Sintesi dell’intervento di Fausta Speranza
Ci si interroga su quale futuro abbia il progetto di integrazione dei popoli. Ma forse non ci siamo fatti abbastanza domande sul passato. I “populisti”, che vogliono frantumare l’esistente, sono un effetto di qualcosa, non la causa. Dobbiamo valutare cosa fare in prospettiva, dopo aver capito davvero chi ha costruito cosa, chi ha lasciato falle, e cosa c’è da difendere della costruzione. Potremmo scoprire che ai cittadini serve più Europa e non meno Europa. Al di là degli spot politici e del sensazionalismo dei vecchi e nuovi media.
Come la fotografia di un golfo scattata da una barca, che non potrà avere uguali da nessun punto della terra ferma, solo uscendo dall’Europa, si coglie il peso del baluardo europeo di pace e sviluppo. Nato in reazione al dramma dei nazionalismi, va ben oltre il Nobel per la pace che l’Ue ha guadagnato nel 2012. Un punto di osservazione, per esempio, può essere l’Asia, che, nel boom economico, vive l’anelito ad uno sviluppo umano.
La scommessa è fotografare, con attenzione e verità, la casa comune europea nella sua reale dimensione, senza trascurare tutti gli scatti che si possono fare da vicino: istantanee di scelte pavide sul piano delle istituzioni, ma anche immagini di boigottaggi da parte di singoli leader. Se le scelte fatte a Bruxelles sono troppo lungimiranti e non spendibili in campagna elettorale, alcuni leader puntualmente le rinnegano in patria. Questo è il dramma di un’Europa che prende la rincorsa e poi frena ad ogni tappa di voto, per paura di ripercussioni sull’elettorato. E che, invece, ha finito per scontentare i cittadini con immobilismo e burocrazie.
I vari partiti che, in paesi europei anche molto diversi tra loro, identifichiamo come populisti non sono la causa delle spinte disgregatrici, piuttosto sono il prodotto di scelte al ribasso. Bisogna capire da cosa nascano e il ruolo dei media è fondamentale. La vittoria del partito nazionalista nelle elezioni a metà marzo in Olanda era data per scontata. Il partito è cresciuto ma non ha trionfato. Il rischio è che il sensazionalismo dei media e dei social, sempre più imperante, si sposi meglio con le grida, piuttosto che con i racconti e le spiegazioni, finendo per fomentare l’ansia di picconate. Più rischiosa la situazione per le presidenziali in Francia. Marine Le Pen è arrivata al ballottaggio gridando contro l’euro e contro le istituzioni di Bruxelles, alle quali peraltro ha sottratto fondi in maniera indebita. E ha incassato un 20 per cento di consensi che non si possono non considerare. Ma Macron ha ottenuto acnhe di più catalizzando in fondo la stessa scontentezza verso i vecchi partiti ma a servizio di un rilancio e non di un’abiura del progetto europeo. Schiacciante la sua percentuale nella più colta capitale.
I media – non solo in Gran Bretagna – non hanno mai simpatizzato per una dinamica politica che resta lontana e che è molto difficile da seguire, per tanti aspetti. E tutto il populismo che invade i social non è certo più preparato. Si ritrovano i vecchi slogan dei vecchi politici, che ci hanno abituato a svuotare nello spazio europeo le pattumiere nazionali. Slogan inaspriti dalla rabbia collettiva per un benessere che è venuto meno, per tanti motivi, che sarebbero da analizzare bene.
Non si sente una domanda centrale: perché i nazionalismi dovrebbero gestire meglio i rischi del terrorismo o la sfida del gap sempre più netto tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri? Se la sovrapproduzione e l’invecchiamento della popolazione sono questioni urgenti per tutto il continente europeo, cosa cambierebbe a rinnegare il parlamento di Strasburgo, unica assemblea che riunisce i rappresentanti del popolo direttamente eletti dai cittadini? In realtà, non è credibile che le frontiere facciano miracoli, che tagliare l’orizzonte, negando la prospettiva sovranazionale, ci aiuti ad avere prospettive di soluzioni più ampie. Non è pensabile che, indebolendo le istituzioni europee, i cittadini contino di più. L’Europarlamento, nato nel 1979 con funzioni rappresentative, con il Trattato di Lisbona, nel 2009, ha ottenuto di contare di più: su alcuni temi ormai è prevista la codecisione con il consiglio dei capi di stato e di governo. Proprio ora sarebbe interesse dei cittadini rinunciarci? In piena crisi, scoppiata intorno al 2007, si ripeteva praticamente lo stesso copione in tutti i paesi: banche sull’orlo del fallimento travolte dalle scelte dirette o dall’onda lunga della finanza creativa, salvate grazie all’intervento dei governi ovviamente subito impegnati a rifarsi sui cittadini. In tutto questo non abbiamo visto gli istituti bancari pagare il prezzo che avrebbero dovuto pagare. Solo ed esclusivamente per iniziativa del parlamento europeo che ha avuto anche la forza di imporla ai capi di stato e di governo, è stata inserita una tassa sulle transazioni bancarie per le stesse banche. Ma nessuno sembra ricordarlo. O saperlo.
Abbiamo assistito nel 1992 alla nascita dell’Unione europea, che doveva dare slancio, incisività e anima all’embrionale Comunità economica europea (Cee), nata nel 1957, proprio con i Trattati di Roma che celebriamo quest’anno, che i elader hanno celebrato con un vertice straordinario il 24 marzo. Abbiamo assistito alla nascita coraggiosa dell’euro e alla miopia dei leader che hanno pensato di lasciare la moneta unica senza politiche monetarie comuni. Sono corsi ai ripari, solo quando la valanga della crisi mondiale aveva già travolto nel 2008 anche l’Europa. Eppure alcuni economisti avevano previsto tutto. E non a caso, a proposito di luoghi comuni e di slogan, la fa sempre da padrone proprio l’odio verso l’euro. Ma in paesi come Italia e Grecia nessuno ricorda che sono stati i mancati controlli governativi a far schizzare i prezzi. E nessuno ricorda mai abbastanza quanto i governi nazionali, prima della moneta unica, abbiano sperperato, ipotecando i beni delle generazioni seguenti con le politiche di debito pubbblico e inflazione, tutte nazionali. Ai giovani cerca indubbiamente di restituire qualcosa Bruxelles quando cerca di imporre agli stati politiche lungimiranti, come quella, per il rispetto dell’ambiente. Certamente, ai giovani toglie qualcosa anche Bruxelles se rinnega il valore fondante della solidarietà e il fulcro di tutto il meglio della civiltà europea: il valore centrale della persona.
A ben guardare, e non certo a livello solo europeo, è venuto meno il concetto di bene comune. Questa dovrebbe essere la vera discriminante, per politici che siano locali, nazionali, o sovranazionali. In tutti i trattati fondatori emerge il valore della solidarietà. E torna anche nella Dichiarazione del vertice di marzo 2017 in cui si è riusciti a ribadire che nell’Europa, che ha per slogan “Uniti nella diversità”, c’è spazio per passi differenti. Altrimenti ci si ferma tutti sull’immobilismo di quanti vorrebbero solo prendere – fondi e opportunità – e non rischiare mai nulla. C’è molto da dire sulle posizioni recenti di paesi dell’est europeo.
E tra gli egoismi nazionali che si fanno più spazio c’è quello di quanti vorrebbero negare che l’immigrazione sia questione epocale, strutturale e dunque europea, in cui tutti devono fare la propria parte. In gioco non c’è la distruzione della costruzione europea, ma un’invasione disperata che nessun muro nazionale potrebbe contenere. Perché i singoli paesi dovrebbero avere più forza contenitiva rispetto all’insieme dei paesi? Di fronte alla massa di gente che fugge dalle guerre in Medio Oriente e dalla fame in Africa, davvero crediamo che basti un muro? E in gioco ci sono anche sfide di cui si parla troppo poco, come la mai completata stabilizzazione dei Balcani occidentali, che restano un preoccupante focolaio di gravissime tensioni.
Nel mondo globalizzato, l’Asia ha alzato la voce e si appresta a farlo anche l’Africa. E’ impossibile vagheggiare una geopolitica mondiale europacentrica e un Occidente dominante. E, di fronte a tutto questo, c’è da chiedersi se, piuttosto che avere bisogno meno Europa, non abbiamo invece urgente necessità di più Europa. Di essere ancorati di più e meglio sui valori della persona e della democrazia che, fuori del territorio europeo, non sono affatto scontati. Ovunque si guardi. La Cina avanza sulla scena mondiale, tra l’altro, anche con la Asia Infrastructure Investment Bank, che sta coinvolgendo già 77 paesi. Dopo gli accordi di Bretton Woods, nel 1944, gli Stati Uniti e alcuni paesi europei hanno pensato di imprimere un ordine economico mondiale gestendo Banca mondiale e Fondo monetario internazionale (Fmi) , rispettivamente controllati da Washington e da Bruxelles. Poi, è stata storia di miopia nel non voler vedere che l’assetto mondiale cambiava, e di immobilità nel non voler aprire ad altri protagonisti della globalizzazione. Il più grosso limite dell’Europa è stato che i singoli governi non hanno mai voluto cedere più di tanto sovranità e dunque ancora attualmente a rappresentare l’Europa al Fmi non c’è una voce che possa farsi sentire ma ci sono le voci di ogni singolo paese, anche per l’eurogruppo non c’è un rappresentanti che unifichi le posizioni dei paesi dell’area euro. Questi sono i passi che dovremmo reclamare: più coesione per difendere il bene comune dei cittadini europei, dei mercati europei, dei lavoratori europei, di fronte alla valanga cinese.
In ogni caso, le prospettive si ampliano davvero se si guarda al cielo. L’Europa ritrova sana vitalità se ritrova il respiro della dimensione spirituale che era dei padri fondatori, capaci di rilanciare sugli individualismi, sul clamore dei proclami vuoti, sulla banalità della litigiosità.
26 Aprile 2017, Università Suor Orsola Benincasa, Napoli