La campionessa mondiale di pattinaggio insieme a papa Francesco per la pace in Siria

di Fausta Speranza

kostner

…a parlare e’ Carolina Kostner, campionessa mondiale di pattinaggio artistico su ghiaccio. A Famiglia Cristiana dichiara di essere dispiaciuta di dover seguire gli impegni che la porteranno prima di sabato fuori Roma.lo dice con un’espressione sentita e stringendo forte le mani.

La giovane campionessa sottolinea che “l’iniziativa di Papa Francesco per la pace in Siria e’ bellissima”.  Ci racconta della sua emozione quando incontra bambine che la riconoscono ed esprimono la loro “gioia infantile di sognarsi campionesse accanto a una campionessa” e ci racconta di quanta tristezza prova a pensare ai bambini che in guerra sono privati di ogni gioia infantile e devono anzi conoscere l’orrore della morte e della dstruzione. Carolina a Famiglia Cristiana dice che “sara’ idealmente con il Papa nella preghiera anche se lontana” e ci chiede di ringraziare Papa Francesco perche’ chiama tutti a partecipare. La Kostner e’ attesa tra l’altro a Verona per la terza edizione di Opera on ice, lo spettacolo che  coniuga abilita’ su ghiaccio e lirica, che andra’ in scena il 28 settembre, e che – ci dice – le ha insegnato a cercare di coniugare lo sport con la cultura scoprendo che entrambi hanno valori da difendere. E quando le chiediamo quale puo’ essere il primo valore, ci dice: proprio la pace, come cerca di far capire Papa Francesco. Abbiamo incontrato Carolina nella scuola di pattinaggio a lei intitolata a Roma e mentre in tanti nel suo staff la invitavano a non fermarsi prima dell’esibizione con le piccole pattinatrici, lei quando ha sentito che Famiglia cristiana voleva parlare con lei della giornata di preghiera per la Siria si e’ fermata con uno slancio spontaneo e deciso.

dal sito di Famiglia Cristiana del 6 settembre 2013

Il Mediterraneo dimenticato

Pier Virgilio Dastoli, presidente del Movimento Europeo, propone una maggiore integrazione tra Ue e Paesi del Mediterraneo. Ecco come.

dastoli

Pier Virgilio Dastoli, presidente del Movimento Europeo (foto F. Speranza)

Nell’Europa coinvolta nelle crisi africane legate al terrorismo, internamente ingessata dalla crisi economico-finanziaria, pronta all’allargamento nei Balcani, c’è chi denuncia il sostanziale rischiosissimo disinteresse di Bruxelles ai Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente e sogna una sorta di CECA per il Mediterraneo. Come la prima Comunità del Carbone e dell’Acciaio riuniva nel Vecchio Continente i Paesi usciti dai totalitarismi intorno alla produzione di due materie prime e apriva al percorso di integrazione che ha costruito l’UE, così la CECA dei Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum dovrebbe svilupparsi a partire da punti di interesse e condivisione possibili, in mezzo a tante problematiche. Ad esempio, intorno al tema dell’energia, dell’acqua, dell’immigrazione di giovani, del mercato.

Prima di saperne di più viene subito in mente il fallimento del Partenariato Euro-Mediterraneo nato a Barcellona nel 1995, ma anche il naufragio dell’Unione per il Mediterraneo lanciata a Parigi nel 2008. Viene in mente come nessuno di questi organismi, o nessun leader europeo, abbia capito i rischi e gli squilibri che facevano di alcuni Paesi del Nord Africa una polveriera. Eppure erano evidenti i fattori di instabilità, i dislivelli all’interno della regione e dei singoli Paesi. Era innegabile la crescente corruzione dei regimi totalitari sia monarchici che repubblicani, con cui peraltro i Governi europei facevano tranquillamente affari. Era palese la gravità del livello di disoccupazione endemica tra i giovani che in molti di questi Paesi rappresentano il 50% della popolazione.

Una situazione esplosiva, sulla quale incideva anche la crisi del 2007 e l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. Eppure in Europa nessuno aveva previsto che la tecnologia dei social network avrebbe fatto il resto. Il “resto” noi lo chiamiamo primavera araba ma ai giovani del Nord Africa o del Medio Oriente questa espressione non piace. Loro parlano di stagione dei diritti e della democrazia. Questa stagione è in pericolo, minacciata più o meno gravemente da forze fondamentaliste. Dunque, non è più tempo per Bruxelles di permettersi di non vedere l’evidenza alle porte di casa sua.

Tutto ciò rappresenta il pesante background con cui ascoltiamo il “sognatore” che abbiamo davanti. Ma la sua passione è tale da coinvolgerci. In bilico tra uno slancio verso i più alti valori e il disincanto di tanti limiti di questa Europa che arranca, ascoltiamo Pier Virgilio Dastoli, presidente del Movimento Europeo, che vuole essere espressione della società civile. Come dire: una voce dal basso. Dastoli sottolinea che il Movimento è a servizio delle istituzioni europee in cui peraltro lui ha lavorato fino alla pensione maturata da direttore della Rappresentanza Ue a Roma.

{mp3}dastoli{/mp3}

Ma Dastoli non ha modi da “direttore”, piuttosto da cordialissimo padrone di casa. Non ha neanche l’atteggiamento di chi illustra una grande idea. Ma ha l’entusiasmo di chi ci crede, dello studioso che, a dispetto delle brutture del mondo, nella sua Biblioteca immagina un mondo migliore. Ci parla di etica, termine troppo spesso dimenticato. Mentre Dastoli illustra a Famiglia Cristiana il mondo migliore che fantastica per l’area del Mediterraneo, pensiamo alla visionarietà di Altiero Spinelli che, esiliato nell’isola di Ventotene, in piena guerra mondiale e tra gli orrori dei totalitarismi, nel 1941, elaborava il Manifesto con cui sognava un’Europa di Stati liberi, uniti intorno ai valori della democrazia e della pace. E torna in mente l’idealità ricca di valori cristiani con cui i “padri dell’Europa”, Monnet, Schumann, De Gasperi, davano corpo all’utopia.

Quando nominiamo Spinelli, Dastoli si lascia andare a un profondo sospiro di ammirazione per coloro che – ricorda – “hanno saputo sognare la pace, la democrazia, la solidarietà tra popoli, che dovremmo riscoprire”. Soprattutto – puntualizza – i padri fondatori dell’Europa unita hanno saputo immaginare di allontanarsi dalla concezione degli Stati sovrani per costruire una Comunità. E’ proprio quello che si deve recuperare: la fiducia nella comunità europea perché – spiega Dastoli – l’Unione per il Mediterraneo ha fallito, ad esempio, proprio perché la Francia aveva riproposto una dimensione di azione intergovernativa e non comunitaria.

Con il contagio del suo entusiasmo per il sogno europeo, lo seguiamo nei ragionamenti spietatamente critici. Dastoli ci spiega che “la politica euro-mediterranea, molto più che altre azioni esterne, è il test più importante per un’Europa che in tema di politica estera si presenta più indebolita e divisa che mai”. E questo nonostante che il Trattato di Lisbona del 2009 abbia istituito l’Alto rappresentante degli affari esteri e il Servizio europeo di azione esterna.

Oltre alla debolezza e alla disunità c’è la miopia: “L’Europa si disinteressa del Mediterraneo”. Nell’ultimo ventennio Bruxelles ha lavorato intensamente sul fronte dell’est, con l’inclusione di molti paesi e il partenariato strategico avviato con la Russia nel 2005, e ha preparato il terreno all’ingresso dei paesi dei Balcani, che sarà inaugurato con la Croazia a luglio di quest’anno. Ma ha sostanzialmente balbettato e fallito nel Mediterraneo. Senza pensare alla deriva del fondamentalismo e alle sue conseguenze sui diritti delle donne o delle minoranze, la mancanza di una strategia forte significa, nell’immediato, arrendersi alle relazioni bilaterali.

Peraltro, – sostiene Dastoli – in questa fase più che mai sono gli stessi Paesi arabi a condividere questo approccio: “Disillusi da un’Europa sempre meno attraente, niente affatto disposti a impegnarsi in un difficile cammino di costruzione dell’intera regione”. Ma il punto è che le relazioni che innanzitutto i Paesi arabi tendono a rafforzare in questo momento sono con potenze emergenti a cominciare dalla Turchia. Bruxelles non può continuare a far finta di non vedere.

Dastoli, dunque, ci spiega cosa dovrebbe fare la sua Ceca del Mediterraneo: “Unire gli aspetti degli interessi condivisi – che sono individuabili nell’energia, l’ambiente, l’acqua, l’immigrazione, i giovani, il mercato possibile – a quelli di un quadro istituzionale comune e cioè un’alta autorità incaricata di gestire gli interessi condivisi, un Tribunale dei diritti in materia, un Comitato di ministri permanente, un senato designato a suffragio universale”.

Il piano c’è ma il tutto “dovrebbe essere preparato da una Conferenza diplomatica che si svolga con possibilità di successo nel 2014”. Dastoli sogna una “grande convenzione della società civile, una conferenza economico-finanziaria e soprattutto la ricerca di principi e valori comuni nel campo dei diritti fondamentali”. Quei diritti per cui tanti giovani sono scesi in piazza per poi ritrovare nelle nuove Costituzioni gravi e palesi limitazioni.

Le precisazioni non finiscono qui. Dastoli mette in guardia anche dall’errore già fatto di forzare la mano a Israele e Autorità Nazionale Palestinese coinvolgendoli entrambi a Barcellona e a Parigi. Gli attori del conflitto israelo-palestinese – spiega – devono restare fuori dalla Ceca Euro-Med perchè altrimenti il loro contenzioso bloccherebbe qualunque iniziativa. L’auspicio è che la costruzione della Ceca sia da incoraggiamento per la risoluzione del conflitto. E Dastoli formula questo auspicio con un altro sogno: vedere un giorno a Gerusalemme la sede della Ceca Euro-Med.

Inoltre pur aprendosi all’insieme dei popoli dell’Africa del Nord e al dialogo con i Paesi dell’Africa sub-sahariana, la Comunità dovrebbe essere inizialmente limitata ai Paesi impegnati sulla via delle riforme costituzionali interne, che si siano dotati di un quadro istituzionale e giuridico nuovo, con i basilari principi di democrazia. Dastoli fa anche l’esempio dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa nata dagli accordi di Helsinski nel 1975. In piena guerra fredda si riuscì a far sedere allo stesso tavolo, intorno al tema della sicurezza, rappresentanti dei Paesi europei, inviati degli Stati Uniti e inviati dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Anche allora, – ci dice – sembrava un’utopia.

Cerchiamo di capire meglio i principi che sarebbero da condividere oggi nel bacino del Mediterraneo. Dastoli ha le idee chiare: “Bisogna confrontare le Carte dei diritti del Consiglio d’Europa, dell’Unione Europea, della Lega Araba e dell’Unione Africana”. Ma avverte che il tutto non si può fare senza “incontri con i rappresentanti delle democrazie locali” e quelli che definisce “Stati generali della gioventù euro-mediterranea”. Ci sembra che la Ceca Euro-Med, nella mente di Dastoli, si nutra di visionarietà ma anche di concretissimo senso critico, di dimensione comunitaria sovranazionale e di sguardo alla società civile.
Fausta Speranza

da Famiglia Cristiana del 1° Aprile 2013

Santina, la speranza si racconta

Monsignor Ginami ha raccontato la malattia e la grande forza della madre Santina. Tre libri diventati best seller e occasione di carità.

santina

Monsignor Ginami con la madre Santina a Gerusalemme.

La speranza, un bestseller. Ma non è un guru a scrivere e non si tratta dell’ennesimo libro di ricette per vivere meglio, ritrovare la forma fisica, circoscrivere l’ansia, gestire le responsabilità da manager, educare figli vincenti, o qualcosa di simile ai tanti standard di perfezione ai quali tutti sembriamo aspirare. Si parla di speranza ma in una storia in cui la sofferenza cresce, la malattia consuma, la vita si spegne. Una storia che occupa tre libri, ognuno con svariate ristampe, che vende all’inverosimile in anni in cui i libri non vendono più. E i libri, o meglio i ricavi, diventano case a Gerusalemme, progetti in Paesi in via di sviluppo, borse di studio per ricercatori in Medicina.

Viene da immaginare una trama particolare, con sviluppi sorprendenti o magari con un miracolo evidente. Chi cercasse qualcosa di simile nei libri di Luigi Ginami rimarrebbe deluso. E’ la narrazione del calvario tra ospedali e assistenza. Per i canoni attuali della comunicazione, che deve essere efficace, essenziale, pungente e accattivante, i libri potrebbero risultare a tratti ripetitivi. Lo stile è diretto, semplice, la narrazione è arricchita da illuminanti citazioni bibliche ma a volte si appiattisce nell’andatura da diario. A voler riassumere la trama, resta la traccia di una vicenda per nulla esemplare: una donna anziana, la sua malattia e la conseguente semi-immobilità. C’è l’amorevole cura di due figli che, avendo perso il padre piccolissimi, da questa madre sono stati allevati tra significative difficoltà economiche. Anche questo non è qualcosa di nuovo.

Di veramente particolare c’è solo il sorriso di questa donna e il suo impegno incessante di preghiera in un dialogo profondo con Dio. Si incontrano alcuni anziani remissivi e dolcemente rassegnati alla condizione di sofferenza ma nel caso di Santina Zucchinelli non si tratta solo di questo. I medici, gli infermieri, i degenti che l’hanno incontrata nel suo percorso, dal ricovero per un intervento chirurgico al cuore alla rianimazione e poi alla riabilitazione e all’assistenza come invalida, hanno parole straordinarie per l’insegnamento di vita raccolto da questa donna. Nella morte della vitalità dinamica del fisico, e quindi della parola e di altre facoltà, in tantissimi hanno trovato la vita. A tanti ha insegnato a pregare.

I libri, editi da Edizioni Paoline e Editrice Velar tra il 2005 e il 2011, hanno per titolo citazioni bibliche: La speranza non delude, Quando sono debole è allora che sono forte, Roccia del mio cuore è Dio. Nel primo libro si legge: “La Speranza non è ottimismo, non è convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo, la Speranza è certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato, che abbia successo o meno”. Non ha studiato Santina e non filosofeggia mai. Questa idea di Speranza, però, la ripete spesso prima di perdere la parola.

Si potrebbe dire che di particolare c’è la storia del figlio di Santina: diventa sacerdote e scopre che la madre ha fatto un voto quando, giovane sposa, non riusciva a rimanere incinta. Ha chiesto a Dio innanzitutto un figlio maschio da offrire alla Chiesa come sacerdote. E tanti dei soldi faticosamente messi insieme con il lavoro di pulizie ad ore convergono nel gruzzolo necessario per mantenere Luigi al seminario. In un’epoca in cui ci si sente tutti un po’ psicologi, viene da pensare subito a un quadretto familiare in cui il rapporto viscerale tra madre e figlio, con possibili inclinazioni ad una certa morbosa esclusività, giustifichino tanti libri dedicati a mamma Santina. Ma i libri vivono di vita propria: le richieste di traduzioni prima in inglese e poi in altre lingue vanno ben oltre le intenzioni di un figlio.

Don Luigi pubblica i libri firmando la cessione dei diritti di autore e dunque rinunciando a guadagni. Chiede solo tante copie per quanti amici chiederanno di leggere la storia che lui ha poco tempo per raccontare. In ogni caso si moltiplicano le vendite. Lo invitano a presentare le pubblicazioni anche a Los Angeles: nella terra delle perfezioni di bellezza degli attori e delle finzioni affascinanti, don Luigi trova un’ampia platea di gente ad ascoltare il suo racconto così crudo e vero.

Quando chiede al personale medico le indicazioni necessarie per soddisfare il forte desiderio di Santina di tornare a Gerusalemme si sente rispondere con tante raccomandazioni a evitare un viaggio del genere. Ma inaspettatamente arrivano offerte di soldi, donazioni per contribuire a soddisfare il desiderio di Santina di tornare a pregare al Santo Sepolcro. Sono tanti soldi e don Luigi, che non può accettarli, suggerisce a chi li offre di impiegarli in Terra Santa: nasce una casa per sacerdoti che vogliono pregare nei luoghi dove il Cristianesimo ha avuto origine e si completa il restauro di edifici cristiani in precarie condizioni, come la facciata della Chiesa dell’Esarcato armeno cattolico di Gerusalemme.

Il viaggio di Santina in Terra Santa si fa e poi comincia un giro per i Santuari più importanti. Santina non è trasportabile secondo alcuni parametri ospedalieri e soprattutto è una gran fatica per tutta l’assistenza che comporta. Ma ogni volta è felice e ogni volta travolge con il suo sorriso e l’intensità della sua preghiera tanti ammalati. E dunque oltre ai Santuari arriva a missioni in giro per il mondo. Tra il 2005 e il 2012, Santina compie 43 viaggi, percorrendo circa 140.000 km. Trascorre in viaggio 324 giorni. Arriva anche in Africa, in Brasile. E’ facile domandarsi perché quest’ansia di attraversare luoghi in condizioni così precarie, ma se si ascoltano i racconti e si vedono le foto di tanti volti coinvolti le domande vengono meno.

E’ una spesa notevole. Don Luigi spende anche se spesso è invitato, ma immancabilmente si ritrova con offerte di donazioni. Immancabilmente risponde con un’idea. Nasce la borsa di studio per giovani impegnati nella ricerca nel campo della cardiochirurgia presso gli Ospedali riuniti di Bergamo, città dove è vissuta Santina, nata a Sforzatica di Dalmine il 29 dicembre 1925. La medicina ha bisogno di nuovi orizzonti di studio per servire l’uomo. Sono già sei i ricercatori sovvenzionati.

C’è poi la vicenda legata ad Olinda, la badante peruviana che assiste Santina in 8 anni di invalidità. Don Luigi Ginami, che veramente dovremmo chiamare mons. Ginami, si interessa della sua famiglia lontana, capisce alcune necessità e provvede ad alcune spese. Accade che le persone che aiutano gli anziani in una assistenza così umile, vitale nell’intimità di un bisogno essenziale, diventino persone di famiglia. Ma nel caso di Santina e don Luigi si mette in moto una macchina di sostegno per tante donne che lasciano il loro paese di origine per venire ad assistere anziani malati nei nostri paesi benestanti. Nasce una rete di assistenza per immigrate: a sostegno per esempio di ragazze madri ma anche per bisogni più semplici ma difficili per chi non conosce la burocrazia del paese in cui si trova, come essere in regola con pagamenti o ricorrere all’assistenza di medici convenzionati. Dunque l’aiuto concreto per le cure a una badante boliviana con problemi psichiatrici, a una bambina vittima dello choc di un attentato a Baghdad in Iraq, ma anche a un ragazzo dissidente a Cuba ricoverato in un ospedale psichiatrico. Tutto è raccontato nei libri.

Dopo la morte di Santina, avvenuta il 4 dicembre 2012, il funerale e la Messa in suffragio celebrata a Roma dal cardinale Comastri il 13 dicembre, non è facile incontrare Don Gigi, o mons. Luigi Ginami che dir si voglia. Non nasconde il dolore per il vuoto umano che sente. Lo ammette con semplicità disarmante. Ammette anche il timore di rimanere senza il pungolo che Santina rappresentava: il richiamo costante e severo alla preghiera e alla santità. Si percepisce che vorrebbe, oltre alla concentrazione del suo impegno di sacerdote, pensare a conservare nel cuore, oltre che nei libri, le raccomandazioni di una madre che sempre ha usato poche parole per tutti i suoi insegnamenti: obbedienza, preghiera, speranza, abbandono in Dio. Vorrebbe silenzio per vivere davvero il significato di queste parole. Ma in tanti gli chiedono che cosa farà ora.

Si rifugia per giorni a Gerusalemme dove riposano le spoglie mortali di Santina il cui corpo è stato cremato. Mons. Ginami ci ricorda che la Chiesa ammette la cremazione “purché non avvenga in dispregio della Risurrezione” e ci tiene a spiegarci di aver scelto la cremazione proprio “come un gesto di ossequio della nostra povera fede al grande Mistero della Risurrezione”. In passato don Gigi ha lavorato accanto al cardinale Carlo Maria Martini, che ha accompagnato con contributi di riflessione e lettere affettuose le pubblicazioni dei suoi libri. Capiamo che il vuoto umano è duplice.

Riusciamo in un giorno di Quaresima ad incontrare mons. Ginami. E’ cordialissimo e si illumina a nominare la Fondazione Santina Zucchinelli, che sta nascendo per continuare a raccogliere i frutti di una vita di preghiera e speranza, di una esperienza di pace e pienezza nella sofferenza.

Per saperne di più di Santina, ci rimanda ai libri e al sito www.rocciadelmiocuore.it, ma anche al DVD “Quattro scintille di luce” con la rappresentazione della compagnia teatrale di Carlo Tedeschi. Non solo, ci indica il link al gruppo su Facebook e all’account twitter @sorriso di luce. E poi aggiunge che si può pregare il rosario in collegamento con la registrazione fatta con Santina e riportata da un gruppo di ragazzi su youtube. E su youtube si trova anche il video-presentazione della Fondazione Santina Zucchinelli.
Sorride quando gli facciamo notare tanta presenza nei moderni media di una donna lontana dai canoni di bellezza fisica. Sorride e aggiunge: “Pensa a quanti libri venduti con la copertina dedicata all’immagine di una anziana non autosufficiente!”. Una bellissima assurdità editoriale in tempi di società dell’immagine. Assurda come il sorriso di Santina nella sofferenza. Assurda come la Vita che nasce dalla morte in Croce.
Fausta Speranza

da Famiglia Cristiana del 13 Marzo 2013

La crisi? Sulle spalle delle donne

Le donne europee sono tre volte vittime della crisi: restano più spesso disoccupate, hanno salari comunque più bassi e devono sopperire ai tagli al welfare.

donne

(foto Reuters)

A cinque anni dallo scoppio della crisi, nella seconda e più critica fase economica, sono le donne a pagare di più. La crisi è scoppiata intorno al 2008 come crisi della finanza, settore che vede la presenza femminile a meno del 5%, ma è poi diventata recessione sociale con almeno il 30% delle donne a rischio povertà in Europa.

I dati che vengono da Bruxelles sono inequivocabili: le cittadine europee sono vittime tre volte: dei tagli sull’occupazione, dei tagli sociali imposti dall’austerity, dell’aumento della violenza in conseguenza dell’esasperato clima sociale. Per le donne la disoccupazione al 21% si aggiunge ad una posizione nell’ambito lavorativo già più vulnerabile: basti pensare che le donne, a parità di impiego e qualifica, guadagnano oltre il 17% di salario in meno rispetto agli uomini. Le donne che hanno bambini hanno il 12% di possibilità in meno di trovare lavoro mentre, al contrario, per gli uomini, quanti hanno figli risultano occupati in una percentuale più alta dell’8%. Inoltre il 31% delle donne lavora part time a fronte del solo 8% maschile e una percentuale ancora più alta si rileva per il precariato: tutti ambiti più esposti ai tagli all’occupazione.

Ma il vero dramma è quando si guarda al welfare: i tagli all’assistenza ad anziani o al sostegno all’infanzia ricadono soprattutto sulle spalle delle donne. Si parla, ovviamente, di una media di rischio esclusione sociale al 30% che nasconde divergenze profonde, dalla Danimarca alla Grecia, che vanno dal 3% al 77%, come spiega Elisabeth Morin-Chartier, relatore  della proposta di Direttiva per migliorare la condizione femminile presentata dal Parlamento Europeo. Anche la Commissione Europea ha presentato in occasione della Giornata internazionale della donna il suo Rapporto con linee guida di azione.

Ma, al di là degli annunci ufficiali, a ben guardare si capisce che non si potrà arrivare ad adottare un testo comune effettivamente operativo prima del prossimo autunno. Lo scoglio è quello del voto del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. Ma non solo: si scopre che il testo della Morin-Chartier, che chiede precise misure di sostegno all’assistenza sociale, deve ancora passare il vaglio di vari emendamenti all’europarlamento stesso, in cui si evidenzia la differenza di percezione traPaesi mediterranei in emergenza assoluta e paesi del nord relativamente toccati.

In tutta Europa solo il 30% delle imprese è femminile, ricorda a Famiglia Cristiana Mary Papaschinopoulou, direttore della Camera di commercio in Germania e fondatrice di Eurochambre Women Network, che subito aggiunge che ciò accade nonostante che la percentuale di successo per il business in gonnella è quasi il doppio rispetto a quella maschile. Ma poi aggiunge anche che, in particolare in questa fase, le probabilità di trovare credito dalle Banche per le imprese rosa è, invece, decisamente inferiore rispetto al mondo dell’impresa maschile.

Il problema è nella rappresentanza femminile al vertice delle istituzioni politiche e finanziarie, ci fa notare Raul Romeva, membro del Comitato per i diritti e pari opportunità per le donne del Parlamento Europeo: “Finchè le donne non saranno nelle stanze dei bottoni sarà difficile avere politiche sociali veramente al servizio dei cittadini e non della finanza”. E “sarà difficile combattere l’aumento di casi di violenza sulle donne, in famiglia e non”. Sulla violenza la Romera non vuole dare cifre ma parla di “netta escalation”.

In tema di rappresentanza, c’è l’annosa questione delle cosiddette “quote rosa”. Interpelliamo Evelyn Regner, membro del Comitato affari legali dell’europarlamento, che subito chiarisce: “Nessun paese mai nella storia ha raggiunto il 40% di presenze femminili nei posti della politica senza aver inserito nella legislazione il vincolo delle quote”. L’esempio più recente è la Francia che nel 2011, fatta la legge, ha raggiunto l’agognata percentuale. E c’è poi il caso dell’Italia che sostiene le quote rosa a Bruxelles ma attualmente non le prevede nella legislazione nazionale.

Nella Direttiva in discussione c’è proprio l’obiettivo del 40% di quote rosa in tutti i Paesi europei entro il 2020. Chiedendo in giro si scopre che è proprio uno dei punti più dibattuti. Morin-Chartier taglia corto: “Le quote rosa non piacciono a nessuno ma sono un male necessario”. La Evelyn Regner, da giurista, suggerisce quella che potrebbe essere la vera innovazione in materia: quote rosa a tempo determinato. “Il tempo utile per lanciare il cambiamento”.

Fausta Speranza

da Famiglia Cristiana del 7 marzo 2013

Vaticano, la città dei giardini

La prima Guida generale della città del Vaticano svela segreti imprevedibili. Per esempio, che i giardini occupano metà dell’estensione totale.

museivaticani
Storia e curiosità del patrimonio artistico e culturale racchiuso nelle mura vaticane non sono più prerogativa di scritti da specialisti: per la prima volta, sono sintetizzati in una Guida generale della Città del Vaticano. Una Guida che offre spunti di memoria e spiegazioni sull’arte in un percorso di visita ideale in cui non mancano segnalazioni di ordine pratico.

Oltre 30 autori, tutti esperti di eccellenza, per un volume che è già pronto in 6 lingue edito dalla Lev, Libreria Editrice Vaticana, da Jaca Book e Musei Vaticani. Una sorta di Baedeker Vaticano, commenta il direttore della Lev, don Giuseppe Costa, accostando la Guida alla collana turistica della nota casa editrice tedesca il cui nome è divenuto proprio sinonimo di guide turistiche.

La Guida non tratta di zone extraterritoriali o delle Basiliche a Roma perché viene pubblicata proprio per colmare la lacuna sulla parte dentro le Mura del Vaticano su cui finora si potevano leggere solo singoli studi specializzati per ogni settore: palazzi, giardini, monumenti.

Il professor Roberto Cassanelli, che ha curato la prima parte della guida, sottolinea la gestazione lunga e complessa del volume dovuta anche ad un obiettivo preciso: evitare contributi troppo specializzati ma senza trascurare nulla. “Abbiamo censito tutto, e questo credo sia il principale merito, il principale elemento di interesse del volume: cioè, quello di aver tentato per la prima volta di fare un inventario del patrimonio, senza introdurre elementi di discriminazione qualitativa. E’ censito tutto, e naturalmente a ciascun monumento è dato il suo valore”.

Viene subito in mente la difficoltà dell’impegno pensando a quanta stratificazione storica si sia prodotta su un così piccolo territorio nei secoli. Se parliamo spesso di stratificazione per Roma, dobbiamo farlo in particolare per la Città del Vaticano. Il viaggio è affascinatissimo. Si scopre a esempio che i giardini all’interno del Vaticano si estendono per 22 ettari, rappresentando così la metà dei 44 ettari di estensione totale. La studiosa Alberta Campitelli, che si è occupata della sezione giardini, ricorda che “i Pontefici non avevano una ‘continuità dinastica’, e quindi ognuno di loro ha lasciato una traccia particolare, individuale, molto chiara del proprio operato e della propria presenza”.

Si scopre che ripercorrendo la storia dei giardini, si ripercorre veramente la storia della Chiesa, la storia dei vari Pontefici che si sono succeduti sul Soglio di Pietro. La Campitelli ci spiega che “il Giardino era in diretta connessione con gli edifici, quindi è stato sempre un elemento a complemento e a decoro degli edifici”. Ogni Pontefice ha lasciato una traccia “individuale”. Qualche esempio: “il giardino segreto di Paolo III, del quale oggi non resta quasi più nulla; il Giardino quadrato, quello su cui si affaccia la Pinacoteca, che era un giardino – lo sappiamo dai documenti, dalle vedute – che aveva dei pergolati meravigliosi, sotto i quali passeggiare all’ombra godendo del profumo e della vista da tante finestrelle aperte in questi tunnel vegetali”.

Un altro giardino scomparso è il Giardino fatto realizzare da Clemente VII, che non esiste più perché c’è tutta l’ala dei Musei Vaticani voluta da Paolo VI negli anni Sessanta. Questo giardino affacciava su Monte Mario perché Clemente VII, che era stato il committente di Villa Madama che aveva dovuto abbandonare quando è diventato Papa, cercava l’affaccio su quella direzione. Un’altra curiosità illustrata nella Guida: nel 1561 un Pontefice rigoroso come Pio V, passato alla storia per essere il Pontefice dai costumi severissimi, impiantò intorno alla Casina di Pio IV, voluta dal suo predecessore, un Giardino botanico, in cui Michele Mercati, grandissimo botanico, scambiava fiori con Ulisse Aldrovrandi che li faceva venire addirittura dalle Indie, come allora venivano chiamate le Americhe, attraverso il re di Spagna, Filippo II.

La guida parla di tutte queste presenze incredibili delle quali in gran parte le tracce sono faticosamente leggibili, se non si conosce la storia e se non si ricostruiscono i documenti. Ma lo fa per condurre per mano il visitatore tra tanta ricchezza storica. E infatti non mancano, accanto a bellissime foto a colori, piantine e mappe per orientarsi. Al momento sono pronte 22 mila copie della Guida, che rappresenta una prima assoluta. In prospettiva c’è anche l’idea di una versione elettronica, ma non nell’immediato.  Resta da dire che la Guida appena uscita va già aggiornata con il nome del Pontefice che succede a Benedetto XVI. E’  una inaspettata circostanza che aiuta a riflettere su quanto sia viva la vita della realtà del Vaticano che troppo spesso i turisti attraversano senza la dovuta consapevolezza e preparazione sulla storia passata e forse anche sulla ricchezza dell’oggi.
Fausta Speranza

Famiglia Cristiana del 22 febbraio 2013

Lampedusa, testimone del mondo

In un libro, l’umanità che sbarca a Lampedusa
lampedusa

Migranti raccolti in mare dalla Guardia costiera all’approdo a Lampedusa (Reuters).

Un braccio si sporge nell’instabilità di un’imbarcazione squassata dalle onde e afferra quello del soccorritore, che vede cadere dalla manica cicche di sigarette. Poi è tutto una corsa a salvare più vite possibile di quei 300 tunisini e libici arrivati a Lampedusa in un giorno di febbraio 2011: qualcuno sulle imbarcazioni, qualcuno tra le onde del mare, in un sussulto tra vita e morte. Più tardi il ragazzo spiegherà: “Il mare è sacro e guai a buttarvi qualcosa dentro. E’ natura, è espressione di Allah”.

E’ uno degli episodi raccontati nel volume Lampedusa. Cronache dall’isola che non c’è, edito da Ensemble e firmato da due giornalisti, Tommaso della Longa e Laura Bastianetto, rispettivamente il portavoce e una volontaria della Croce rossa italiana. Le storie, raccontate in prima persona, intrecciano la vita di profughi di diversi Paesi dell’Africa con la vita di agenti, medici, volontari, abitanti dell’isola del Sud Italia che sembra esistere solo nelle emergenze mediatiche. Raccontano l’umanità, tra nuda cronaca e lievità letteraria. Leggi, vicende politiche e geopolitiche sono sullo sfondo: non c’è analisi ma il grido di chi è scappato da soprusi e violenze e si ritrova su una brandina a chiedere perché “Lampedusa non è la porta d’Europa che tutti dicono” e perché “qualcuno viene lasciato andare e qualcuno viene rimandato indietro”.

Leggendo prende corpo un pensiero: è doveroso velocizzare le procedure per la richiesta d’asilo. Manca la voce dei tantissimi che il mare ha trattenuto: “La cosa più triste”, dice un giovane medico, “è che nessuno conosce i loro nomi”.  Un volontario racconta lo stupore di vedersi offrire la merendina appena distribuita da un uomo soccorso poche ore prima e  descrive “lampedusani che regalano tende da campeggio, con tanto di sacco a pelo”. Un fotografo parla di “visione distorta delle cose” e di “impermeabilità ai sentimenti”. C’è la vita di una bambina, affidata dai genitori al cugino per sottrarla alla violenza cieca degli integralisti Al Shabaab in Somalia, soffocata tra le onde del mare, sommersa come tutte le speranze che solo il cuore di una madre e di un padre sanno avere. L’hanno accompagnata con il pensiero tra i passaggi via terra e sulla “carretta del mare”, che poco lontano dalla riva si è ribaltata. A raccontare, in questo caso, è un ragazzo del Darfur che l’ha vista morire.

C’è il racconto di una donna incinta che parla alla sua bambina: “Ho scelto la fuga, bambina mia, perché la Somalia non è mai stato un Paese per donne al di là della guerra civile”. La donna è confortata dal pensiero che la sua bimba nella pancia non vede il degrado di persone che, nelle lunghe ore del viaggio, fanno bisogni sullo stesso angoletto di legno. Non può capire i sussulti improvvisi: non appena si sente in lontananza il rumore di elicotteri chi ha il timone in mano lo abbandona perché “le forze dell’ordine italiane considerano scafisti quelli che guidano. Non vede “uomini presi a bastonate nella stiva appena tirano fuori la testa per respirare”.

Un volontario non dimentica il pianto dei “bambini lanciati dal barcone dai finanzieri che li staccavano dalle braccia del padre o della madre” per salvarli. Un medico grida: “Quando ho visto cinquemila tunisini buttati per terra all’addiaccio ho pensato di essere altrove: non poteva essere la mia Italia”. Un altro descrive “centinaia di persone in cerca di un riparo dal freddo: sembrano sacchi della spazzatura”. Un poliziotto racconta la dignità e il rispetto di ragazzi che vengono da una rivoluzione, giovani, forti, tanti. Potrebbero schiacciarci come fanno i piccoli piedi di un bambino dispettoso con un formicaio. Eppure sono pazienti.”

Il mare è il Mediterraneo accogliente delle gite e delle crociere turistiche, ma anche il albahr elabiad elmutawasser, mare “bianco e medio” visto dall’Africa. E dopo il mare c’è l’incognita: un uomo, interpellato di soppiatto nel centro di accoglienza dove la stampa non può entrare, dice: “Provo un terrore che non ho mai provato durante il viaggio in mare”.  C’è chi riesce solo a esprimersi con “una stretta di mano e il thanks detto con voce flebile”.

Fausta Speranza

da Famiglia Cristiana del 14 gennaio 2013

O Viveiro, un futuro per le bambine

A 20 anni dagli Accordi di pace, in un angolo del Mozambico un piccolo centro per ragazzine sfida prostituzione, fame e mancanza di acqua.

E’ nato per sottrarre orfane alla fame e alla prostituzione e ora è un punto di riferimento per la lotta all’acqua per un intero distretto. Accade in Mozambico, precisamente nel nord est del Paese africano, nella provincia di Tete. Parliamo del Centro di formazione O Viveiro, che, vicino all’agglomerato rurale di Chitima, ospita 21 bambine tra i 10 e i 15 anni.

lavagna

Le ragazze ospitate dal centro seguono lezioni di porteghese, la lingua ufficiale del Mozambico.

Accade a 20 anni da quel 4 ottobre 1992 in cui la comunità internazionale assisteva alla firma degli Accordi che mettevano fine alla guerra civile durata 15 anni.

Artefice di quegli accordi, firmati a Roma, è  stata la Comunità di Sant’Egidio. I suoi rappresentanti hanno sempre sostenuto di aver fatto una cosa semplicissima: contribuire, in collaborazione con l’Onu e il governo italiano, a far dialogare le parti in conflitto, rappresentate dal presidente di allora del Mozambico, Joaquim Chissano, capo del Frelimo, e da Afonso Dhlakama, capo del Renamo.

Il Frelimo era il movimento socialista Fronte di liberazione del Mozambico che, dopo l’indipendenza dal Portogallo nel 1975, aveva allineato il Paese all’Unione sovietica. Renamo era l’esercito di liberazione anticomunista nato negli Anni Ottanta con l’appoggio degli Stati Uniti. Gli accordi divennero operativi il 15 ottobre 1992.

Le Nazioni Unite inviarono un contingente di pace, Onumoz, con lo scopo di sorvegliare la fase di transizione alla democrazia. Il contingente lasciò il Paese nel 1995. Certamente, se la violenza si era placata, non mancavano le conseguenze pesanti che ogni conflitto lascia. Il Mozambico è grande due volte e mezzo l’Italia e ha una popolazione di meno di 24 milioni di abitanti.

Il Centro O Viveiro, che significa il Vivaio, rappresenta giorno dopo giorno una speranza sempre più consistente per tutta la popolazione del distretto di Cahora Bassa, nella zona centro sud della provincia di Tete.
O Viveiro è una Onlus senza scopo di lucro nata per iniziativa di un sacerdote mozambicano, padre Eusebio Maria Inocencio, che ha cercato di sostenere una coppia mozambicana che accoglieva nella loro casa diverse ragazze orfane di tutti e due o di uno dei genitori. In particolare Flaminia Giovanelli, attuale presidente del Centro, ha trovato sovvenzionamenti e sponsor a Roma per aiutare quella sorta di casa famiglia che così spontaneamente e semplicemente era sorta nel cuore di un distretto rurale e povero. Flaminia Giovanelli è Sottosegretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace.

La prima sfida di O Viveiro, che a maggio compirà 6 anni, è contro la prostituzione, ultima spiaggia per le donne della zona rurale e povera. La prima scommessa è combattere l’analfabetismo, che colpisce il 64% della popolazione. Il 60% non parla la lingua nazionale, il portoghese, ma solo il dialetto locale, il cinyungwé. Il 67% della popolazione del distretto non è mai andata a scuola. Solo il 10% ha portato a compimento il ciclo primario di scuola. Nessuno ha completato il ciclo secondario.

orto

L’orto di O Viveiro, coltivato dalle educatrici del centro.

Completare tutto il percorso scolastico è proprio quello che faranno le ragazze che sono ospitate ora a O Viveiro e seguite da diverse educatrici che stanno con loro a tempo pieno o part time e che si occupano anche dell’orto all’interno del centro. Al mercato locale di Chitima già si vendono alcune verdure di O Viveiro.
Non solo: le giovani seguono corsi di cucito e di cucina, in particolare per preparare conserve di frutta che possano assicurare durante i lunghi mesi secchi e aridi un’alimentazione arricchita di vitamine. E imparano nozioni basilari di assistenza sanitaria. Nella zona esiste un solo ospedale, nella cittadina di Songo, con un rapporto di meno di 3 posti letto per 1000 abitanti.
In un distretto in cui il 47% della popolazione ha meno di 14 anni e il 50% è disoccupato, l’obiettivo di O Viveiro è la formazione scolastica, professionale, umana e spirituale.
Ma su tutto incombe il problema dell’acqua. Mentre consessi internazionali lanciano l’allarme desertificazione, a Chitima la questione dell’acqua si presenta in una concretezza brutale. Proprio nei pressi di Chitima sorge O Viveiro.

Chitima è un centro rurale costituito da una serie di casupole.
L’acqua a disposizione per tutti è quella del fiume Nsanangué, fortemente inquinato e frequentato dalle persone come dagli animali. In tutto il distretto, solo il 4% della popolazione ha l’acqua canalizzata a casa.
La superficie del distretto è di 800.000 ettari, di cui la metà sarebbe utilizzabile per l’agricoltura se solo ci fosse più acqua. Al momento solo 15.000 ettari del distretto, pari al 2%, sono utilizzati per la coltivazione di cereali, noccioline, patate e frutta, che però non viene mai trasformata in marmellata o in conserva.
A ben guardare, però, Cahora Bassa non è solo il nome del distretto. L’energia del complesso HCB-Hidroelectrica de Cahora Bassa, che sta non troppo lontano dalle casupole, rifornisce lo Zimbabwe, il SudAfrica e alcune regioni del Mozambico. Dunque l’acqua ci sarebbe ma non è per la popolazione locale.
Da O Viveiro è partita una battaglia sottovoce ma convinta per chiedere un acquedotto per la zona. Il centro ha conquistato il rispetto di tutti e ha acquisito una autorevolezza tale da strappare proprio nei giorni scorsi almeno una promessa di impegno da parte delle autorità locali. L’occasione è stata il doppio anniversario: i 20 anni di pace e i 5 del centro. A O Viveiro a crescere sono piccole donne e grandi speranze.

Fausta Speranza

Famiglia Cristiana del 5 gennaio 2013

La pizza? Negli Usa è una caramella

Noi italiani storceremo un po’ il naso, ma negli Stati Uniti un’infermiera (con genitori italiani) ha brevettato delle caramelle al gusto pizza senza zuccheri, grassi e carboidrati.

caramelle
La confezione delle caramelle al gusto di pizza.

E’ una caramella al gusto di pizza ma non é uno scherzo pronto per il prossimo carnevale. E’ un prodotto nuovissimo pensato e realizzato per quanti non possono concedersi un trancio di piacere.
Accade negli Stati Uniti e questo non ci meraviglia. Forse meraviglia di più sapere che l’ideatrice ha nazionalità italiana e soprattutto che é un’infermiera.
Siamo a Palm Springs, in California. Del prodotto ancora non si parla in giro. Si parla invece nell’ospedale dove Rita presta servizio assistendo diabetici e altre persone affette da patologie alimentari o metaboliche, e anche persone semplicemente in sovrappeso.
Il prodotto é appena entrato in commercio e si chiama ‘Pizza is 4 Suckers’ ma é meglio descritto come ‘pizza candy’.

caramelle1

Le caramelle hanno l’aspetto di confetti dal colore rosso.

Lo slogan é: “It’s not only a candy is a snack”, cioé non é solo una caramella, é una merenda. Non contiene zucchero, nè sodio, nè potassio, nessuna traccia di glutine, niente grassi nè carboidrati.
La composizione ovviamente é coperta dal segreto del brevetto che appartiene a una organizzazione americana no profit che si chiama Score.
A lei é ricorsa Rita Di Carlo quando ha cercato caparbiamente di realizzare la sua idea di soddisfare in qualche modo i tantissimi che non possono mangiare quello che definisce il cibo più amato e richiesto in assoluto: la pizza. Rita é figlia di genitori italiani ma é nata negli Stati Uniti e non parla italiano.
E’ bastata una generazione per perdere la lingua ma quando glielo facciamo notare, dopo averci sorriso un po’ dispiaciuta, ci dice con orgoglio che pero’ conserva tutto l’amore per la pizza.
Ci spiega che non é stato facile avere quelle praline o lecca lecca al gusto di pizza al rosmarino. Ci parla di 100 tentativi andati a vuoto in più di due anni. Rita ha dovuto anche imparare a fare business ma questo – ci dice – è stato l’impegno minore. L’ostacolo maggiore é stata la materia prima. Questa cordialissma e solare infermiera ci racconta di alcuni chimici legati alla Università locale interpellati e coinvolti. Prima un po’ scettici, hanno poi abbracciato l’idea con passione e hanno collaborato con i medici del Regional Medical center, che Rita descrive come molto divertiti al pensiero di prestarsi anche per gli assaggi.

Chi é stato almeno una volta negli Stati Uniti non si sorprende dello strano connubio tra caramella e pizza perché mischiare i sapori é attitudine nazionale.
E poi il pensiero va ai cibi liofilizzati e in pillole per astronauti prodotti proprio da industrie a stelle e strisce. Inoltre, a sentire l’ideatrice, il bacino di persone interessate é importante tanto da giustificare un business che in America non si lascia mai sfuggire.
Ma c’é qualcosa di più. Quando stiamo per salutare Rita Di Carlo perché abbiamo saputo quasi tutto sulla pizza candy, le chiediamo una foto che pero’ gentilmente rifiuta: non vuole protagonismi personali, vuole solo foto delle sue caramelle.
Le chiediamo qualcosa di più del suo lavoro di infermiera e scopriamo che é impegnata in particolare nel moderno reparto specializzato in patologie ai reni e, dopo ancora un po’ di seria conversazione sul suo lavoro, ci racconta di aver donato 5 anni fa un rene ad un amico di infanzia. E poi ci dice: “Non posso più fare una cosa del genere ma posso regalare lo sfizio di un sapore proibito a tanti che se lo sognano la notte”. Il tempo darà il suo verdetto sulla resa del prodotto che ora ha innanzitutto il sapore della stranezza. La coraggiosa donazione di Rita e il suo desiderio di far contento qualcuno restano.
Fausta Speranza

da Famiglia Cristiana del 23 dicembre 2012

L’Europa premia i dissidenti iraniani

Il nobel per la pace Sharin Ebadi ritira il premio europeo Sacharov per conto di Nasrin Sotoudeh, ora in carcere in Iran. “L’Europa denunci chi fa affari con il regime iraniano”.

“La libertà é non dover trascurare la famiglia per il rispetto della verità e della giustizia”. E’ la convinzione di Nasrin Sotoudeh, l’iraniana che ha ricevuto il Premio Sacharov 2012, che il Parlamento Europeo assegna a quanti si distinguono nella difesa dei diritti umani. E’ avvocato, é donna e si trova nel famigerato carcere di Evin, a Teheran, per il suo impegno in tribunale accanto a studenti e donne perseguitati dalla giustizia. Da mesi é in sciopero della fame per chiedere che si allenti la pressione persecutoria su suo marito e i suoi due figli.
A ritirare il premio a Strasburgo c’é un’altra avvocato donna iraniana, la più nota Sharin Ebadi che nel 2003 ha ricevuto il Nobel per la pace e che da 4 anni é costretta a vivere all’estero. A Famiglia Cristiana la Ebadi confida: la prima verità da gridare al mondo in questo momento é che “il popolo iraniano é indignato per il supporto di inteligence e di armi che il regime islamico di Teheran sta assicurando al regime in Siria per la sua feroce repressione”. “Il popolo iraniano – afferma la premio Nobel – é cosciente del ruolo che il governo di Teheran sta giocando nell’area mediorientale per tentare di esportare il suo modello di islamizzazione politica”.

 Sharin Ebadi
L’accusa per Sotoudeh é: attentato alla sicurezza dello Stato. La stessa accusa per cui é in carcere l’altro iraniano premiato quest’anno con lei dall’Assemblea di Strasburgo. Si tratta del regista cinematografico Jafar Panahi. E’ noto agli ambienti del cinema dal 1995, anno in cui ha presentato la sua prima pellicola a festival internazionali. Ma é diventato famoso nel 2010 quando Cannes ha premiato il suo “Questo non é un film”, che racconta qualcosa della drammatica situazione in Iran ad oltre tre decenni dalla rivoluzione islamica dell’ajatollah Khomeini. Al posto di Panahi, a ritirare il riconoscimento c’é un suo collega, Kosta Gavas, che ci racconta: “Non poter fare film, per Panahi, equivale a una morte lenta”. Panahi é stato condannato a 6 anni di carcere ma anche a non realizzare nessun tipo di prodotto cinematografico per 20 anni.

Sia l’avvocato Sotoudeh sia l’artista Panahi sono stati incarcerati nel 2010, nel pieno del giro di vite del regime di Teheran che ha fatto seguito alle manifestazioni di piazza subito subito dopo le elezioni presidenziali a giugno 2009. Per settimane tantissimi giovani e tantissime donne hanno fortemente manifestato contro la rielezione di Akhmadinejad. Ma ogni protesta é finita nella dura repressione. E’ stato un anticipo di quello che avremmo visto in tanti paesi nordafricani e mediorientali con l’esplosione a partire da gennaio 2011 della cosiddetta primavera araba. In Siria alle proteste hanno fatto seguito la sanguinosa repressione e poi l’attuale drammatico irrisolto conflitto. In altri paesi, come la Tunisia e l’Egitto, é cominciata una difficilissima transizione. In altri, come il Bahrein o la Giordania, – sostiene la Ebadi – alcune rivendicazioni sono state ascoltate, altre più significative sono state come congelate.

Parliamo con la premio Nobel Shrin Ebadi qualche minuto prima che sia accolta nell’emiciclo dell’europarlamento, per rappresentare la collega Sotoudeh.

“Perché il Medio Oriente conosca la democrazia ci vuole tempo”, ci spiega la Ebadi. “Il lento processo – spiega – in alcuni paesi sembra iniziato, in altri é ancora un sogno nelle menti di alcuni”. Ci ricorda che l’Iran é al secondo posto nel mondo per il numero di giornalisti arrestati, che centinaia di studenti sono nelle carceri, che di recente oltre 50 donne sono state perseguitate dalla giustizia perché hanno osato ricorrere ai tribunali per il rispetto di loro basilari diritti. Ci ricorda che in Iran é normale che, in caso di dovuto risarcimento per la morte accidentale di una persona, si consideri il valore di un uomo doppio del valore di una donna. Poi la Ebadi ci ricorda: in Iran nel 2013 si svolgeranno le elezioni presidenziali.

La Ebadi ci spiega che, in Iran, Sotoudeh e Panahi sono personaggi conosciuti e molto stimati.

“Il popolo é con loro”, ci dice. “Il popolo – aggiunge – soffre per le sanzioni imposte dall’occidente ma sa bene che l’Europa non premia i nemici dell’Iran, come il vergognoso regime iraniano vorrebbe far credere con la sua martellante propaganda, ma piuttosto l’Europa tenta di sostenere chi lotta per la dignità umana”.

Chiediamo alla Ebadi se ha qualcosa da aggiungere a proposito delle sanzioni: ci pensa un attimo, come a voler ponderare le parole, e poi afferma lapidaria: “Ci vuole il coraggio di imporre sanzioni mirate, indicando nomi e cognomi”. L’appello rivolto all’Europa che difende i diritti umani é ancora più forte nelle parole del sostituto di Panahi: “Il parlamento europeo che premia i difensori della libertà di espressione deve denunciare con sempre maggiore forza i governi europei che fanno affari e commerci, nonostante l’embargo, con il regime iraniano”.

Fausta Speranza

Urss, la verità sui test atomici

Nel Nord Est del Kazakhstan c’è Semipalatinsk, il sito di esperimenti nucleari dell’Urss: 616 esplosioni tra il 1949 e il 1989. Ecco quel che resta.

La verità sul nucleare dell’Urss

dall-elicottero

Veduta aerea dell’area sottoposta ai test nucleari.

Da Semey (Kazakhstan) – Esattamente 20 anni fa nasceva il Centro studi che avrebbe raccontato tutta la verità sulla tragedia legata al più concentrato sito di esperimenti nucleari dell’Unione Sovietica e forse del mondo. Parliamo del sito di Semipalatinsk, nel Nord Est del Kazakhstan, dove tra il 1949 e il 1989 sono stati effettuati 456 test nucleari, comprensivi di 616 esplosioni. Per un totale di energia irradiata che, considerata nel complesso, è pari a oltre 1000 volte quella della sola bomba di Hiroshima, lanciata dagli Usa in Giappone nel 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

A Semipalatinsk il 29 agosto del 1949 è esplosa la prima bomba nucleare sovietica e il 29 novembre del 1955 è esplosa la prima bomba russa a idrogeno. Inoltre sono state provocate 175 esplosioni con materiali chimici. In alcuni casi ci sono state dispersioni di plutonio. Almeno 3 milioni di persone sono morte su questa terra. Un bambino su due è nato con malformazioni.

torretta-sito-nucleare

Quel che resta della vecchia torretta del sito nucleare.

Il territorio direttamente colpito dai test è di 3.000 km2, all’interno dei quali si individua un ulteriore epicentro denominato Opytnoye. Con linguaggio internazionale viene identificato come Experimental Field o Ground Zero. Si tratta di un’area di 300 km2 con un perimetro di 64 km2. È il cuore del dramma Semipalatinsk. Delle strutture e strumentazioni che c’erano conserva solo i resti di una torretta.

dove-inizia

Inizio dell’Experimental field

L’abbiamo sorvolato in elicottero. Le immagini girate dal finestrino, però, forse non riescono a rendere tutto il senso di desolazione e il grigiore insolito della terra. A piedi siamo giunti al punto estremo in cui permettono di arrivare con scarpe speciali che evitano almeno la contaminazione diretta dal suolo.

Nei primi anni si sono svolti soprattutto esperimenti in superficie, esattamente 116, mentre negli anni seguenti le esplosioni si sono concentrate in tunnel sotterranei, almeno 340. Il maggior numero di tunnel, 181, si sono concentrati nella montagna di Degelen e nella zona di Balapan, dove scorre il fiume Shagan, le cui acque sono un concentrato di radioattività.

Si distinguono i laghi atomici, cioè laghi formatisi subito dopo esplosioni. In conseguenza degli esperimenti nel sottosuolo, il direttore del Dipartimento Sicurezza Radiazioni, S. N. Lukashenko, ci spiega che ancora accadono smottamenti con crolli improvvisi e fuoriuscite di gas.

il-presidente-nazarbayev

Il presidente Nazarbayev alla conferenza.

Solo nel 2010 si è conclusa la fase di stoccaggio del materiale di 350 reattori che avrebbe assicurato 800 armi nucleari. Il Kazakhstan si è proclamato indipendente nel 1991. La scelta di chiudere Semipalatinks e di rinunciare, dunque, al quarto arsenale nucleare al mondo è stata immediata. Al presidente Nazarbayev è riconosciuto a livello internazionale il ruolo di leader della battaglia contro gli esperimenti e le armi nucleari. Su sua pressione, l’Onu ha istituito la Giornata internazionale per la messa al bando dei test atomici, celebrata per la prima volta il 29 agosto del 2010.

Non è data casuale: il 29 agosto del 1949 iniziavano le esplosioni a Semipalatinsk e lo stesso giorno del 1991 si è svolta la cerimonia ufficiale di chiusura del sito. Proprio il 29 agosto scorso, dunque, si è svolta ad Astana la Conferenza internazionale intitolata: Dalla messa al bando dei test a un mondo senza armi nucleari, con 175 parlamentari e rappresentanti di Ong di 60 Paesi.

jonos-gohr

Jonos Gahr, vice presidente del gruppo PNND, NuclearNon Proliferation and Disarmament.

È emerso un appello ai capi di Stato e di Governo a passare dalle parole ai fatti: esiste un Trattato di messa al bando dei test nucleari ma non viene ratificato, così come non viene rispettata la moratoria voluta dall’Onu. Nel mondo si spendono almeno 100 miliardi l’anno in armamenti nucleari. Paul Dewar, del Senato canadese, ci spiega che l’obiettivo dovrebbe essere quello di una Dichiarazione universale che possa portare a una vincolante Convenzione ma che nel frattempo, si devono creare sempre più nuclear weapons free zones.

La prima zona senza armi nucleari è nel centro Asia, frutto dell’Accordo firmato a Semey nel 2006 dalle ex Repubbliche sovietiche: Kazakhstan Kyrghizistan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Il vice presidente del gruppo internazionale conosciuto come PNND, Nuclear Non Proliferation and Disarmament, il norvegese Jonos Gahr, non ha dubbi: le prossime free nuclear weapons zones devono essere assicurate in Medio Oriente, nel Nord Est dell’Asia, nell’Artico. Gahr ha ottenuto che fosse scritto chiaramente nell’appello. Chissà quando si otterrà di averle.

ingresso-centro-studi

L’ingresso del Centro studi.

L’ospedale di Semey ha in cura il 63% dei sopravvissuti ai test nucleari: i tassi di tumori sono due volte doppi rispetto ad altrove

Nella zona adiacente al sito di esperimenti nucleari di Semipalatinsk si registrano tassi di tumori due volte doppi rispetto alla media nazionale. Oltre 600.000 persone, cioè il 93% dei sopravvissuti, sono in cura per una forma di cancro o leucemia, o per gravi disturbi respiratori o della pressione sanguigna. I livelli di radioattività sul terreno variano molto. Il presidente dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare, Khadirzanov, ci spiega che molto è dipeso dai venti al momento delle esplosioni e dalla pioggia che, se compare, aggrava di decine di volte la contaminazione.
In un complesso sono riuniti il Centro studi, l’Istituto di Ricerca scientifica Medicina radiologica e Ecologia, un Dispensario di oncologia e l’Unità di medicina radiologica dell’Università di Stato. C’è da dire che adiacente a tutto il complesso, c’è anche l’area di 32 ettari chiamata Parco Nazionale Nucleare dove c’è attività per uso civile. Il Kazakhstan, infatti, non ha affatto rinunciato al nucleare ma solo alle armi atomiche.

L’orrore di quei test

abitazione-kazakha

Tradizionale abitazione kazakha ai limiti di Experimental field.

Il sito di sperimentazione nucleare è cominciato a sorgere nella regione di Semey nel 1948, dopo un sopralluogo e un rapporto in cui si legge che si trattava di 18.000 km2 di steppa deserta. Niente di più falso: in quel territorio, che apparteneva alle regioni di Pavlodar e Karaganda, c’erano 19 distretti con villaggi abitati. Un Museo conserva la memoria di scelte disumane. Ci sono teche con organi di animali con innaturali deformità e anche con materiale umano di cui scegliamo di non parlare.

Raccontiamo, invece, dei frammenti delle strumentazioni conservati. Strumentazioni portate e installate su decisione del Comitato centrale del Partito comunista e del Consiglio dei ministri URSS, e con la supervisione dell’unità 52065 dell’esercito russo, ma sfruttando uomini presi dai Gulag.

monumento-morte

“Più forte della morte”: il monumento per le vittime dei test nucleari.

Si intitola Più forte della morte: è il monumento eretto nella città di Semey a memoria di tutte le vittime dei test nucleari sovietici nel nord est del Kazakhstan. Rappresenta una sorta di fungo con in alto il simbolo dell’atomo e in basso la statua di marmo bianco di una donna con un bambino in braccio.

kuyukov-kasipbek   Kuyukov Karipbe.

I sopravvissuti raccontano di un dramma durato 40 anni senza la consapevolezza da parte delle vittime di quello che accadeva. Kuyukov Karipbe è nato nel 1968 senza braccia e con alcuni disturbi. Ci racconta del dolore di sua madre, delle difficoltà incontrate nella vita e della scoperta della verità. Con grande dignità ci dice che vuole parlare con più giornalisti possibile del mondo: sebbene sia molto penoso, vuole contribuire a denunciare con la sua persona “uno degli orrori che l’uomo è riuscito a provocare perdendo di vista il valore della vita umana”. Ci invita a far girare la sua foto.

bambini-in-parata

Bambini in parata durante una cerimonia di commemorazione.

Partecipiamo a una solenne cerimonia di commemorazione, con giovanissimi in parata ufficiale. La gente è tanta e chiede che non solo in Kazakhstan siano sospesi gli esperimenti nucleari. Una donna ci dice: “Siamo sopravvissute alle radiazioni ma in realtà la cosa più strana è stata sopravvivere a tanto dolore”.

sultan-u-kurtoyev-vicepresidente-semipalatinsk

Sultan Kurtoyev, vicepresidente del Movimento Nevada-Semipalatinsk.

Sono tra i protagonisti del movimento che si è dato il nome di Nevada-Semipalatinsk. Sono stati i primi cioè a scendere in piazza nel 1989, nella allora capitale del Kazakhstan Almaty, per ascoltare il poeta Olzhas Suleimenov che denunciava pubblicamente gli avvenuti test nucleari. Il giorno dopo nella stessa piazza sono accorse 5000 persone. Poco prima in Nevada, negli Stati Uniti, in seguito agli esperimenti atomici voluti da Washington si erano svolte manifestazioni contro i test durante le quali 2000 persone erano state arrestate. Il vicepresidente del Movimento, Sultan U. Kartoyev, ci racconta come, nonostante la barriera della lingua, i due gruppi si siano messi in contatto e abbiano dato vita a un movimento, in virtù di “un dolore comune espresso senza troppe parole”. La storia seguente è storia di incontri e confronti e di una battaglia comune a livello civile ancora viva.   Fausta Speranz

Famiglia Cristiana in edicola l’ 11 Novembre 2012