel pieno delle sue funzioni il nuovo osservatore nominato da Benedetto XVI la scorsa estate: monsignor Aldo Giordano, scelto per creare maggiore connessione tra le diverse realtà. Su più piani, dunque, si compatta l’impegno. Il mondo cattolico vuole farsi sentire in Europa con voce nuova. E forse sarà nuovo anche l’ascolto da parte di un’Europa in crisi.

Lama Hourani

I fondamentalismi uccidono la democrazia

di Fausta Speranza

Dopo la visita del Segretario di Stato americano Condoleeza Rice in Medio Oriente e poi l’incontro, tra il premier israeliano Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen, al di là delle intenzioni ribadite in questi giorni di un accordo entro il 2008, si confermano lo stallo dei negoziati e l’esasperazione della situazione sul terreno. A Gaza è assedio e in Cisgiordania  il territorio è sempre più frantumato a causa di insediamenti e check point israeliani. Non si intravedono novità nella strategia di Israele, mentre tra i palestinesi, dopo l’esperienza di governo di unità nazionale, è ormai piena frattura tra Hamas, che controlla Gaza, e Fatah che ha il suo quartier generale a Ramallah.
Lama Hourani è una palestinese attivista per i diritti umani e in particolare per i diritti delle donne. Non senza difficoltà, da poco ha lasciato  Gaza, dove viveva da anni. Si è distaccata da familiari e amici per fuggire da Hamas. L’abbiamo incontrata a Gerusalemme e ci ha motivato così la sua scelta:

Sono scappata non per paura degli israeliani ma per paura del fondamentalismo di Hamas. Ho portato avanti diverse battaglie per la condizione della donna e mai avrei portato il velo, perché sono laica. Ho avuto paura per me e per mio figlio, perché il fondamentalismo combatte proprio le persone come me. Il fondamentalismo uccide proprio quello per cui io combatto, quello in cui io credo: diritti e democrazia. Io credo che un po’ tutte le religioni, in fondo, non possano andare d’accordo con la democrazia, perché si fondano su una verità fuori discussione. Ma la discriminante è se i leader vogliano o non vogliano imporre a tutti la verità politica che pensano di dedurre dalle verità di fede. L’islam, poi, viene dopo giudaismo e cristianesimo e qualche suo esponente è convinto di aver elaborato il meglio in assoluto. In ogni caso, io penso che siamo, in generale nel mondo, in una fase di esasperazione, di fondamentalismo. Le donne devono studiare la legge islamica perché ci sono leggi in diversi paesi basate sulla Sharia che a sua volta ha la pretesa di basarsi sul Corano. Le donne devono studiare molto e conoscere bene la Sharia e il Corano, per capire fino a che punto il Corano viene strumentalizzato per mantenere in vita un sistema politico, che va contro i diritti basilari delle persone.

Che ne pensi della divisione tra Hamas e Fatah?

Non è una lotta di potere, ma è una frattura che nasce da differenti visioni politiche. L’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina,  e il partito di Fatah vogliono uno stato nazionale palestinese, sostanzialmente basato sui confini che c’erano prima della guerra del 1967. Gli islamici di Hamas, invece, non vogliono uno stato nazionale palestinese ma vogliono uno stato islamico. Che potrebbe essere Gaza o tutta la Palestina o tutto il mondo. La loro non è una battaglia nazionalista: questa è la grande questione di fondo.

Secondo te, perché Fatah ha perso alle elezioni di gennaio 2006?

Secondo me, la prima ragione sta nel collasso del processo di pace. Il popolo palestinese ha capito che Israele non è pronto ad accettare uno stato palestinese e a rispettare le risoluzioni o lo proposte della comunità internazionale. C’è stato poi anche il problema della corruzione all’interno di Fatah, che aveva deluso, ma non è tra le principali motivazioni. Anche l’Autorità Nazionale Palestinese non è riuscita, agli occhi della gente, a conciliare i negoziati per la pace con la resistenza per costruire lo stato palestinese. Essere impegnati in negoziati non può significare fermare ogni manifestazione di resistenza. Resistenza non significa per forza rockets, razzi. Ci sono tante modalità di resistenza che secondo la legge internazionale sono pienamente legittime. Il punto è: come e quando arrivare ad uno stato palestinese. Questo è uno dei principali punti caldi con Hamas. I rockets non aiutano. Uccidono e hanno come reazione da parte di Israele l’uccisione di palestinesi e la confisca di terra. Tutto ciò distrugge, non aiuta la soluzione di due stati. Comunque, l’unico a beneficiare della divisione tra palestinesi è Israele.

Anche tu, come tanti, affermi che Hamas è utile per Israele. Tu eri a Gaza quando Hamas ha preso il completo potere: Israele ha aiutato in qualche modo Hamas?

Indirettamente sì. Almeno indirettamente perché non ho prove per dire altro. Hanno cominciato prima delle elezioni e ti spiego come: Abu Mazen è sempre stato contro i lanci di razzi contro la città israeliana di Sderot ed era stato eletto nelle precedenti elezioni con il 63% dei voti. Quello era il momento di trattare seriamente con Abu Mazen ma Israele non si è impegnato affatto. Israele e gli Stati Uniti non hanno affatto approfittato del momento, anzi. Israele ha continuato a costruire il muro, non ha negoziato con Abu Mazen. Sembra evidente che Israele vuole la Terra Santa e basta, senza i palestinesi. Porta avanti una sola politica: rendere i palestinesi tanto disperati da lasciare la propria terra, come praticamente è successo di recente a Hebron.  Per quanto riguarda Hamas, il problema è che non considerano la realtà sul terreno, sono presi solo dall’ideologia. Il problema di Hamas non è solo che non riconosce Israele. Se ci pensi bene, l’Autorità Nazionale Palestinese, nata dopo gli accordi di Oslo, riconosce Israele ma già il Partito di Fatah dichiara di poter riconoscere Israele solo dentro i confini precedenti il 1967. Il fatto che Hamas non riconosce Israele non è il vero problema. Piuttosto, il dramma è che non riconoscono l’evidenza dei fatti e non concepiscono una giusta strategia. Il punto importante è proprio quello di elaborare una strategia che porti alla soluzione dei due stati. L’operato di Hamas distrugge questa possibilità.

Tu non sei un politico ma fai parte del mondo dell’associazionismo palestinese…Ritieni che ci siano contatti in corso tra esponenti di Hamas e di Fatah per cercare di ritrovare un’unità?

Non credo che i leader stiano comprendendo che la priorità è ritrovare l’unità. Il problema è mettere insieme due politiche completamente diverse. I leader non stanno lavorando per questo. Ma dobbiamo ricordarci che non sono gli unici attori della scena. Protagonisti in Medio Oriente sono Israele, Stati Uniti, Siria, Iran, gli Hezbollah del Libano, l’Arabia Saudita, l’Egitto. Se parliamo di divisione, dobbiamo parlare di divisione del Medio Oriente e della comunità internazionale. Intanto, il popolo palestinese continua a sperare che un giorno i leader supereranno le differenze e troveranno un compromesso, ricreando un fronte comune, che sia sotto la sigla dell’OLP o di altro. Io preferirei l’OLP perché ha già una legittimità internazionale,  ma qualunque altra sigla andrebbe bene. Il punto è che tutta la partita non è solo in mano ai palestinesi. 

Qualcuno riconoscendo come legittimo il risultato delle libere elezioni, afferma che bisogna trattare con Hamas e non rifiutarlo come organizzazione terroristica. Secondo te, è possibile? Ci sono rischi?

Certo che ci sono rischi. Ma il punto è: perché non è stato detto e fatto subito dopo le elezioni? C’è stato un governo di unità nazionale e invece di aiutarlo hanno messo l’embargo. Trattare ora significherebbe  aumentare la divisione tra palestinesi. Tutti già si chiedono chi rappresenti i palestinesi. La comunità internazionale ora dovrebbe lavorare per rimuovere gli ostacoli che stanno di fronte ad Abu Mazen sulla via del negoziato e prima ancora sulla via del ritrovamento dell’unità. Se Abu Mazen dialoga con Hamas, Unione Europea e Stati Uniti tagliano gli aiuti economici, che significa il deterioramento della già difficile situazione in Cisgiordania. La comunità internazionale dovrebbe aiutare Abu Mazen a dialogare con Hamas, piuttosto che ostacolarlo, e nello stesso tempo dovrebbe anche fare seria pressione su Israele per il rispetto delle risoluzioni. Non credo che si voglia seriamente tutto questo.

2 Lanci

ADN1430 3 EST 0 RTX EST NAZ

UCRAINA: DEPUTATA DENUNCIA, HO PAGATO 2 TANGENTI PER INTERVENTO CHIRURGICO =

Kiev, 4 ott. – (Adnkronos) – “Un fenomeno endemico che tiene

sotto scacco la meta’ dell’economia del Paese”. Lo ha detto il

presidente ucraino Viktor Yushenko, parlando della corruzione nel

Paese, una piaga che viene denunciata a tutti i livelli sociali. Tra

chi ammette di essere stata vittima della corruzione c’e’ anche

Natalia Prokopovich, presidente della commissione parlamentare per

l’integrazione in Europa, depuata del partito “Nostra Ucraina” di

Yushenko.

Parlando con la giornalista Fausta Speranza, che l’ha incontrata

a Kiev, la Prokopovich ha rivelato di aver pagato una doppia tangente

per subire un intervento chirurgico in uno degli ospedali pubblici

meglio funzionanti, il piu’ grande di Kiev. La parlamentare ha

affermato di aver pagato duemila corone per tutto il necessario per

l’operazione, di cui l’ospedale si dichiarava sprovvisto, e di aver

poi “dovuto” fare “una donazione” alla stessa struttura ospedaliera di

altre duemila corone.

La Prokopovich ha poi denunciato i privilegi del Parlamento,

un’eredita’ dell’era Kuchma mai messa in discussione: in un Paese in

cui il salario di un medico e’ di circa 1.200 corone, pari a 185 euro,

i membri del Parlamento ricevono 14mila corone al mese di stipendio

base, piu’ diecimila per spese che non e’ necessario documentare.

(Ses/Pn/Adnkronos)

04-OTT-07 19:08

 

ADN1521 3 EST 0 RTX EST NAZ

UCRAINA: ASSOCIAZIONE GIORNALISTI INDIPENDENTE DENUNCIA BROGLI =

Roma, 4 ott. – (Adnkronos) – Il vantaggio guadagnato nelle
ultime ore del conteggio dei voti alle elezioni di domenica in Ucraina
dal Partito delle regioni del premier filorusso Viktor Yanukovich sul
partito di Julia Timoshenko sarebbe frutto dei ritardi e delle
irregolarita’ nello spoglio dei voti nelle regioni roccaforte dello
stesso primo ministro, quelle del sud e dell’est. E’ quanto ha
denunciato Aleksey Soldatenko, dell’Independent journalist
association, che ha sede a Kharkiv.

Non ci sarebbero state dunque solo le 400 violazioni elettorali
riscontrate dalla polizia a Luhansk, citta’ dell’Ucraina sudorientale,
dove la corte amministrativa ha accolto il ricorso del blocco “Nostra
Ucraina – Autodifesa popolare”, contro la concessione del voto a
seimila cittadini che erano stati esclusi dalle in base alle
informazioni della polizia di frontiera.

(Fau-Spe/Ct/Adnkronos)
04-OTT-07 19:58

Foto arresto banditi

La mattina del 2 novembre 2005, andando a lavorare, mi sono ritrovata di fronte a una Banca di Via Leone IV a Roma nel momento in cui stavano uscendo tre rapinatori. Stavano anche arrivando uomini della Guardia di Finanza che con un’azione rapida e non cruenta ne acciuffano due. Il terzo scappa tra la tensione dei presenti. Vivo prima un momento di stupore, poi ringrazio Dio di non avere ancora con me mia figlia che ho appena lasciato a scuola… poi faccio un guizzo dietro una macchina e scatto le foto. E’ un giorno per me impegnativo di lavoro e solo sul tardi mando le foto a vari quotidiani. I principali mi snobbano. Pubblicano le foto Il Messaggero e L’Unità nelle pagine romane del giorno dopo:

 

Sono appassionata di fotografia e non è una stranezza per un giornalista visto che il significato etimologico di fotografia è scrittura con la luce.

La poesia universale di Dante ha cantato in …..

La poesia universale di Dante ha cantato in persiano, ungherese, spagnolo di Fausta Speranza

Dante in un’altra lingua per capire meglio la lingua di Dante. Alla terza edizione della manifestazione “La Divina Commedia nel mondo” non abbiamo più dubbi: la lettura comparata delle terzine sull’Inferno e sul Paradiso ci regala proprio una parola in più per esprimere quello che Dante ci dice. Non è solo un piacevolissimo gioco accademico o letterario ma è come una lettura indiretta che ci riporta più direttamente alle inesauribili suggestioni dei versi e dei significati. In particolare, la novità dell’edizione di settembre 2000, cioè la traduzione in dialetto romagnolo, ci ha richiamato quasi bruscamente al valore vivo e autentico della parola in rima dell’Alighieri. La traduzione del romagnolo Filippo Monti ha avuto la colpa o il privilegio di suscitare per la prima volta mormorii. Sussurrati, compiaciuti commenti hanno osato infrangere il religioso silenzio che si crea ad ogni lettura di quella che resta la “divina” commedia. Insomma, ha prevalso l’emozione di comprendere con tutta la forza, l’irriverenza, la spontaneità del proprio dialetto il racconto di Dante, che nell’Inferno è stato indubbiamente così forte, irriverente, spontaneo, nonostante tutto lo sforzo architettonicamente costruttivo della sua poesia.     Chi non conosceva il dialetto ha potuto constatare che di un’altra lingua si tratta,  lontana dall’italiano. Certamente chi ha studiato, anche superficialmente, francese o inglese, nelle precedenti edizioni ha potuto comprendere di più nella lettura della Prof.ssa Jaqueline Risset o del Prof. Allen Mandenbaum. Ma avvertire come la sala reagiva alle espressioni del dialetto, che in quanto tali appartengono al vissuto sempre intenso dell’infanzia e della famiglia, ha regalato un’emozione molto molto bella anche a chi  non possedeva il codice linguistico per capire.
Ancora una volta abbiamo goduto con Dante della bellezza delle emozioni e della fantasia ma anche della ricchezza del suo spessore concettuale. La suggestione della proposta interpretativa dell’idioma romagnolo ci ha ricordato quanto Dante, che  ha dettato legge in fatto di poesia, alle leggi della poesia si sia piegato. Il padre della lingua italiana, che ha viaggiato dall’Inferno al Paradiso rincorrendo la verità dell’uomo, voleva proporre una lingua aulica, curiale, cardinale ma ci ha regalato versi in cui irrompono i dialetti da lui conosciuti.  E’ riuscito nel suo intento di offrire il primo dialettale abbozzo dell’italiano futuro, secondo i propositi del De vulgari eloquentia,  ma forse proprio in fatto di lingua ha pagato il suo tributo più alto alla poesia che non è tale se non è viva. E, infatti, non ha potuto evitare che  l’umanità più autentica e spontanea, che amava raccontare, raccontasse se stessa  attraverso l’autenticità delle sue espressioni più primordiali. E quando il dialetto non irrompe con prepotenza tra le rime, Dante stesso ci suggerisce di non dimenticarlo, ad esempio quando scrive che Beatrice parla “in sua favella” o che Virgilio si esprime “in mantovano”.   In definitiva rigore concettuale e fantasia non ci deludono mai nella Divina Commedia.
D’altra parte, i precedenti nove appuntamenti, in cui si sono susseguiti anche studiosi di paesi molto lontani, ci hanno abituato proprio ad una fruizione musicale delle traduzioni ma anche al vezzo concettuale di  percepire il riverbero in altre culture della ricca proposta culturale di Dante. Troppo spesso si dimentica in Italia di accostarsi con la sensibilità di oggi alla poetica dell’Alighieri. Si resta ancorati ad una lettura scolastica  e nozionistica che non rispetta la vitalità dei versi. Ascoltare quanto intensamente Dante parli agli uomini di lingua diversa può essere perfino  un suggestivo, curioso,  sottile,  piacevole rimprovero.  Nelle due precedenti edizioni abbiamo avuto il privilegio di incontrare il cinese Huang Wenjie, il russo Aleksandr A. Iljusin, il turco Rekin Teksoy, il portoghese Vasco Graca Moura. Quest’anno, prima dell’originale lettura in dialetto, abbiamo ascoltato, nella prima serata, l’interpretazione del tedesco Hans Werner Sokop, che ha coraggiosamente e con competenza affrontato il XIX Canto del Paradiso, in cui la poetica dell’astrazione assume i toni severi e sprezzanti delle pagine più polemiche dell’ultima Cantica. Poi, sempre nella suggestiva Chiesa di San Francesco, ha letto la sua traduzione l’arabo Mahmoud Salem Elsheikh. Ha proposto il XXVIII Canto dell’Inferno in cui con più forza Dante sottolinea la durezza della pena per chi semina odio, vendetta, sangue. Più che le figure dei singoli dannati il poeta è concentrato a descrivere l’orrore di chi insanguina la pace e ferisce la giustizia. All’inizio Dante stesso ricorda i limiti di ogni parola scrivendo: “Chi poria mai pur con parole sciolte dicer …ogne lingua di certo verria meno…”. Forse l’ammissione del poeta, che riconosce il valore relativo della parola di fronte all’intensità della vita vissuta dell’uomo, ha incoraggiato lo studioso che si esprime in una lingua anche strutturalmente così lontana dall’italiano. E, ci piace pensare che tale espressione abbia già in precedenza incoraggiato l’ideatore della manifestazione, il colto e appassionato Walter Della Monica, che, con fantasia e coraggio, ha proposto di allargare, in questo modo,  gli orizzonti della comprensione e dell’interpretazione della parola di Dante a Ravenna, la città che lo ha accolto in esilio. E  a sottolineare il successo della manifestazione ci aiuta in particolare il ricordo della serata dedicata alla romena Adriana Mitescu che si è distinta per le personali doti comunicative.  Quest’ultima ha vinto una doppia scommessa, perché ha suscitato entusiasmo e partecipazione proponendo il Canto XXVIII del Purgatorio che, generalmente, è delle tre Cantiche la meno amata. E’ ricca di invenzioni allegoriche e la tensione emotiva e poetica è asservita al valore della purificazione ascetica che permette di fare il salto dall’Inferno al Paradiso. Ma la studiosa romena ha scelto il Canto in cui il pellegrino Dante giunge alla soglia del Paradiso terrestre e scopre le sensazioni nuove suggerite dalla natura felice del luogo. La descrizione del bosco, in cui possiamo riconoscere la particolare pineta di Classe fuori Ravenna, ben si presta ad una traduzione di respiro universale.  Infatti,  già  Dante nei suoi versi la tratteggia con un notevole grado di stilizzazione, suscitando una suggestione più musicale che descrittiva. Dante voleva ricreare l’immagine universale di una natura incontaminata, simbolo e luogo di accoglienza  delle virtù morali ed intellettuali. Forse proprio tale valore di universalità ha arricchito in modo particolare il lavoro della studiosa romena. E’ solo l’ennesima, piacevole conferma del prodigio della poesia che, quasi come in un contrappasso dantesco, si nutre dell’intimità più raccolta dei sentimenti ma rinnega ogni chiusura e non conosce confini.

del 17 novembre 2001