I Mujaheddin del popolo presto fuori dalla lista nera

Gli Usa pensano di rimuovere il gruppo di dissidenti iraniani fuggiti in Iraq all’epoca della Rivoluzione dall’elenco delle organizzazioni terroristiche, come ha già fatto l’Ue. Le donne tunisine dopo la fuga di Ben Ali temono l’avanzata dell’islamismo radicale. Leggi anche Iraq: il dramma dei Mujaheddin iraniani.

(carta di Laura Canali tratta da Limes Qs 3/2007 “Iran guerra o pace”)

”C’è bisogno di rimuovere il gruppo dei Mujaheddin del popolo dalla lista nera dei terroristi e c’è bisogno di capire meglio l’opposizione iraniana”. A parlare è il generale statunitense Anthony Zinni, che è stato comandante in capo del Comando centrale Usa dal 1997 al 2000.

Un uomo di Bush, che ha legato la propria presidenza all’immagine della famigerata lista e a quella dei paesi canaglia. Il generale Zinni ammette pubblicamente errori sul caso dei dissidenti iraniani fuggiti oltre trent’anni fa dalla rivoluzione di Khomeini e rifugiatisi in Iraq.

Non è il solo: il ministro dell’Energia dal 1998 al 2001, Bill Richardson, esprime “rammarico perchè non è stato fatto prima” e il generale James Jones, consigliere fino a novembre 2010 per la Sicurezza nazionale dell’attuale presidente Obama, afferma che è tempo di seguire l’Europa, che ha riabilitato i Mujaheddin del popolo a gennaio 2009.

Dunque dopo che Bruxelles, su insistenza della Gran Bretagna, nel 2002 aveva seguito Washington nell’inserire il gruppo di dissidenti iraniani tra i terroristi, ora Washington sembra sul punto di seguire Bruxelles. Non sappiamo quando ma i tempi sembrano maturi.

A pensarla così, infatti, non sono menti isolate: nel mese di gennaio altri esponenti di spicco della vita politica e militare statunitense di questi anni hanno preso la parola a due conferenze sul tema: una si è svolta il 20 gennaio a Washington, l’altra il 25 a Bruxelles.

Soprattutto, off the record, a Washington sono in molti ad ammettere che l’amministrazione Obama, pur convinta di dover riabilitare gli Mpoi, non lo ha fatto finora perchè ha cercato di giocare fino in fondo la carta del dialogo sul nucleare e non voleva contrariare Teheran.

L’Unione Europea, forte anche di diversi pronunciamenti del Consiglio d’Europa, nel 2009 ha fatto altre considerazioni. Prima di tutto, su chi fossero i Mujaheddin del popolo. Si tratta di dissidenti iraniani che hanno trovato rifugio nel campo di Ashraf in Iraq: 34mila persone fra cui molte donne e bambini che hanno vissuto e agito contro il regime iraniano indisturbati sotto Saddam Hussein.

Al momento dell’attacco all’Iraq nel 2003 hanno accettato la smilitarizzazione, per godere della Convenzione IV di Ginevra che impone il rispetto di parti terze in aree di conflitto. Dunque dal 2003 niente armi. Poi in parallelo con il ritiro delle truppe statunitensi sono cominciati vessazioni e attacchi.

Nel debole e insicuro Iraq, giurano che la pressione degli uomini di Teheran perchè siano spinti ad abbandonare il campo è fortissima. La longa manus del regime di Khamenei sull’Iraq, così come sull’Afghanistan, non è un segreto. L’obiettivo di esportare il modello della Repubblica islamica fondata sul primato del potere religioso sul parlamento neppure.

Dovrebbe anche essere chiaro che la posta in gioco non è solo il Medio Oriente. La destabilizzazione del regime di Ben Ali in Tunisia offre una speranza di democratizzazione perfino all’ingessato Egitto, alla sofferente Algeria e all’inquietante Yemen. Ma presenta incognite. Lo sanno bene le donne a Tunisi che in questi giorni di euforia hanno manifestato cautela.

Pur non difendendo Ben Ali e i suoi, a denti stretti hanno ammesso con i giornalisti stranieri di avere paura che il fondamentalismo islamico guadagni terreno nella nuova Tunisia. Attualmente in questo paese le donne hanno pari diritti e possono vivere in perfetto stile laico occidentale. Il loro timore espresso non è da trascurare.

Mentre cambia lo scenario, dunque, sembra più importante che mai chiarire chi siano e chi no i promotori di democrazia, chi siano e chi no i difensori dei basilari diritti umani. Chi siano e chi no i terroristi a livello internazionale.
(2/02/2011)

L’Europa sarà sicura solo con una politica comune

LIMES (English version at the bottom)

di Fausta Speranza

La Conferenza di Ostenda ha ribadito che la ricerca di sofisticate e costose attrezzature per la sicurezza è vana se gli Stati dell’Ue non collaborano fra di loro, condividendo anche dati sensibili. Il caso Rom-Francia è lo specchio del deficit comunicativo fra paesi membri e Bruxelles.

(carta di Laura Canali)

Per avere più sicurezza in Europa bisogna diminuire la sicurezza a livello nazionale. Sembra un paradosso ma è la sfida che l’Unione Europea si trova di fronte: non si fa squadra contro tanti dei fattori di rischio senza abbattere alcune barriere nazionali che proteggono dati e informazioni che con la sicurezza hanno ben a che fare.

Non solo: oltre ad uno scambio vero tra Stati, bisogna lavorare per un flusso di preziosi dati tra l’ambito civile e l’ambito militare e viceversa; per capire quanto siamo lontani dall’obiettivo, basti pensare che l’UE non ha una sfera militare comune. Eppure senza fare questi salti di qualità concreti e psicologici non si potrà andare lontano. E’ quanto emerge dalla prima Conferenza sulla ricerca in tema di sicurezza che l’UE ha promosso dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.

Si tratta della quinta Conferenza di questo tipo, la prima dopo il Trattato che deve portare ad un’Unione in grado di fare una vera politica estera e della sicurezza comune. L’appuntamento annuale è stato pensato e voluto dopo l’11 settembre 2001 e dopo le bombe di Madrid del 2004.

Come in tutte le faccende europee, c’è una conquista da celebrare: da 5 anni gli Stati europei discutono insieme di tecnologie, know-how e strategie per combattere il terrorismo e la criminalità organizzata in tutte le loro forme, e per far fronte ad altre sfide decisive di questa epoca. Non è un passo avanti da poco.

E’ un impegno notevole quantificabile per il periodo 2007-2013 in 1,4 miliardi di euro da investire solo in ricerca, di solito la Cenerentola di tutte le spese. I progetti interessano trasversalmente vari soggetti, dalle industrie alle forze di polizia. Solo tra luglio scorso e dicembre prossimo sono in ballo 221,6 milioni di euro per 44 aree tematiche.

Di questi progetti si è parlato alla Conferenza 2010 che si è tenuta nella cittadina belga di Ostenda dal 21 al 24 settembre. Rilievo particolare è stato dato a quelli finalizzati a far fronte all’immigrazione clandestina lungo le coste di alcuni paesi europei. Ce ne sono alcuni che riguardano aggiornatissimi radar e strutture satellitari per l’individuazione niente affatto facile di imbarcazioni al largo.

Parliamo di un’emergenza umanitaria che tocca le isole spagnole delle Canarie, il Mediterraneo e il Mar Nero. I governi e le opinioni pubbliche di Spagna, Italia e Malta hanno denunciato finora di essere lasciati soli da Bruxelles, ma dopo questa Conferenza è ancora più chiaro che nel cuore delle istituzioni europee si moltiplicano spese, dibattiti, ricerche per migliorare i sistemi a disposizione per intercettare piccole imbarcazioni e intervenire tempestivamente.

Proprio su questo tema è emersa la necessità di condividere le informazioni: se i paesi membri non si comunicano i dati – certo abbastanza delicati – lo sforzo per la ricerca sofisticatissima di nuovi sistemi di rilevazione perde in gran parte di valore. Questo afferma chiaro e tondo a Limes il prof. Klaus Thoma, direttore del Fraunhofer Ernst-Mach-Institut, EMI, istituto di ricerca tedesco che si occupa di fisica applicata, ingegneria meccanica, tecnologia aerospaziale.

Il Prof. Thoma avverte: se le informazioni registrate non verranno scambiate tra le forze di polizia dei diversi paesi, tra forze di polizia e strutture militari, tra strutture militari e strutture civili, l’impegno sarà pressoché vano. E i singoli Stati interessati dal fenomeno migratorio continueranno a sentirsi soli.

La conferenza di Ostenda si è svolta nei giorni caldi del dibattito tra il presidente francese Sarkozy e la Commissione europea in tema di Rom, ma dell’argomento non si è parlato poichè non ci sono progetti al riguardo. E’ una questione che ha riempito i giornali di tutta Europa perchè è uno di quei temi che scaldano l’opinione pubblica. Ma se si parla di opinione pubblica e di sicurezza va ricordato che la percezione del pericolo o comunque della precarietà non sempre è direttamente proporzionale al livello di pericolosità registrato.

Poco importa: se è percepito, il pericolo è reale. E la condizione dei Rom è percepita come una questione di ordine pubblico, di sicurezza. Interessa non solo la Francia e mette ancora una volta in luce un altro deficit di comunicazione: quello tra i governi nazionali e Bruxelles. Si gioca spesso un braccio di ferro in cui l’interesse degli Stati nazionali è soprattutto quello di lanciare messaggi all’opinione pubblica, a fini elettorali.

In tema di immigrazione, nel 2008 l’UE ha licenziato la Direttiva sui rimpatri che sembrava aver chiarito i punti centrali delle dinamiche di movimento dei cittadini di Paesi terzi ma anche dei cittadini dei vari Stati membri. Ma ecco che Sarkozy manda un messaggio di estrema autonomia decidendo da solo le espulsioni o rimpatri che dir si voglia.

Di fatto Parigi non va troppo fuori dai binari europei, ma rivendica nelle modalità un proprio nazionale margine di azione. Più che preoccuparsi di comunicare con Bruxelles per operare in una linea comune, Sarkozy ha pensato esclusivamente alla comunicazione di un messaggio di forza ai propri cittadini. Con quali risultati è da analizzarsi in altre sedi.

Anche in questo caso però l’Europa non è riuscita a pronunciarsi con una voce sola su tematiche importanti relative alla sicurezza. Chissà quante altre Conferenze si dovranno tenere prima che ciò accada. Certo è che questo l’appuntamento di Ostenda ha lanciato un messaggio chiaro e semplice: se si vuole una vera politica europea comune si devono condividere molti strumenti della politica estera e della sicurezza.

ENGLISH VERSION

To have more security in Europe must reduce the national security. It seems paradoxical but the minutes is the challenge that the EU faces. You can not make team against many of the risk factors without break down some barriers that protect their own national data and information that the security situation has much to do. Not only that: in addition to a true exchange between states, we must work for a flow of valuable data between the civil and the military and vice versa. Suffice it to say that the EU has no military town to see how far we are from the target. Yet without these jumps and psychological quality concrete will not go away. And ‘what emerges from the first conference on research in the field of security that the EU has promoted the entry into force of the Treaty of Lisbon. This is the fifth such conference, but indeed the first since the Treaty should lead to a Union that can make a real common foreign and security policy. The annual event is designed and intended after the September 11, 2001 and after the Madrid bombings of 2004. As in all European affairs, there is an achievement to be considered: 5 years European states together to discuss technology, know-how and strategies to combat terrorism and organized crime in all its forms, and to meet Other key challenges of this era. It is a step forward recently. It ‘s a major commitment that is quantified in the period 2007 – 2013 to 1.4 billion euros to invest only in research, usually Cinderella of all charges. The projects are located across the industry to police. Only between July and December next wind projects to 221.6 million euros for 44 areas of research. Of these projects was discussed at the 2010 Conference which was held in the coastal town of Ostend, Belgium September 21 to 24. Among the projects, have a particular importance for coping with illegal immigration along the coasts of some European countries. There are some that relate to-date radar and satellite facilities to detect anything at all easy to boats offshore. We speak of a humanitarian emergency that affects the Spanish Canary Islands, the Mediterranean and Black Sea coastal governments and public opinion in Spain, Italy and Malta have reported so far to be left alone to face a problem not experienced in Brussels. After the Fifth Conference on Security is even more clear that in the heart of the European institutions are increasing costs, debates, research to improve all the systems available to detect small boats and timely intervention. But it is precisely this theme that has emerged the need to share information. If member countries do not report reliable data quite delicate, sophisticated research effort for a new leak detection system in much of value. And ‘what has emerged at the conference more or less indirectly by various interventions and what is stated plainly in Limes prof. Klaus Thoma, director of the Fraunhofer Ernst-Mach-Institut, EMI. It ‘s a renowned research institute in Germany which deals with a wide range of topics in the field of applied physics, mechanical engineering, aerospace technology. Prof. Thoma warns that if the information recorded with high precision will not be shared between the police forces of several countries, including police and military facilities, including military and civil structures of various countries, the commitment will be almost in vain. And the individual countries concerned will continue to feel alone.
The conference was held in Ostend during the hot days of debate between President Sarkozy of France and the European Commission with regard to Roma but Roma at the Conference on Security was not discussed: there are projects that affect them. It ‘s a question that has filled newspapers all over Europe because it is one of those themes that warm the public. But when it comes to public safety and it should be noted that the perception of danger or insecurity, however, is not always directly proportional to the threat level recorded. But no matter: if it is perceived the danger is real. And the condition of the Roma is perceived as a matter of public policy, as a matter of safety as a real issue. It affects not only France and once again puts the spotlight on a lack of communication more: that the relationship between national governments and Brussels. It often plays a confrontation in which the interest of the nation state is above all to send messages to the public, for electoral purposes. On the issue of immigration in 2008, the EU dismissed the Return Directive, which seemed to have clarified the main points of the dynamic movement of citizens of third countries but also of citizens of different States. But then, Sarkozy sent a message of extreme autonomy deciding the expulsion or return, if you prefer. In fact, Paris does not go too off the rails in the way Europeans, but claims its own national scope of action. Rather than bothering to talk to Brussels to work in a common line, Sarkozy has decided only to communicate a message of strength to their citizens. With what results is to be tested elsewhere. Ultimately it is yet another episode in which Europe has not been able to rule with one voice on important issues related to safety. Who knows how many other conferences on research on security should also be taken before it happens. It is certain that this meeting in Ostend V issued a clear message about simple: if you want a real common European policy must be shared many tools of foreign policy and security.

27 Settembre 2010

Non solo Francia: l’Europa dibatte la questione dei rom

Oggi il Consiglio d’Europa e il 20 ottobre paesi dell’Ue e varie istituzioni dibatteranno sull’integrazione di rom e sinti. Parigi non viene accusata apertamente, ma il problema delle espulsioni esiste – non solo oltralpe.


La questione dei rom continua a dividere l’Europa
, anche quella allargata ai 47 paesi del Consiglio d’Europa. L’Assemblea parlamentare paneuropea vota oggi una risoluzione in tema di discriminazioni contro le minoranze rom; dal testo è stato stralciato il riferimento diretto alla Francia.

Dunque niente dito puntato contro le espulsioni – o rimpatri che dir si voglia – attuate in proporzioni numeriche rilevanti negli ultimi mesi da Parigi. I rom e i sinti contano quasi 12 milioni di persone nel Vecchio continente e il dibattito dietro le quinte è stato tutt’altro che pacifico.

In realtà le istituzioni europee si sono date appuntamento al 20 ottobre per un pronunciamento operativo e collegiale. Il Consiglio d’Europa, che comprende anche Russia e Turchia, dopo aver incontrato i vertici dell’Ocse ha chiamato all’appello l’Unione Europea, invitando però al dibattito superallargato di Strasburgo anche i singoli governi e le organizzazioni internazionali.

In quell’occasione l’obiettivo dovrebbe essere mettere nero su bianco le priorità per migliorare il livello di integrazione dei rom, che dopo 20 anni di dichiarazioni non ha fatto passi avanti significativi. La Francia ha appoggiato l’iniziativa con la sollecita adesione del ministro degli Affari europei Lellouche.

Ma intanto Parigi ha scongiurato che l’organismo che ospita sul suo territorio puntasse direttamente il dito contro la sua politica di  rimpatri.          Con l’appoggio degli altri maggiori contributori, Italia e Germania in testa, ha ottenuto che il testo della risoluzione del Consiglio d’Europa sia l’ennesimo generico appello a evitare qualunque discriminazione dei rom e a smantellare gli stereotipi che associano i rom alla criminalità.

Il documento è stato presentato da ben tre commissioni: quella per le questioni politiche, quella per le questioni giuridiche e dei diritti umani, quella per le migrazioni e i rifugiati. Avrebbe potuto essere diverso: nella sua stesura iniziale, non avrebbe consentito un voto facile, al di là della sensibilità francese.

Se in linea di principio sono tutti d’accordo contro ogni forma di razzismo, nei fatti i paesi più coinvolti dalla presenza di rom, come Francia e Italia ma non solo, hanno parecchie riserve a mettere nero su bianco modalità di azione per una tanto sospirata integrazione degli stessi.

Più ferma nel voler inchiodare tutti i paesi a sottoscrivere il rispetto incondizionato è la Scandinavia, più lontana dai campi nomadi, anche se di recente anche Danimarca e Svezia hanno espulso dei rom.

Secondo Thomas Hammarberg, commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, sono già state tirate le orecchie alla Francia. Hammarberg non ha problemi a ribadire che «la lotta contro la criminalità nella quale la Francia si è impegnata ha preso di mira in particolare i rom originari di Romania e Bulgaria».

Peraltro Hammamberg riconosce che «la Francia non è sola: l’Italia ha arrestato ed espulso un numero notevole di rom romeni in questi ultimi anni». Il commissario ricorda il pronunciamento della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza che esprimeva preoccupazione e invitava le autorità francesi a lottare contro «gli atteggiamenti razzisti e l’ostilità della maggioranza della popolazione nei confronti della comunità rom».

In quella denuncia c’erano responsabilità precise e venivano individuate su due piani: sul piano della risposta politica con i provvedimenti voluti dal capo di Stato francese; sul piano del sentimento diffuso tra la popolazione. A questo proposito, da Strasburgo emerge un monito a 360 gradi: attenzione al crescente nazionalismo e al sempre meno strisciante estremismo.

Nella sessione di ottobre del Consiglio d’Europa due dibattiti, con rispettive raccomandazioni emanate all’unanimità, hanno lanciato l’allarme sulle preoccupanti posizioni che il Vecchio continente sta assumendo in tema di sicurezza. Si sono sentiti interventi sulla recrudescenza di «atteggiamenti fascisti dove nazionalismo significa esclusione» e più in generale sulla «tendenza galoppante all’estremismo politico o sociale».

Il filo rosso delle due dichiarazioni non è solo la paura che può essere drammaticamente montante e contagiosa ma anche e soprattutto «la possibile strumentalizzazione di casi come quelli dei rom da parte di forze estremiste».

L’Europa paladina dei diritti umani rischia, proprio in questo 2010 in cui celebra 60 anni dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di ripiegarsi e soffocare i diritti sotto il peso delle paure.

In edicola a ottobre 2010

L’offensiva iraniana in Afghanistan

Armi, spie, enti e cultura: l’offensiva iraniana in Afghanistan

Secondo Dolat Nouruzi del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, movimento di opposizione iraniano a Parigi, Teheran fomenta il terrorismo in Afghanistan. La zona di Herat è fondamentale per lo smistamento di armi e uomini dei servizi iraniani. Tra gli obiettivi osteggiare i pashtun e cacciare le forze straniere.


di Fausta Speranza

Il regime di Teheran muove parecchi fili in Afghanistan e mai come ora sta raccogliendo i frutti di una semina che è cominciata anni fa. L’Iran ha una lunga frontiera con l’Afghanistan e molti afghani sono sciiti. E’ immediato, dunque, pensare che Teheran abbia le mani in pasta nella fase di instabilità che sta vivendo l’Afghanistan. E’ evidente anche l’accresciuto interesse: più Washington è impantanata in territorio afghano e meno ha possibilità di intervenire in alcun modo in Iran.

Nutrire il terrorismo, dunque, è missione prioritaria per la Repubblica islamica iraniana. L’Iran rappresenta il corridoio per il passaggio di uomini e armamenti in Afghanistan e in Pakistan, e resta attivo nonostante l’impegno delle forze internazionali. La base di Ansar, nel nord est dell’Iran, è punto nevralgico per tutto ciò. La zona di Herat, in Afghanistan, è un crocevia di smistamento delle armi benedette dai Mullah.

E’ una regione che si distingue per la mancanza di sicurezza. Nella regione di Herat c’è Valsoali, teatro il 13 ottobre 2008 di un attentato che ha distrutto una scuola che era stata da poco ristrutturata da una squadra italiana. Tra gli obiettivi del terrorismo c’è quello di far fuori tutte le forze straniere.

Ma la strategia di ingerenza è partita da lontano e non si muove solo sul binario del terrorismo. Quando i talebani erano al potere, molti dissidenti sono stati accolti a Teheran. Quei dissidenti oggi sono funzionari del governo di Karzai o governatori di amministrazioni importanti, e sono dunque punti fermi a Kabul per il regime di Khamenei, punti di influenza politica. Oppure sono titolari di compagnie legate a enti che gestiscono i campi dell’agricoltura, delle costruzioni o della cultura in diverse città afghane. Tante di queste compagnie e di questi enti sono un’efficiente copertura per i servizi segreti iraniani o sono cassa di risonanza dei valori della Rivoluzione islamica.

Ne è sicura la responsabile degli Affari Esteri del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, signora Dolat Nouruzi. Si tratta del gruppo di opposizione al regime di Teheran che ha sede a Parigi e che raccoglie ogni primavera nella capitale francese decine di migliaia di iraniani da tutto il mondo per il raduno annuale. Dolat Nouruzi a Limes fa un esempio preciso di compagnia di copertura: la compagnia Abadgaran, che ha sede proprio ad Herat. E poi conferma che la rete di funzionari e servizi segreti iraniani è significativa anche a kabul, Badghes, Bamian, Dainki. Da questi centri i servizi iraniani controllano pressoché tutto il territorio afghano.

A livello culturale i difensori del regime di Teheran trovano terreno fertile dove è maggiore la presenza di persone di lingua farsi e di sciiti e dove è più scarsa la presenza del gruppo etnico-linguistico dei pashtun. Dal punto di vista culturale, tra le “basi” della Rivoluzione islamica ci sono Kabul, Mazar Sharif, Kandahar, Jalal Abad. Per quanto riguarda la convivenza tra sciiti e sunniti, ovviamente la lunga mano dei Mullah è impegnata a provocare e a alimentare tensioni, anche attraverso organi di stampa locali. Dunque, armi, influenza politica e propaganda sono gli ingredienti di una presenza iraniana che si sta facendo sempre più significativa in Afghanistan, teatro ogni giorno di attacchi sanguinosi e teatro dei difficilissimi passi del presidente Karzai verso il nuovo governo.

La forza speciale dei Qods, voluta dai Mullah nel 1990 come braccio armato della Rivoluzione islamica iraniana per l’esportazione del fondamentalismo, ha lavorato molto in Afghanistan, come d’altra parte ha lavorato e sta lavorando in Iraq. In generale, a Teheran gli affari afghani vengono seguiti da vicino da Said Jalili, Segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale e fidatissimo di Khamenei. Non solo, nel Ministero degli Esteri iraniano c’è una “divisione Afghanistan”, diretta da Mohammad Ebrahim Taherian, ex ambasciatore iraniano in Afghanistan, che segue il “caso” Afghanistan dal punto di vista politico. Nella Forza Qods, gli “affari afghani” vengono coordinati dal generale passdar Mussavi.

L’Iran è una Repubblica Islamica basata sull’Istituto del “Velayat-e-Faqih”, il primato del giureconsulto sciita, praticamente il ruolo assoluto del clero. Questo è il “prodotto” principale che il regime dei Mullah vorrebbe esportare in Afghanistan, come anche in Libano, in Iraq e altrove. Ma, stando alle ultime notizie da Teheran sembra proprio che l’esercito di giovani che rappresentano il 70% degli oltre 68 milioni di iraniani abbiano ora come obbiettivo di rimettere in discussione tale primato.

Mentre nelle dimostrazioni post elezioni del 12 giugno scorso, la parola d’ordine era contestare Ahmadinejad, negli ultimi video che giungono di nascosto dalle università iraniane le urla sono contro l’autorità religiosa Khamenei, che ha veramente in mano il potere del Paese. Le manifestazioni continuano nonostante le condanne a morte eseguite in piazza e quelle annunciate. E il punto è che sembra proprio che le manifestazioni stiano alzando il tiro. Secondo Dolat Nouruzi, stanno per rovesciare il regime a Teheran. Significherebbe una scossa notevole a tanti equilibri di potere nella regione mediorientale..

Israele-Usa: il braccio di ferro sui coloni e i miti da sfatare

Conversazione con David Makovsky
di Fausta Speranza

Intervista al direttore del Washington Institute’s Project on the Middle East Peace Process, uno dei più stretti consulenti di Obama sulla questione palestinese: la strategia Usa dei piccoli passi, Netanyahu, i coloni, l’Iran, il nucleare, il Pakistan.

E’ aperta la partita tra Stati Uniti e Israele sugli insediamenti, dopo il colloquio senza frutti in Europa tra il premier Netanyahu e l’inviato speciale Usa per il Medio Oriente, Mitchell. Lo stop a nuove colonie in territori palestinesi è un punto fermo della strategia di Obama per il Medio Oriente, secondo uno dei suoi più stretti consulenti: David Makovsky, direttore del Washington Institute’s Project on the Middle East Peace Process.

MAKOVSKY Obama ritiene che, perché si arrivi ad una pace tra due popoli e due Stati, non ci può essere ambiguità sul territorio. Chiede una linea di demarcazione chiara: qui c’è Israele e qui i territori palestinesi. Dunque Israele deve concretamente e prontamente smetterla con gli insediamenti. L’espansione non se la possono permettere. Ma basta anche razzi contro il territorio israeliano da Gaza.

DOMANDA Ma per Netanyahu non è facile: i coloni rappresentano un potere enorme, dalle compagnie di costruzione arrivano soldi per la campagna elettorale, in molti casi i figli di coloni si arruolano come volontari ed è difficile che accettino di partecipare a evacuazioni…

MAKOVSKY E’ vero ma con un braccio di ferro sugli insediamenti si arriverà all’impasse. Io conosco Netanyahu dagli Anni Novanta, quando ero inviato in Israele e ho lavorato anche al Jerusalem Post. Credo che il personaggio politico da allora sia cambiato. Allora era un personaggio più polarizzante, ora cerca più il consenso. E credo che in Israele le cose siano mature per dire no alle espansioni e sì a due Stati. Ma devono farlo presto e non solo a parole ma nei fatti.

DOMANDA Secondo lei, qual è la via da percorrere per il negoziato e quali le posizioni da superare? Lei nel suo ultimo libro appena edito dalla Viking Penguin parla di miti da sfatare…

MAKOVSKY Bisogna lavorare per il negoziato israelo-palestinese senza aspettare di partorire la grande idea, rinunciando alla soluzione delle soluzioni. Ci vuole maggiore umiltà per studiare meglio le dinamiche locali che non sono le stesse di alcuni anni fa e che cambiano in continuazione. Altro mito da sfatare è che la pace tra palestinesi e israeliani sia la panacea per tutti i mali del Medio Oriente. Non è vero che solo risolvendo il conflitto, che peraltro rappresenta una tragedia immane da 50 anni e che chiede drammaticamente la pace, si possa guardare alle altre problematiche della regione. In qualche modo questo falso mito blocca una seria politica regionale: essere in attesa della grande teoria risolutrice del conflitto per eccellenza è un alibi.
Inoltre, dopo la scuola dei neoconservatori che pensano di poter imporre la democrazia e la cosiddetta scuola del realismo che punta al petrolio e cerca di imporre la pace, è ora di rinunciare a imporre qualunque cosa.

DOMANDA Il presidente USA Obama è su questa lunghezza d’onda?

MAKOVSKY Sì. Credo che Obama veda chiaramente che noi non siamo sul campo, che non possiamo risolvere tutto insieme, che non c’è un’azione risolutiva da fare e sta investendo anche nei piccoli passi. Ma c’è un punto fermo: Israele deve interrompere l’espansione delle colonie.

DOMANDA Nella regione c’è anche la variabile niente affatto da poco dell’Iran…

MAKOVSKY Se l’Iran mette a punto la bomba atomica cambia tutto il quadro del Medio Oriente. Cambia il ruolo di Hamas o dei Fratelli musulmani ai quali per troppo tempo abbiamo guardato come ad un fenomeno solo egiziano. Bisogna lavorare per un accordo sul nucleare e, anche se il negoziato fallisse, gli Stati Uniti avrebbero fatto un passo in avanti: si dovrebbe prendere atto del fatto che la negoziazione non funziona.

DOMANDA Ma è possibile dare una scadenza all’Iran? Obama ha teso la mano prima della rivolta interna all’Iran e ha fatto capire di aspettare settembre per primi segnali di risposta e la fine dell’anno per segnali più concreti. Dopo i fatti interni all’Iran a seguito delle elezioni del 12 giugno, cambia la prospettiva di una deadline?

MAKOVSKY Credo di no. Il prossimo Summit del G20 a Pittsburgh marcherà già una scadenza. E poi entro dicembre è l’orizzonte che Obama si è dato. C’è da dire che l’Iran è più vulnerabile. Il popolo è più arrabbiato con il regime di quanto già fosse. E’ più difficile per la diplomazia. Se l’Iran vuole essere parte della comunità internazionale, trova davvero la porta aperta con Obama. Non credo che ci siano criteri dal punto di vista statunitense da rivedere. E’ impossibile sapere se lo scossone che ha avuto il potere in Iran provochi maggiore inflessibilità sul piano delle relazioni con l’esterno. Nessun analista può dirlo: potrebbe esserci maggiore ripiegamento o qualcosa potrebbe mettersi in moto.

DOMANDA Cosa risponderebbe alle accuse di ingerenza straniera mosse da Teheran?

MAKOVSKY E’ chiaro che gli Stati Uniti simpatizzano per quanti si oppongono a un regime o soffrono una tirannia. Ma è folle pensare che tutte le insurrezioni ai regimi nel mondo sono incoraggiate dalla Cia: è una barzelletta. Chiaramente l’Iran tenta di far originare tutte le proteste da fuori. Non dovrebbero essere sorpresi dalle ribellioni, visti i metodi usati. Credo, in ogni caso, che gli Stati Uniti abbiano messo a fuoco molto bene che l’opposizione in un Paese deve venire dall’interno e non da fuori. I diritti umani sono una priorità per Obama così come l’accordo sul nucleare, ma è consapevole che non possono essere imposti.

DOMANDA In questo momento parlando di nucleare non si può dimenticare che il Pakistan che detiene l’arma atomica è in una situazione di estrema precarietà politica e sociale. E’ drammatico quanto sta accadendo con la presa del potere di vaste zone dei talebani e la destabilizzazione di altre aree…

MAKOVSKY E’ molto pericoloso quanto sta accadendo in Pakistan! Molto pericoloso. Posso dire che gli Stati Uniti hanno messo in campo il diplomatico migliore di cui dispongono, Richard Holbrook. Holbrook sta viaggiando in continuazione tra Afghanistan, Pakistan e India. Dunque è tutta un’area da considerare.

DOMANDA Dopo alcuni mesi di presidenza, come si vede in concreto l’intenzione dichiarata di Obama di scegliere il multilateralismo?

MAKOVSKY Nella politica di Obama è evidente: con questa amministrazione gli Stati Uniti non vogliono essere soli in Iran e in Afghanistan e guardano appunto molto seriamente al G20. Tra l’altro la situazione economica impone il multilateralismo. E’ vero però che già il secondo mandato di Bush aveva visto qualcosa cambiare in questo senso.

DOMANDA Cosa è cambiato o cosa sta cambiando dalla campagna elettorale alla fase di governo del primo presidente afroamericano della storia statunitense? Già si parla di cali di consenso…

MAKOVSKY In campagna elettorale tutto può essere bianco o nero ed è bello vedere il presidente prendere posizioni chiare e nette. Obama rappresenta il nuovo e porta idee fresche su tante questioni esterne o interne ma ora è il momento di mettere insieme persone che la pensano diversamente. Quando si governa si passa dalle parole alle soluzioni concrete. Lo vediamo in questi giorni con la riforma sanitaria. Dopo i discorsi impeccabili deve riuscire ad ottenere voti per un progetto di riforma concreto.

Iraq: il dramma dei Mujaheddin iraniani

Le violenze nel campo di Ashraf

 

di Fausta Speranza

Il governo iracheno filo iraniano non protegge più i dissidenti iraniani in Iraq. Ne pagano le conseguenze i 35mila mujaheddin – considerati  terroristi dagli Usa ma non dall’Ue – a suo tempo protetti da Saddam Hussein.

Trentacinquemila iraniani racchiusi in un campo di 36 Kmq in Iraq stanno scrivendo un capitolo della storia del conflitto tra l’islamica Teheran e la laica Baghdad, nell’indifferenza della comunità internazionale. Quel campo rappresenta da sempre un termometro di quanto avviene in Iran, anche in questa lunga, strisciante, duramente repressa rivolta che non si placa.

Parliamo del campo di Ashraf, che per 30 anni ha accolto i dissidenti del regime di Teheran, legati ai Mujaheddin del Popolo, gruppo di opposizione che è stato cancellato dalla lista nera dei gruppi terroristici dell’Unione Europea lo scorso gennaio ma che è rimasto in quella degli Stati Uniti.

Si tratta di un gruppo con un altissimo tasso di laureati. Hanno goduto dello status di rifugiati sotto Saddam Hussein e della Quarta Convenzione di Ginevra dallo scoppio della guerra del 2003, in quanto popolazione non coinvolta nel conflitto e avendo consegnato alle forze internazionali tutte le armi.

Ma da gennaio scorso, dal passaggio di consegne da parte dei militari statunitensi alle forze irachene, le cose sono cambiate decisamente. Sono stati isolati per mesi e in molti giurano che, se non fosse stato per la visita di alcuni parlamentari europei, le porte del campo sarebbero rimaste bloccate con conseguenze disastrose.

Poi ad agosto diversi attacchi armati da parte dell’esercito iracheno: 11 morti, 450 feriti e 16 persone portate via senza che se ne sappia ancora nulla. Video con testimonianze agghiaccianti di violenze giungono al Consiglio Nazionale della Resistenza iraniana, l’opposizione all’estero al regime dei Mullah, che ha sede a Parigi.

Si tratta di un dramma annunciato: il regime iraniano dopo la caduta di Saddam Hussein è diventato molto influente in Iraq. Ciò ha provocato la repressione dei dissidenti iraniani.

Già prima del conflitto del 2003 – ci spiega la presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza iraniana, signora Rajavi, esibendo documenti – 32.000 iracheni erano in busta paga dei Mullah: ricevevano e continuano a ricevere lo stipendio da Teheran. Dalla Rivoluzione islamica del 1979 – spiega – il primo territorio dove “esportare” la rivoluzione è stato l’Iraq, poi entrato in guerra con l’Iran. Poi sono venuti i Fratelli musulmani in Egitto, Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina. Il progetto di “esportazione” non si è mai fermato.

L’invasione dell’Iraq nel 2003 ha riaperto i giochi e il riacutizzarsi della violenza sta facendo il resto. La presidente, signora Rajavi, lancia un appello alla comunità internazionale chiedendo che gli abitanti del campo di Ashraf non vengano uccisi e soprattutto che, se verranno rimandati come sembra in Iran, trovino l’ombrello della protezione internazionale. Il punto non è solo la difesa, pur importante, di vite umane ma – avverte la Rajavi – ad Ashraf si sta giocando una partita importantissima e si sta giocando nell’indifferenza generale.
(25/08/2009)

Iran, il vento del cambiamento

29/01/2009

di Fausta Speranza
Il People´s Mojahedin Organization of Iran (PMOI) non è più un’organizzazione terrorista per la Ue. Lo stato dell’opposizione interna iraniana. Colloquio con Maryam Rajavi, presidente eletta del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana.

I venti del cambiamento soffieranno sull’Iran”: con questa espressione la presidente eletta del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, signora Maryam Rajavi, esprime a Limes tutta la sua soddisfazione per la decisione dell’Unione Europea di rimuovere dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche il People´s Mojahedin Organization of Iran (PMOI), l’organizzazione militante di opposizione al regime dei Mullah in Iran.

A fine gennaio 2009 si ribalta, dunque, la misura voluta dalla Gran Bretagna nel 2002, dopo gli attentati in Usa dell’11 settembre. Sulla scia delle misure straordinarie contro il terrorismo era stato inserito nella lista nera anche il PMOI, fondato già nel 1965 con l’obiettivo di rovesciare l’allora regime dello Scià rifacendosi ad un Islam moderato. Oggi combatte quello che la Rajavi definisce “il regime fascista religioso dei Mullah” a Teheran ma, secondo vari pronunciamenti della Corte europea (l’ultimo il 4 dicembre 2008) “non ci sono serie e credibili giustificazioni” per parlare di atti terroristici. Chiuso il capitolo europeo, resta però la lista nera degli Usa. Maryam Rajavi, che rappresenta la rete di opposizione all’estero, parla di iscrizione “ingiustificata come non mai” e chiede al nuovo presidente USA Obama di “mettere da parte scelte di condiscendenza con i Mullah e di rimuovere il PMOI dalla lista nera”.

La Rajavi denuncia “l’uso di qualunque tipo di pressione politica e diplomatica” da parte di Teheran per mantenere il bando all’organizzazione che denuncia crimini e gravissime violazioni dei diritti umani da parte dell’attuale dirigenza iraniana. Quando parla di “politica di condiscendenza”, la Rajavi parla anche di “gretti interessi economici” da parte di tanti paesi europei, che hanno rallentato la decisione sul PMOI e soprattutto contraddicono le sanzioni imposte per le questioni del nucleare. A questo proposito, nello stesso giorno in cui l’Unione Europea accoglie i ricorsi sul PMOI, la Germania annuncia un’inversione di rotta: il governo tedesco, secondo fonti di stampa, ha ordinato uno stop alle garanzie pubbliche sui crediti concesse alle aziende che esportano in Iran. Lo ha fatto dopo l’evidenza dei fatti che segnala una crescita notevole dell’export tedesco verso l’Iran nel 2008, nonostante l’irrigidimento delle sanzioni. Tra i maggiori critici dell’aumento delle esportazioni tedesche verso l’Iran ci sono gli Stati Uniti e Israele, secondo il quale a fine novembre 2008 l’export all’Iran era cresciuto del 10,5% su base annua, fino a 3,58 miliardi di euro.

Ogni tanto torna ad alzarsi la temperatura del confronto tra Teheran e le grandi potenze mondiali del gruppo ‘5+1’ (Usa, Gran Bretagna, Cina, Russia, Francia e Germania) sul programma nucleare iraniano e ora c’è attesa per come evolveranno le cose con l’amministrazione Obama. A Bruxelles sottolineano che la porta del dialogo con Teheran ”resta sempre aperta” mentre si mette in conto l’applicazione letterale delle sanzioni previste dalla risoluzione 1803 dell’ONU. Finora Maryam Rajavi ha accusato la comunità internazionale di non saper uscire dall’alternanza tra le “carote” offerte dall’Unione Europea e il “bastone” paventato dagli Stati Uniti.

Il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana è nato nel 1981 e ha sede a Parigi. Il suo fondatore è Massud Rajavi ma per motivi di sicurezza non è dato sapere dove si trovi. Maryam Rajavi, invece, che è la presidente eletta, interviene pubblicamente seppure con alte misure di sicurezza. Annualmente riunisce a Parigi circa 7000 iraniani in esilio. Ripete che la soluzione alla crisi iraniana non è né “la politica delle concessioni al regime dei mullah, sostenuta negli ultimi due decenni dall’Occidente in generale e dall’Unione Europea in particolare, né la guerra e l’intervento militare straniero”. La terza via, secondo il CNRI, “è una svolta democratica nel paese grazie al sostegno al popolo iraniano e alla resistenza organizzata”. Si vedrà sarà la via che imboccherà Obama e se si tratterà di un’ulteriore terza via. A febbraio ci sarà la prossima riunione delle grandi potenze sul programma nucleare iraniano. Al momento il massimo esperto in tema di nucleare nell’ambito della resistenza iraniana, Alireza Jafarzadeh, che ha lasciato il suo Paese 20 anni fa ed è autore del libro “L’atomica Teheran”, ci dice che le informazioni a disposizione sugli studi sul nucleare in Iran sono quelle che provengono dall’interno del Paese proprio dall’Organizzazione dei Mujahidin del Popolo Iraniano (PMOI). A Limes ha rilasciato questa intervista:

“Il regime iraniano non intende abbandonare l’arricchimento dell’uranio o nessun’altra parte del programma nucleare e, dunque, a meno che la comunità internazionale non fermi tutto ciò, il regime iraniano è sul punto di disporre della bomba atomica.

– La comunità internazionale secondo lei conosce realmente la situazione? Esperti certamente si sono recati in Iran per fare verifiche o hanno colloqui, come questi giorni Solana, con esponenti politici iraniani, o ci sono le posizioni degli Stati Uniti, ma secondo lei dispongono di informazioni chiare e corrette sui rischi?

Io credo che il mondo sia stato nell’oscurità per quanto riguarda la realtà del programma nucleare dell’Iran. E’ stata l’opposizione iraniana che ha messo in luce tutti i più importanti siti nucleari dell’Iran, come Natanz, Arak, Isfahan, Karaj e altri siti. L’AIEA ha raccolto le informazioni dell’PMOI, si è recata in questi siti e ha svolto le sue ispezioni. Ma non tutti i siti nucleari iraniani sono stati ispezionati dall’AIEA, non tutti gli esperti nucleari sono stati interrogati dall’AIEA perchè il regime iraniano ha impedito il contatto con questi esperti. Dunque noi crediamo che la pressione della comunità internazionale debba crescere in modo significativo per pretendere la sospensione del programma di armamenti nucleari dell’Iran.

– Quanto è avanzato il programma nucleare iraniano? Che cosa esattamente possono realizzare al momento?

Io credo che il regime iraniano disponga di un avanzatissimo programma nucleare e pensando che non verranno fermati per uno, due o tre anni, allora è sicuro che avranno tutto il necessario per mettere insieme la bomba nucleare. L’orologio sta per scoccare. Non abbiamo molto tempo. La comunità internazionale dovrebbe agire molto in fretta.

– Lei dice uno, due o tre anni. A volte si sente dire meno di due anni…

Le cose si muovono molto in fretta. Esattamente nessuno può dirlo, ma anch’io confermo la possibilità di meno di due anni.

– I cinque anni di conflitto in Iraq, prima l’attacco e poi la guerra civile e poi l’attuale situazione di guerriglia, hanno aiutato il regime iraniano? Attualmente passa attraverso l’Iraq materiale utile per il regime in tema di nucleare?

La situazione in Iraq aiuta il regime iraniano nel senso che il regime di Akmadinejad interferisce in Iraq. Il punto in questo caso non è il nucleare ma la rete terroristica che l’Iran riesce a supportare in Iraq. L’Iraq sta rendendo più potente il vicino Iran. Terroristi del regime iraniano già erano presenti in Iraq e sono stati il maggiore fattore di destabilizzazione dall’inizio della guerra in Iraq nel 2003. E’ necessario fermare tutto ciò.

– Parliamo di materiale importato da paesi occidentali, paesi europei in Iran: il Consiglio nazionale della Resistenza Iraniana ha denunciato diverse volte l’ingresso di materiale non lecito secondo le convenzioni internazionali e utile a scopi nucleari, è vero?

E’ vero, l’anello di congiunzione in Iran è la Khatam ol-Anbia Construction Garrison, braccio economico del ministero della Difesa iraniano. Paesi occidentali hanno assicurato all’Iran materiali tecnologici e conoscenze utili ai fini nucleari insieme con altro materiale tecnologico. In alcuni casi lo hanno fatto con consapevolezza, in altri casi senza consapevolezza. E’ il motivo per cui noi crediamo che l’Iran, il regime, debba essere sottoposto a un embargo totale che blocchi l’accesso a qualunque forma di tecnologia. Non possiamo sapere cosa fanno con materiale che apparentemente è per computer o con altro materiale metallurgico. Finchè l’Iran ha un programma nucleare e sostiene il terrorismo, i paesi europei devono assicurargli l’embargo per il petrolio, per le armi e anche l’embargo a livello diplomatico.

– Ma è possibile oggi, nel mondo globalizzato, fermare completamente la tecnologia per un intero popolo, per un intero paese?

Sì, se prendono una decisione in tal senso, è possibile.

– E’ quello che chiedete all’Unione Europea?

L’Unione Europea ha bisogno di mettere sotto pressione il regime iraniano incrementando le sanzioni. Questo non significa colpire il popolo ma il regime. Il regime sta aumentando le entrate per il petrolio e tutti i soldi non vengono utilizzati per aiutare la popolazione ma piuttosto per sostenere la rete terroristica e per far avanzare i programmi nucleari. Ecco perchè è urgente decidere per l’embargo totale.

– Voi, opposizione all’estero, ricevete informazioni sui programmi nucleari del regime dall’opposizione interna. Ma quanto è difficile avere queste informazioni?

E’ molto difficile. La situazione è molto difficile e rischiosa. Delle persone hanno perso la loro vita per questo. Ma la resistenza è talmente forte che il regime non riesce a stroncare questa e altre attività. L’informazione continua ad arrivare anno dopo anno.

– Ci sono persone che hanno perso la vita anche di recente?

Non proprio di recente: alcuni due anni fa. La resistenza riesce sempre meglio ad avere informazioni.

– In definitiva qual è la vostra richiesta agli Stati Uniti e all’Europa?

La politica delle concessioni, basata su interessi economici di vita breve, su contratti lucrativi con i mullah, ha avuto solo conseguenze negative. L’oppressione in Iran è cresciuta, Teheran si sta dotando di armi nucleari, sta esportando il fondamentalismo nel Medio Oriente e nel mondo. L’Europa stessa è sempre più colpita da tutto ciò. La principale richiesta del Consiglio Nazionale di Resistenza Iraniana all’Europa, dopo quella ottenuta oggi di cancellare dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche i Mujahedin del Popolo Iraniano (PMOI), è di adottare le stesse sanzioni decise dagli Stati Uniti il 25 ottobre 2007. Gli Stati Uniti hanno adottato sanzioni nei confronti del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc) e della sua unità extraterritoriale, conosciuta come Qods Force; di nove altre entità affiliate all’Irgc, con i loro capi; di tre importanti banche iraniane. E’ qualcosa di importante. Ma ripeto che l’embargo sulle tecnologie dovrebbe essere totale. Agli Stati Uniti, invece, chiediamo di cancellare il PMOI dalla lista nera dei terroristi e di escludere l’attacco armato contro il nostro Paese.

 

Palestinesi in trappola

 Gaza vs Cisgiordania

di Fausta Speranza

Intervista a Jamal Zakhouta, consigliere politico del primo ministro palestinese Salam Fayyad, incontrato nel suo studio a Ramallah

Nove mesi dopo lo scontro sul campo, e due anni dopo la vittoria alle elezioni di Hamas, quali sono i contatti politici tra leader di Fatah a Ramallah e uomini di Hamas a Gaza?

Anche i politici di Ramallah che lavorano per l’unità e per il futuro del popolo palestinese sono sotto minaccia se si recano a Gaza, non soltanto per gli israeliani ma per i fratelli che controllano Gaza con la loro ideologia. Io ho fatto parte di delegazioni per incontri a Gaza, prima dell’assedio, ma in questi giorni a Gaza nessuno può uscire e nessuno può entrare.

Come è maturata, secondo lei, la frattura tra i palestinesi?

I palestinesi continuano una lotta disperata dopo 40 anni di occupazione per costruire il loro Stato e per vivere in pace vicino ad Israele. Durante l’occupazione sono stati arrestati mezzo milione di palestinesi: consideri che, compreso Gaza e Cisgiordania, sono 3 milioni e mezzo. Praticamente non ci sono adulti palestinesi che non abbiano avuto un’esperienza in carcere. Quando c’è stata l’opportunità di Oslo, i combattenti palestinesi hanno fermato le ostilità. Si lottava contro l’occupazione non per odio ma per il dovere di lottare e di fronte a una finestra di opportunità di pace noi ci impegniamo fortemente. Io sono stato un testimone di quella opportunità non soltanto come attivista politico ma come negoziatore e posso dire che, dopo 14 anni di ricerca della pace, il governo israeliano siede al tavolo dei negoziati come fosse a un match. Chi vincerà? Ai match ci sono vinti e vincitori. Io lo ripeto sempre: questo processo di pace non può concludersi con un vincitore e un vinto. O vinciamo entrambi, superando occupazione, depressione e paura, o entrambi perderemo.

Negli ultimi 7 o 8 anni, in particolare, l’establishment israeliano ha preso decisioni unilaterali, dettando le regole del gioco. Non cercano un mutuo accordo basato sulle condizioni del negoziato che prevedono la fine dell’occupazione, iniziata nel 1967. Questa è stata la ragione principale già del fallimento di Camp David, nel 1978. Il punto è che noi palestinesi dobbiamo capire come fronteggiare questa strategia senza cadere in trappola, in un vortice di violenza. Noi abbiamo il diritto di resistere all’occupazione, ma come possiamo far sì che la nostra popolazione sia in grado di affrontare questa strategia israeliana? Come possiamo rendere la resistenza efficace e nello stesso tempo accettabile per la comunità internazionale? Tutto questo ha segnato l’inizio della divisione tra palestinesi. Alcuni di noi hanno preso il fallimento di Camp David come una svolta e hanno cominciato a sviluppare la loro politica non soltanto contro Israele ma anche contro i palestinesi che continuavano a cercare la pace. Guardando a tempi più recenti, considero gli ultimi 7 anni una trappola per tutti i palestinesi pronti a sacrificare la loro vita. Il nodo è questo: a causa della sproporzione nel rapporto di forza, noi non possiamo raggiungere i nostri obiettivi. Ma noi possiamo ottenere qualcosa soltanto se lavoriamo insieme, cercando nuovi sostenitori non solo nella comunità internazionale ma anche in Israele.

Dunque è vitale ricucire la frattura tra palestinesi e ritrovare l’unità?

E’ fondamentale l’unità nazionale ma basata su quali presupposti? Non voglio unità con qualcuno che non accetta due stati, perché questa posizione non porta a niente di buono. Questa radice della divisione si manifestava già ai tempi della prima intifada, che io ho vissuto. Hamas va avanti facendo a Gaza quello che vuole. Fatah ha fatto degli errori ma Hamas ha proprio la strategia sbagliata. Quelli di Hamas smantellano il sistema giudiziario e si basano su criteri non democratici per il parlamento. Qualcuno in Hamas deve essere pragmatico e capire che uno stato islamico in Gaza è solo sotto assedio e va contro una soluzione complessiva palestinese.

Le condizioni a Gaza sono quelle di una terra sotto assedio, dove ogni giorno aumenta la disoccupazione e diventa più tragica la situazione negli ospedali. E’ stata definita un carcere a cielo aperto. In Cisgiordania nuovi insediamenti frammentano il territorio ed è sempre più difficile la mobilità.
Perché la popolazione in favore di Hamas aumenta?

La popolazione non mangia gli ideali. La vita di ogni giorno in Cisgiordania va sempre peggio. Le persone normali voglio andare a lavorare in pace. Vogliono migliorare la loro vita e non solo avere giustizia. Le persone disperate si chiedono: da che parte stare? Con Stati Uniti e Unione Europea che non fanno nulla? Oppure con l’Iran? Il risultato è stato un cambiamento di voto, un cambiamento di mappa politica palestinese. Certamente noi di Fatah dobbiamo rispettare i risultati delle elezioni ma non abbandoniamo i nostri obiettivi: anche con la vittoria di Hamas dobbiamo continuare a lavorare per due Stati. Tutti quelli che non cercano la soluzione di due Stati vogliono la vittoria di Israele.

Quale vittoria vuole Israele?

Israele continuando a costruire insediamenti in Cisgiordania non lavora per due Stati. Israele ha lasciato Gaza a Hamas, perché gli israeliani si sentono molto sicuri di fronte alla debolezza dei palestinesi, anche se i palestinesi non possono accettare meno di un ritorno ai confini che c’erano prima dell’invasione del 1967. Con la scusa di non negoziare con Hamas perché non li riconoscono, aiutano Hamas. Creare situazioni differenti a Gaza e in Cigiordania è un’opportunità d’oro per Israele per scongiurare il ritorno ai confini del 1967. Che si può fare con questa che io chiamo la “black map”? Il mondo e Israele vogliono punire Hamas ma la strategia di Israele è di distruggere lo spirito dei palestinesi, di spezzare la loro forza di andare avanti. Non è di distruggere Hamas. La strategia piuttosto è di usare Hamas. Hamas e Israele hanno interessi in comune.

Lei crede che Israele abbia supportato o stia supportando concretamente Hamas?

Se parliamo di un supporto diretto di armi, la risposta è no. Ma Israele lavora sistematicamente, con l’assedio o con altre misure, per radicalizzare la posizione dei palestinesi nella Striscia di Gaza, per esasperarli con la povertà, per dividere e indebolire tutti i palestinesi. Quello che fanno è chiudere gli occhi sulle armi che arrivano e che servono per armare fratelli contro fratelli. Molte delle armi di cui dispone Hamas anche in Cisgiordania, sono armi israeliane. Penso agli M16. Io non dico che Israele consegni queste armi ai palestinesi, ma se queste armi creano guerra civile, creano pubblicità negativa per i palestinesi nel mondo, perché non chiudere un occhio? La causa palestinese era più forte prima della seconda intifada e prima di giugno scorso. Noi siamo responsabili per questo ma c’è da chiedere perché Israele non blocca l’importazione delle armi da Rafah? Sono armi per uccidersi tra fratelli…

Si può fare la pace senza negoziare con Hamas?

Israele non ha bisogno di Hamas per fare la pace: se volesse potrebbe farla con il presidente Abu Mazen. Io condanno molto Hamas ma non si può dare a Hamas tutta la colpa del fallimento del negoziato. Il fondamentalismo islamico di Hamas si distingue da altre espressioni in altri Paesi perché si nutre di nazionalismo, ma Hamas sventola solo la bandiera del suo movimento.

Che dire della tappa di Annapolis a novembre scorso?

L’incontro di Annapolis è stato organizzato non dai palestinesi ma da Stati uniti e Unione Europea. Si tratta di documenti americani. E’ evidente che Israele non è che non rispetta i palestinesi: non rispetta la comunità internazionale. La comunità internazionale deve far rispettare le sue risoluzioni. Tanto tempo è stato perso e diventa sempre più difficile la soluzione di dueStati, a causa degli insediamenti. Da parte palestinese sono stati fatti errori, ma la strategia non è sbagliata perché noi vogliamo rispettare i patti. Io chiedo una forza di peacekeeping internazionale per difendere la road map internazionale. Quando la leadership palestinese ha accettato di recarsi ad Annapolis voleva una cosa: sedersi allo stesso tavolo degli israeliani e firmare un trattato sotto l’ala internazionale. Questo è l’unico modo per una soluzione palestinese. Noi ribadiamo il fallimento dell’unilateralismo e il fallimento di ogni soluzione militare.
La divisione tra Gaza e Cisgiordania incoraggia Israele a non mantenere nessuna promessa presa ad Annapolis, anche se la comunità internazionale appoggia Abu Mazen.

Qual è il più grave di questi impegni mancati?

Il primo impegno in base ai patti dei Trattati era di bloccare gli insediamenti dappertutto, inclusa Gerusalemme. E invece Israele continua a inviare avamposti e a costruire insediamenti. Ritornare alle linee di confine di settembre 2000 sarebbe il minimo grazie al quale le autorità palestinesi potrebbero riottenere la fiducia della popolazione, per poter lavorare a riforme economiche e politiche, per poter creare le condizioni per una vita possibile. In particolare negli ultimi due anni tutti i palestinesi che possono se ne vanno, soprattutto da Gaza. Qualunque presidente o premier palestinese, Abu Mazen o Fayyad, o qualunque buona politica si facesse, senza il coinvolgimento della comunità internazionale non si vedrebbero buoni esiti. Non c’è granché da sedersi al tavolo. Gli israeliani dichiarano ai media che dal momento che le autorità palestinesi non sono in grado di controllare la violenza, Israele non può rispettare la road map. In realtà è la politica degli insediamenti che crea insicurezza e alimenta la violenza. Israele continua con questa politica e usa questa insicurezza. E’ una politica che non soddisfa il bisogno di sicurezza degli israeliani. Ci vorrebbe l’invio di una forza internazionale per un periodo per assicurare la sicurezza sul territorio. Questo sarebbe l’unico modo per garantire entrambi. Quattro settimane fa ho incontrato in Gaza il principale advisor di Hamas, Mahamed Yussef, e lui ha detto solo due parole: resistenza e rockets, cioè razzi contro Israele. Tre settimane dopo la stessa persona ha annunciato di fermare i rockets perché sono una scusa per Israele. Si discute se Hamas prende potere e se Fatah è debole, ma non è questo il punto: il punto è essere uniti. Essere veramente uniti e non solo cercare compromessi. Il mondo chiede a Hamas di rispettare le richieste di Israele ma nessuno sta chiedendo il rispetto dei diritti umani dei palestinesi. Palestinesi muoiono sotto interrogatorio in Cisgiordania o soffrono a Gaza le angherie dei poliziotti, ma se una persona è toccata a Sderot si fa la rivoluzione. E’ tempo di preoccuparsi della sicurezza di ogni palestinese, da proteggere non solo dagli israeliani ma anche da altri palestinesi, che siano spinti ufficialmente o siano cani sciolti. Bisogna intervenire sul campo.

Secondo lei, si fanno breccia tra la popolazione israeliana perplessità o dubbi sulla politica dei loro leader che lei illustra?

Ci sono spazi di dissenso ma sono sempre meno. La maggior parte degli israeliani vorrebbe vivere in pace, ma ci sono dei ma. C’è una contraddizione ad esempio in alcune dichiarazioni della popolazione: mentre ogni sondaggio dice che il 60-75% della popolazione è a favore del processo di pace basato sulla soluzione di sue stati, la stessa percentuale giustifica e sostiene la soluzione militare. In questa fase in particolare, c’è un modo di pensare molto pericoloso: la gente non vuole sapere cosa accade oltre il muro, è cieca e non si interessa. Questo rappresenta un pericolo non solo per noi palestinesi ma anche per gli israeliani.

Che ne dice del ruolo che giocano i Paesi arabi per una soluzione complessiva palestinese?

Qualcuno offre soldi e sostegno ma sono divisi e deboli. La Siria supporta Hamas.

A 4 anni dalla morte di Yasser Arafat, come lo ricorda?

Ho motivi di critiche, ma ricordo il più grande successo di Arafat: è riuscito a mantenere uniti i palestinesi ed è riuscito a portare avanti la questione palestinese evitando interferenze di altri paesi. Ha lasciato fuori Iran e Siria.

Commenti di alcuni lettori

inviato da Gianni il 06 aprile 2008 alle 12:27

Complimenti per l’intervista. Grazie per farci capire, in questi tempi pieni di facili slogan, la complessità della situazione palestinese in modo chiaro, equilibrato ed essenziale.

inviato da Roberta il 04 aprile 2008 alle 12:34

“O vinciamo entrambi, superando occupazione, depressione e paura, o entrambi perderemo”: mi sembra davvero questa la premessa da cui partire per ricucire la frattura palestinese. Un’intervista-testimonianza estremamente lucida e interessante. Complimenti!

inviato da Roberto il 01 aprile 2008 alle 21:17

Un’ottima intervista. Su queste premesse il conflitto israelo-palestinese è destinato ancora a durare moltissimi anni, sicuramente ancora decenni.

inviato da Luigi il 01 aprile 2008 alle 14:19

Faccio i complimenti al giornale e alla giornalista per la chiarezza dell’articolo su un tema molto difficile. E’ raro trovare su questo argomento equilibrio e competenza.

inviato da Agatoni Luca il 01 aprile 2008 alle 16:43

Mi unisco al giudizio di Luigi: l’intervista tocca con ottima lucidità tutti i punti principali dell’attuale situazione. Israele non vuole la pace e usa scuse ridicole per legittimare sul campo la politica del ‘fatto compiuto’. Molto razionale anche il giudizio su Hamas, che ha gravi responsabilità, ma non la totale colpa del fallimento della politica palestinese degli ultimi anni. Condivido anche il fatto che i palestinesi non debbano MAI abbandonare la lotta e la resistenza, ma trovo al contempo necessario che si torni ad avere un fronte comune e unito. Arafat ha commesso errori imperdonabili – in particolare chiedendo al suo popolo immani sacrifici senza poi aver ottenuto niente di concreto – ma, come si afferma alla fine dell’articolo, ha cmq avuto il merito di tenere i palestinesi uniti e di fare in modo che i vicini arabi non si intromettessero più del dovuto in una questione che rimane – e deve rimanere – una questione nazionale del popolo palestinese. E di nessun altro. Ancora complimenti per il vostro lavoro, tanto il cartaceo quanto questo sito!

Un altro Iran è possibile

2 Gennaio 2008

 di Fausta Speranza

Conversazione con Maryam Rajavi, presidente del Consiglio nazionale della resistenza iraniana. Le differenze fra Iran e Iraq. C’è un’alternativa alla politica delle concessioni e all’intervento militare: la svolta democratica. Scenari di un Iran post-mullah.

Aziende italiane e olandesi sono per il regime iraniano “persone molto amiche per il trasferimento di materiali proibiti in Iran”. E’ una delle denunce provenienti dalla resistenza al regime dei mullah, presentate l’8 novembre 2007 ai parlamentari britannici negli uffici di Westminster a Londra. L’iniziativa è del Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Cnri), e si basa su un presunto documento riservato del regime di Ahmadi-Nejad che sarebbe stato segretamente portato all’estero da una fonte della resistenza stessa. A sostenerlo è il responsabile per le relazioni esterne del Cnri a Londra, Hossein Habedini, che fa nomi e cognomi: le italiane Troy e Tesco, le olandesi Royal Boskalis e Royal Haskonig, la cinese Zmpc. L’anello di congiunzione in Iran sarebbe la Khatam ol-Anbia Construction Garrison, braccio economico del ministero della Difesa.

La principale richiesta del Cnri all’Europa è di adottare le stesse sanzioni decise dagli Stati Uniti il 25 ottobre scorso e cancellare dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche i Mujahidin del popolo iraniano (Pmoi), nucleo di resistenza che opera sul campo in Iran. Gli Stati Uniti hanno sanzionato il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc) e la sua unità extraterritoriale, conosciuta come Qods Force; nove altre entità affiliate all’Irgc, con i loro capi; tre importanti banche iraniane.
Il Cnri è stato creato nel 1981 e ha sede a Parigi e Londra. Il suo fondatore è Massud Rajavi. Per motivi di sicurezza non è dato sapere dove si trovi. La presidente è una donna, Maryam Rajavi, che Limes ha intervistato.

LIMES E’ favorevole a un attacco militare americano all’Iran?

RAJAVI La soluzione alla crisi iraniana non è né la politica delle concessioni al regime dei mullah, sostenuta negli ultimi due decenni dall’Occidente in generale e dall’Unione Europea in particolare, né la guerra e l’intervento militare straniero. Come ho detto anche al Parlamento europeo e al Consiglio d’Europa, esiste una terza opzione, l’unica percorribile: una svolta democratica nel paese grazie al sostegno al popolo iraniano e alla resistenza organizzata. La politica delle concessioni, basata su interessi economici di vita breve, su contratti lucrativi con i mullah, ha avuto dirette e terribili conseguenze: ha esasperato l’oppressione in Iran, ha spinto Teheran a cercare di dotarsi di armi nucleari, all’esportazione del fondamentalismo nel Medio Oriente e nel mondo, al punto di coinvolgere l’Europa stessa.

LIMES E’ possibile che la guerra rafforzi il potere di Ahmadi-Nejad?

RAJAVI Questa idea è frutto della propaganda del regime, interessato alla continuazione della politica delle concessioni. Un regime estremamente isolato e disprezzato all’interno dell’Iran. Solo l’estate scorsa abbiamo assistito a più di tremila manifestazioni o atti di protesta antigovernativi su tutto il territorio. Malgrado brutali repressioni e ripetuti arresti, studenti universitari hanno proseguito per parecchie settimane le loro dimostrazioni. Il 25 e il 26 giugno, nelle proteste per i razionamenti del gas, a Teheran e in molte altre città ci sono state rivolte di giovani e di gente comune. Secondo i funzionari del regime, un terzo degli impianti di gas del paese è stato danneggiato dalla resistenza popolare. La situazione è così esplosiva che negli ultimi mesi diversi giovani sono stati impiccati alle gru nelle piazze principali per spargere il terrore. In questa situazione il tallone di Achille del regime è il popolo iraniano e il suo movimento organizzato di resistenza: su questo bisogna contare. Far credere che rifiutare la politica delle concessioni sia uguale ad essere d’accordo con la guerra degli stranieri contro l’Iran è parte della propaganda dei mullah.

LIMES Che cosa pensa succederà in Iran in caso di attacco americano?

RAJAVI Non possiamo ragionare su situazioni ipotetiche. E’ cruciale evitare che si arrivi a quel punto. La realtà è che nel 2005 Khamenei ha nominato Ahmadi-Nejad presidente del regime islamico e che tale regime ha dichiarato guerra al popolo iraniano e alla comunità internazionale. Da allora, i pasdaran, braccio operativo dei mullah, hanno preso il controllo degli organi chiave del regime. Un controllo che diventa sempre più serrato. Oltre al presidente stesso e al primo vicepresidente, vengono dal bacino dei Guardiani della rivoluzione più di venti membri del gabinetto di Ahmadi-Nejad, dieci governatori di provincia, il capo e sei membri del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, i capi della radio e della televisione di Stato, il 70% dei viceministri, 25mila funzionari di medio livello del governo e 80 parlamentari. Allo stesso tempo, i Guardiani della rivoluzione hanno preso il controllo dell’economia iraniana. Controllano petrolio e gas, ma anche il 30% delle esportazioni non energetiche e il 57% delle importazioni. Fa tutto parte del consolidamento del fascismo religioso che governa il nostro paese da due anni. Di qui anche il tentativo di ottenere armi nucleari, oltre a quello di controllare l’Iraq. Il punto è quale reazione può essere appropriata da parte dell’Occidente. Finora la risposta è stata inadeguata e il tempo corre in fretta.

LIMES L’Iran può diventare come l’Iraq?

RAJAVI L’Iran è molto differente dall’Iraq. E’ vero che il nostro paese sta sviluppando il nucleare: secondo le nostre informazioni fra due anni disporrà di armi nucleari. E’ inconfutabile che il regime si stia intromettendo in Iraq: sappiamo per certo che in un’area della provincia irachena di Maysan uomini del regime iraniano addestrano gli iracheni all’uso di armi e materiale esplosivo. C’è una zona nei pressi di Teheran dove ci sono tre aziende che producono mine da strada per l’Iraq. Ben 32mila iracheni sono sulla busta paga del regime iraniano.
Ma in Iran -a differenza dell’Iraq di Saddam- c’è un’alternativa al regime ben visibile: è il Consiglio nazionale della resistenza iraniana. Una coalizione di forze democratiche che si oppongono al regime, con uno specifico programma per il futuro del paese. Il Cnri agisce come un Parlamento in esilio e include un vasto spettro di forze collettive e individuali, inclusi esponenti di varie minoranze etniche e religiose. E’ pronto, dopo la caduta dei mullah, a guidare il paese con metodi democratici, restando in carica sei mesi per poi lasciare il campo a un governo eletto dal popolo.
L’organizzazione dei Mujahidin del popolo gode di largo consenso all’interno dell’Iran. La stragrande maggioranza delle 120mila persone perseguitate dal regime perché sostenevano la causa dei diritti umani e della democrazia negli ultimi 25 anni appartiene a questa organizzazione. In occasione del più grande raduno della resistenza, svoltosi a Parigi il 30 giugno scorso, abbiamo contato più di 50mila partecipanti.
Dunque, ci sono tutti gli elementi per arrivare ad una svolta democratica. Ma l’Occidente deve adottare una politica ferma e decisa nei confronti dell’Iran. Deve imporre immediate e estese sanzioni su armi, tecnologie, petrolio, commercio, diplomazia. Deve rimuovere i Mujahidin del popolo dalla lista delle organizzazioni terroristiche, come hanno fatto il 25 ottobre scorso gli Stati Uniti e – torno a ripetere – assicurare sostegno morale e logistico alla resistenza iraniana.
I paesi europei, compresa l’Italia, non hanno ancora abbandonato la politica delle concessioni. Continuarla significa preparare il terreno ad una catastrofe. E’ tempo di svegliarsi e guardare in faccia questa realtà.

LIMES In caso di conflitto, l’Iran potrebbe dividersi su basi etniche?

RAJAVI In Iran la linea di demarcazione non è basata sulle divisioni etniche. Il punto è l’accettazione o meno del regime dei mullah. La stragrande maggioranza degli iraniani concorda sul fatto che la legge clericale e il fascismo religioso devono essere abbattuti e sostituiti con la democrazia e con uno Stato di diritto. Questo è esattamente ciò che il Cnri persegue. Ricordiamo che nel Consiglio sono rappresentate varie minoranze, inclusi azeri, curdi, arabi e altri.

LIMES Come immagina il suo paese dopo la caduta dei mullah?

RAJAVI Innanzitutto con un governo provvisorio che getti le basi per libere elezioni e un’assemblea costituente in sei mesi. Il voto popolare sarà l’unico arbitro. Io vedo un nuovo Iran, una società libera e avanzata, in cui saranno aboliti la pena di morte, i tribunali reazionari, le pene medievali, in cui ci sarà un governo basato sulla separazione tra religione e Stato. Finirà l’èra delle esecuzioni e delle torture, della discriminazione contro diverse fedi, finirà l’imposizione del velo e l’intrusione dello Stato nella vita privata dei cittadini; finirà l’èra dell’asservimento e dell’oppressione delle donne. Le donne devono ottenere l’uguaglianza rispetto agli uomini in tutti gli ambiti della legge. Posso dire che nel Consiglio della resistenza oltre la metà siamo donne. Sarà un paese in cui i giovani non saranno più umiliati nelle loro energie e creatività ma saranno arbitri del loro destino. Con tanto talento e tante potenzialità, il popolo iraniano non soffrirà più di povertà, fame e privazioni.

Londongrad

PDFStampa
Limes N. 6 2006

Vodga, caviale e affari all’ombra del Big Ben

di Fausta Speranza da Londra

Non è ancora ‘Londongrad’ ma la terza piazza borsistica al mondo parla sempre di più russo. Le case acquistate da ex oligarchi sono tra le più lussuose, compresa la residenza al numero 15 di Kensington Palace Gardens, accanto al palazzo numero due di Londra dopo Buckingham. A chi ha negli occhi la dimensione di bellezza e di esclusività del luogo è dato di capire di più la portata, anche simbolica, dell’acquisto. E di simbolico ci sarebbe anche che il vicino di casa è il principe Michael di Kent, noto in Russia per la sua somiglianza con lo zar Nicola II. Di molto concreto c’è il prezzo: 41 milioni di pound, cioè 105 milioni di dollari. E se il pensiero va a Abramovic, il famoso magnate russo proprietario del Chelsea Fooball Club, si deve correggere. C’è qualcuno che ha battuto la sua offerta, sempre con accento russo. Si chiama Leonard Blavatnik e testimonia, non da solo, che Abramovic, che ha 40 anni, rappresenta un fenomeno particolare ma non un’eccezione assoluta. Dietro la sua smisurata ricchezza ci sono altri, da meno ma non per molto. Approfondiremo questi nomi senza dimenticare il 58enne Boris Berezovsky, che dal Regno Unito ha ottenuto asilo politico e cittadinanza cambiando il nome in Platon Yelenin, ma che spesso si muove con passaporto israeliano.
Cercando una qualche indicazione della presenza russa, dall’Ambasciata di Mosca a Londra ci si sente dire che non c’è statistica neanche per quanto riguarda gli ingressi in Gran Bretagna. Il numero di permessi rilasciati risulta all’Ambasciata britannica a Mosca: 11.130 visti nei primi otto mesi del 2006, che segnano un incremento rispetto al 2004 del 40%. Va da sé che la cifra è sottostimata, ci spiegano, perchè mancano i clandestini. Attualmente sembra siano 70.000 i russi a Londra. Due anni fa, erano 40.000. C’è poi un dato che fotografa giovani e, quindi, di per sé proiettato al futuro: quest’anno sono 85 gli studenti russi alla London Economics and Political Sciences e, facendo il confronto ancora con due anni fa, si sfiora davvero il raddoppio. Erano infatti 44. Guardando invece alle cifre monetarie, ovviamente non ci sono statistiche. Si è parlato di più di 100 miliardi di dollari che hanno lasciato la Russia tra il 1998 e il 2004 per raggiungere, la maggior parte, conti offshore in Svizzera o altrove. Da lì è impossibile seguirne le tracce, ma non si possono dimenticare i vantaggi che la Gran Bretagna offre in tema
di tassazione a persone con conti offshore. Inoltre, nei soli primi sei mesi del 2005, compagnie russe hanno registrato 2,5 miliardi di dollari nella City.
In ogni caso, se non è dato sapere quanti soldi sono arrivati a Londra dalla Russia, si fotografano altri elementi che si traducono in soldi che girano. Ogni grande banca ha un impiegato che parla russo. Harvey Nichols, cugino più giovane di Harrods, ha diversi assistenti madrelingua. Ogni negozio a livello di firme, come Fendi, ha un commesso in grado di capire e orientare i gusti delle signore russe. Robert Bailey, della Robert Bailey Property, agenzia specializzata in case di lusso, assicura che “c’è una grande richiesta da parte di russi”. A contendere il primato dei costi, e anche l’attenzione dei russi, sono gli appartamenti in costruzione a Knightsbridge, che vantano misure di sicurezza da record.  Il progetto è stato approvato a febbraio 2006 dalle autorità:  prevede 86 appartamenti al prezzo di 20 milioni di pound l’una ed è una produzione dei giovani fratelli Nick e Christian Candy, designer e progettisti che vivono nel più costoso appartamento di Londra, 27 milioni di pound. Saranno dotati di ascensori con accesso direttamente a Hyde Park, sistemi biometrici che riconoscono l’iride, telecamere a prova di proiettili e altre sofisticatissime misure di sicurezza.  Viene in mente che Berezovisky ha ottenuto la cittadinanza dichiarando di essere in pericolo di vita in patria. Ma certamente non mancano seri motivi per difendersi a nessun miliardario o milionario.
Nel caso di altre due esclusive agenzie immobiliari, Savills Estate Agency e Harrods Estate, si parla di case e proprietà. Della Savills, basta dire che è leader del settore, della Harrods Estate, che ha due uffici: uno a Knightsbridge, che si occupa delle vendite a Chelsea, Belgravia, Knightsbridge e South Kensington,  e uno a Mayfair, che copre Regents Park, St James. Sono le zone di Londra più belle in assoluto e quelle che contano di più. Ed è significativo che entrambe le agenzie abbiano un desk per la clientela russa. Abbiamo provato a chiedere a Alexandra Lovel, riferimento per la prima, e a Tatiana Beker, riferimento per la seconda, qualche statistica di vendita ma il rispetto della privacy del cliente è assoluto. Si conferma la percezione di una presenza al top.
Passeggiando presso Gloucester Road o entrando in uno dei Pub di livello a
Tower Hill, non siamo più sul piano dei miliardari ma di operatori di borsa, agenti di cambio e assicuratori. All’Emperor Pub alcune sere senti parlare più russo che inglese. Ci spiegano che parecchi nightclub fanno venire da Mosca i DJ. Al Bar Aquarium in Old Street la notte si fa proprio russa: bande in costumi tipici, donne biondi e forti che danzano con seduzione. E’ tenuto da Andrei Lomin, che ci tiene a mettere sul piatto della conversazione la sua laurea in Oceanologia prima di altro, e da sua moglie Sonia, che fa la modella. E’ lì che ci siamo sentiti spiegare che un russo si sente accolto e amato dagli inglesi, perché si tratta di due grandi popoli, per poi sentir dire, quasi en passant, che il russo si distingue sempre per un eccezionale binomio di forza e cultura. E’ un businessman che, con l’aria di riaffermare quanto sostiene spesso,  spiega orgoglioso che un uomo russo può costruire una casa dalle fondamenta e citare Dostojevski. Per poi aggiungere, dopo una pausa, che in Inghilterra gli uomini devono chiamare un idraulico per una goccia d’acqua. Analoga sensazione vicina ad un’allucinazione da colbacchi puoi averla il giovedì sera a Vauxhall Station, ma la frequentazione scende ulteriormente di livello. Siamo su un piano difficile da definire perché si ostentano più o meno soldi ma in modi che a volte  tradiscono uno scarso livello culturale.
Questi sono angoli che si scoprono osservando  bene una città come Londra dove si parlano 300 lingue e dove  la multiculturalità è stata sperimentata prima che teorizzata. Ci sono, cioè, isole di città dove in certi momenti viene voglia di caviale e dove girano giornali e magazine russi, ma una città così inglese e così plurietnica come la città di Blackfriars e di Piccadilly Circus può anche contenere tutto ciò senza che il turista più curioso o il giornalista attento se ne accorgano a prima vista. Non può certo colpire più di tanto sapere che Trafalgar Square  ha ospitato a gennaio 2006 il secondo Festival invernale russo, perché vengono in mente manifestazioni di ogni genere.
Il punto è che, pur sapendo che ci sono almeno 7 pubblicazioni che escono a Londra in russo, è ben difficile trovarle. Hai molte chance se partecipi ad uno dei
possibili ritrovi. Già ne hai meno se frequenti uno dei ristoranti che si stanno moltiplicando all’ombra di Caviar House, o se fai acquisti in uno dei circa 40 negozi di
prodotti alimentari tipici russi. La Russian Media House, che può essere un punto di riferimento, non ha alcuna insegna esterna e neanche una scritta che la identifichi sul citofono. Ma se arrivi ad avere tra le mani  una delle patinate riviste, il target pubblicitario è ben definito e inequivocabile: una clientela di ben alto livello. Harrods viene menzionato solo per l’area dedicata ai gioielli e ti scopri a pensare che in effetti è un grande magazzino appena più folcloristico di altri, se ti fai una passeggiata cercando gli altri negozi citati nella rivista e concentrati nelle zone più ‘in’. L’universo acquisti comincia a Jermyn Street, strada di alta sartoria. Non mancano gli indirizzi precisi di tutte le firme a livello mondiale in tema di abiti, e di inglese c’è l’atelier delle costose e stravaganti creazioni di Scarlet Ribbon a Conduit Street. Per i cappelli l’indicazione è per Lock and Company in St. James Street. Un’altra strada che compare più volte è Pall Mall, la strada dei tradizionali elitari club inglesi. A proposito di club, per il golf è pubblicizzato il Stoke Park Club, che lasciamo all’immaginazione del lettore. Per un parrucchiere il suggerimento è ancora una volta a knightsbridge. Insomma è solo di questo tenore, visto che non ci sono cadute di livello,  quello che interessa  trovare alla maggioranza di russi presenti a Londra, se le riviste si focalizzano su questo. D’altra parte, la Exclusive London from Russia Media House, pubblicata in formato quaderno, si presenta subito in copertina con il logo rappresentato da un grande diamante, che traduce per l’immaginario il termine “exclusive”.
Se tutto ciò non è esattamente evidente al primo impatto, anche perché la clientela giapponese fa la sua parte nello svaligiare le gioiellerie di Bond Street, diverso è il punto di vista di uomini d’affari, commercianti  e soprattutto di consulenti finanziari. Loro sono ben consapevoli di questa clientela russa e stanno gestendo il tutto come una grande, scrupolosa “industria di soldi”. L’espressione è del legale Joe McDonald.  E come tale deve vederla  anche l’occhio politico, se un esponente come Gordon Brown fa trapelare di avere dei dubbi su qualche aspetto del fenomeno per poi bloccarsi. E sembra di capire che a fermarlo siano state le cifre spese da russi. Abbiamo già capito che i turisti spendono
come gli americani ma poi ci sono anche i più o meno residenti che, oltre a comprare intoccabili proprietà e a consumare in ristoranti d’elite, assicurano i salari a tutti i dipendenti, dal cuoco all’autista al traduttore. Tutto può servire: quando, a gennaio scorso, Abramovic ha avuto un infortunio al menisco ha prenotato un ricovero al Wellington Hospital pagando 700 pound a notte. Sono comodità obbligate per  chi può permettersi di vivere, o soggiornare, a un passo dai monumenti storici  della città con  un mercato immobiliare più costoso di New York. C’è anche chi “consuma” di passaggio, come Oleg Deripaska, uno dei dieci miliardari russi che almeno per un lungo periodo ha fatto tappa a Londra tutte le settimane, dichiarando di voler migliorare il suo inglese. Neanche a dirlo ha un punto di appoggio in una casa a Belgravia. Dove ne ha una  anche Abramovic. A Chelsea, invece,  ha comprato casa Berezovsky, mentre ha scelto Mayfair  Alexandre Gaydamak, il trentenne che a gennaio scorso ha fatto un’offerta impossibile da rifiutare per acquistare la metà del Portsmouth Football Club, anche se non è chiaro se rientri nei 36 miliardari russi o se apra la lista dei milionari.
Stiamo parlando di ex oligarchi che hanno fatto fortuna dai tempi delle liberalizzazioni selvagge di Eltsin e di nuovi ricchi russi. Nel 2003 il quasi sconosciuto  Abramovic arriva alla ribalta delle cronache  con l’assegno di 300 milioni di dollari con cui acquista il Chelsea Football Club. E’ evidente che dalla Piazza Rossa già si guardava a Westminster quando, due anni fa, il più ricco di tutti, Khodorkovsky,  è stato condannato, con la sua Yukos, per frode ed evasione fiscale e poi inviato in Siberia. Una mossa partita dal Cremlino dopo anni di espansione economica del miliardario ma solo dopo pochissimo tempo dal suo serio interessamento alla politica. Qualcosa di diverso dall’impegno di governatore della regione Chukotka assunto tempo fa per due anni da Abramovic. In ogni caso, dalla caduta di  Khodorkovsky in molti hanno pensato di navigare nel Tamigi. Nel 2005 Abramovic,  che deve sostanzialmente la sua fortuna al petrolio, ha venduto al governo russo per 7,4 miliardi di pound la Compagnia petrolifera Sibneft che aveva acquistato per poco meno di 100 milioni di pound insieme con Berezovisky. E, parlando di Abramovic, si deve ricordare che nel 2001 la polizia russa aveva aperto un’indagine contro la sua
Sibneft per un’evasione fiscale di circa 450 milioni di dollari, ma il caso è stato chiuso senza    procedimenti.

Va detto perché scelgono Londra, lasciando da parte il fascino e la vivibilità di una città fatta di tanti “villaggi” e di tante facce ma capace di un abbraccio particolare. Le ragioni vere stanno nell’essere un forte mercato di capitali molto vicino a Mosca, solo 4 ore di volo che in jet privati si riducono a tre, e poi ci sono il sistema fiscale favorevole e il sistema giudiziario che ben protegge gli investitori. Non è una novità che gli investimenti in Gran Bretagna sono largamente incentivati dal governo,  che gli investitori stranieri godono  dello stesso  trattamento dei locali e che soldi provenienti da conti offshore non sono indagati. Se provengono da affari non leciti non è un problema del Regno Unito dove arrivano.
Il commercialista di alto livello Humphrey Creed ribadisce, dal suo studio a Salisbury Square, che l’apertura assoluta agli investimenti è una scelta politica.  In testa tra gli investitori ci sono gli Stati Uniti, seguiti dall’India. La Russia – ci dice – non saprebbe collocarla. Del sistema inglese, Creed dice  che “si tratta delle tasse più basse rispetto al resto del mondo”. Ci ricorda la filosofia che ci sta dietro: “Tassare meno più persone porta più soldi che tassare di più meno persone, anche perché comporta meno evasione”. Sulla dimensione della clientela russa dei commercialisti, Creed non si sbilancia ma ammette che quasi tutti i più noti si avvalgono di personale che parla la lingua. Lui sembra fare eccezione ma poi spiega che il suo gruppo ha una partnership con una compagnia in Russia. Dunque la consulenza sembra essere a monte, piuttosto che a valle.
Il punto è che ci sono soldi che vengono spesi a Londra ma che in Gran Bretagna non sembrano arrivare. In realtà,  guadagni realizzati all’estero non sono tassabili ma lo diventano se entrano nel Paese, ad esempio con un acquisto. I conti offshore non sono un fenomeno russo-britannico ma ce ne occupiamo perché cerchiamo di capire se i ricchi russi, che continuano ad arrivare, pagano tasse a sua Maestà. E se questo può essere un bel motivo in più per amare il Big Ben. Va ricordato che chi è domiciliato in Russia, nel Regno Unito  può comprare e vendere senza pagare pegno, a meno che non controlli gli affari dalla Gran Bretagna. Rakesh Kapila,
commercialista insignito del titolo di membro dell’Accademia di esperti e specializzato
tra l’altro in investigazioni di frodi, ricorda il caso di Mohamed Al-Fayed che non intendeva pagare le tasse su affari esteri ma che ha perso la sua causa perché li gestiva dalla Gran Bretagna. Kapila aggiunge però che, con le nuove tecnologie, è molto difficile provare una cosa del genere. Ammette che l’espressione “grande industria di soldi” per consulenti ed esperti di tasse è giustificata. E offre solo alcuni esempi di stratagemmi per  evitare di pagare le tasse restando nella legalità: dichiarare che il 30% del tempo di gestione degli affari è all’estero; tenere nelle isole Cayman il 20-30% dei profitti; portare soldi nel Regno Unito ma tenere separati i conti per il capitale e per gli interessi. Ricordiamo che il non residente deve trascorrere meno di 183 giorni  l’anno su territorio britannico e, su 4 anni, meno  di 90 giorni di media. Non far timbrare il passaporto è lo stratagemma più elementare. Ovviamente non sono solo questi gli escamotage  che fruttano una fortuna ai consulenti della City, ma sono  esempi.
In tema sono ovviamente anche i paradisi fiscali che non nascono certo con il fenomeno dei miliardari russi a Londra, ma che rientrano nel capitolo stratagemmi. Si può comprare qualcosa in Cina a 10 pound, venderla in Jersey a 12 e poi in Gran Bretagna  a 13. Se si denuncia solo il prezzo in Jersey e nel Regno Unito il profitto, su cui si pagherà tassa, è solo di un pound. Kapila spiega che nel caso delle isole Jersey o  Guernsey c’è più di un legame con il mondo anglosassone e dunque può essere più  facile indagare. E fa l’esempio del gruppo bancario Barclays che per una questione di carte di credito ha ottenuto dati abbastanza riservati da autorità in Jersey. Ma per altri paradisi fiscali non c’è appiglio per investigazioni. E, sempre in tema di indagini, Kapila ammette che le risorse sono limitate e spiega che vengono indirizzate sui grandi gruppi: non ci si può permettere di puntare agli individui, per i quali tra l’altro è anche più difficile. Ci viene da pensare che ci sono individui che fatturano come, o più, di una grande compagnia farmaceutica e Kapila ci conferma che “il sospetto è che ce ne siano soprattutto dall’est Europa”. Ammette anche che “finora non c’è stata una focalizzazione su stranieri”. E poi c’è la situazione dei controlli che l’esperto di frodi fotografa così: prima c’erano due dipartimenti, uno per le frodi sulle tasse delle
entrate e uno per le frodi relative all’IVA. Sono stati accorpati e a farla da padrona è
l’IVA perché alimenta, nel Regno Unito, un’evasione di 5 miliardi l’anno. Non meraviglia perché si tratta di un fenomeno generalizzato: l’Unione Europea perde 50 miliardi l’anno per frodi relative all’IVA, una cifra pari a quanto spende in politica agricola.
In definitiva è Kapila stesso a citare Roman Abramovic, dicendo che “ci sono parecchie chiacchiere su di lui” ma che non si meraviglierebbe se dal punto di vista legale fosse  inattaccabile.  Aggiunge però che si tratta di un caso particolare perché è personaggio che definisce in inglese “too connected” per essere indagato, che si può tradurre in diversi modi ma significa sempre che ha buone conoscenze e relazioni. Sappiamo che è più ricco del duca di Westminster.
Di sicuro possiede una maestosa proprietà a Rogate nel West Sussex che si estende  per 10 kmq, con campi da polo tra i migliori d’Inghilterra, guardie del corpo scelte tra ex SAS, le teste di cuoio dei servizi segreti inglesi, e un edificio per sauna e piscina lungo 130 m. e ribattezzato dai vicini Roman Empire Building.  Ha comprato una casa storica nella Eaton Square di Londra, oltre a quella di Belgravia e, secondo  alcuni, altre case nella capitale. Ma Abramovic sembra proprio abbia evitato di prendere la residenza. In Gran Bretagna, precisamente a Weybridge, nel Surrey, ha base la sua Millhouse Capital, il gruppo societario per la gestione del capitale che, nato nel 2001, ha fatto parlare in particolare per l’accordo con la Gazprom, alla quale ha venduto oltre il 72% della Sibneft.  Anche Berezovisky  potrebbe non essere residente né nella casa a Londra né nella proprietà vicino Godalming in Surrey. Lo stesso sarà per il cantante russo Alsou, che ha un appartamento che affaccia su Lord’s Cricket Ground. O per il già citato Leonard Blavatnik, 47 anni,  che ha fatto soldi ancora una volta con il petrolio, ma anche con gas e metalli. Ha lasciato la Russia per New York nel 1978 ma poi, alla caduta del comunismo, è tornato in patria, in tempo per prendere parte alla spartizione della torta delle liberalizzazioni. Nel 2003 ha messo su la TNK-BP, terza compagnia di petrolio in Russia. Nel 2004 ha fatto l’acquisto più prestigioso, di cui dicevamo: la proprietà a Kensington Palace Gardens, nell’area delle ambasciate, tra cui quella russa, dove possono passare solo macchine autorizzate e
anche i pedoni sono strettamente controllati. Una zona lontana dal traffico londinese
come tanti incantevoli angoli  della città rappresentata dalla caotica Oxford Street ma anche dagli aristocratici cortili alle spalle di Fleet Street, ma non altrettanto frequentabile.
Abbiamo cercato di parlare con Abramovic, pur sapendo che ha sempre negato interviste e che in Russia un quotidiano offre una “taglia” per chi può esibire una sua foto recente. La parola d’ordine, dichiarata, è niente interviste, niente titoli nei media. Berezovisky non ha proprio risposto all’invito. Il suo avvocato  Andrew  Stephenson  ci ha ricordato la sua riservatezza e le sofferenze per le diffamazioni subite, ma – aggiungiamo – ben respinte al mittente, vista l’ultima causa vinta con il The Guardian, costretto, di recente, a pagare 20.000 pound, 35.000 dollari, e a porgere pubbliche scuse.
Non si tratta di diffamazioni, ma c’è qualcosa che Anya e Oleg, da alcuni mesi a Londra, rimproverano alla maggior parte degli inglesi: vedono in ogni russo un bevitore di vodga e intravedono alle sue spalle una famiglia di militari, per non parlare dell’allusione alla mafia. Insomma, luoghi comuni che – dicono – non sono sempre veri. Tanya da dieci anni lavora nella capitale britannica e fa presente di aver assistito alla nascita del primo giornale russo pubblicato all’ombra di Westminster. Veste con gusto occidentale raffinato e parla un ottimo inglese. Sembra propensa ad assolvere chi cade negli stereotipi e poi aggiunge che lei spesso ricorda ai suoi interlocutori che “l’Armata rossa ha salvato l’Europa da Napoleone e da Hitler”. Cerchiamo di usare la stessa clemenza da lei usata per gli stereotipi per quello che ci sembra un particolarissimo punto di vista.
A rivendicare un patrimonio di secoli è anche padre Vadim, della Chiesa ortodossa a Londra, ma la sua è una raccomandazione: “I russi devono salvaguardare la loro cultura e condividere con gli inglesi l’anima russa che hanno formato in centinaia di anni”.
E il pensiero corre a curiosità storiche in tema di relazioni Russia-Gran Bretagna. Pensiamo al 1555 quando Ivan il terribile concesse a un gruppo di inglesi un monopolio su pellame, legname e vestiti. Nasceva la MUSCOY Company. Ben più tardi
Lenin complotterà anche da Londra. E poi c’è il fatto che, dopo la presa di potere da
parte dei bolscevichi, aristocrazia e intellighenzia russa si ripararono nella capitale dell’Inghilterra. Immaginiamo conversazioni tra notabili, intramezzate da tartine al caviale e tazze di tè e scandite da un inglese perfetto e un inglese pronunciato con la forza della musicalità russa. Cadiamo in altri stereotipi, che possono darci, però, il senso dello spessore delle culture e delle occasioni di incontro nella storia.

Non è ancora ‘Londongrad’ ma la terza piazza borsistica al mondo parla sempre di più russo. Le case acquistate da ex oligarchi sono tra le più lussuose, compresa la residenza al numero 15 di Kensington Palace Gardens, accanto al palazzo numero due di Londra dopo Buckingham. A chi ha negli occhi la dimensione di bellezza e di esclusività del luogo è dato di capire di più la portata, anche simbolica, dell’acquisto. E di simbolico ci sarebbe anche che il vicino di casa è il principe Michael di Kent, noto in Russia per la sua somiglianza con lo zar Nicola II. Di molto concreto c’è il prezzo: 41 milioni di pound, cioè 105 milioni di dollari. E se il pensiero va a Abramovic, il famoso magnate russo proprietario del Chelsea Fooball Club, si deve correggere. C’è qualcuno che ha battuto la sua offerta, sempre con accento russo. Si chiama Leonard Blavatnik e testimonia, non da solo, che Abramovic, che ha 40 anni, rappresenta un fenomeno particolare ma non un’eccezione assoluta. Dietro la sua smisurata ricchezza ci sono altri, da meno ma non per molto. Approfondiremo questi nomi senza dimenticare il 58enne Boris Berezovsky, che dal Regno Unito ha ottenuto asilo politico e cittadinanza cambiando il nome in Platon Yelenin, ma che spesso si muove con passaporto israeliano.
Cercando una qualche indicazione della presenza russa, dall’Ambasciata di Mosca a Londra ci si sente dire che non c’è statistica neanche per quanto riguarda gli ingressi in Gran Bretagna. Il numero di permessi rilasciati risulta all’Ambasciata britannica a Mosca: 11.130 visti nei primi otto mesi del 2006, che segnano un incremento rispetto al 2004 del 40%. Va da sé che la cifra è sottostimata, ci spiegano, perchè mancano i clandestini. Attualmente sembra siano 70.000 i russi a Londra. Due anni fa, erano 40.000. C’è poi un dato che fotografa giovani e, quindi, di per sé proiettato al futuro: quest’anno sono 85 gli studenti russi alla London Economics and Political Sciences e, facendo il confronto ancora con due anni fa, si sfiora davvero il raddoppio. Erano infatti 44. Guardando invece alle cifre monetarie, ovviamente non ci sono statistiche. Si è parlato di più di 100 miliardi di dollari che hanno lasciato la Russia tra il 1998 e il 2004 per raggiungere, la maggior parte, conti offshore in Svizzera o altrove. Da lì è impossibile seguirne le tracce, ma non si possono dimenticare i vantaggi che la Gran Bretagna offre in tema
di tassazione a persone con conti offshore. Inoltre, nei soli primi sei mesi del 2005, compagnie russe hanno registrato 2,5 miliardi di dollari nella City.
In ogni caso, se non è dato sapere quanti soldi sono arrivati a Londra dalla Russia, si fotografano altri elementi che si traducono in soldi che girano. Ogni grande banca ha un impiegato che parla russo. Harvey Nichols, cugino più giovane di Harrods, ha diversi assistenti madrelingua. Ogni negozio a livello di firme, come Fendi, ha un commesso in grado di capire e orientare i gusti delle signore russe. Robert Bailey, della Robert Bailey Property, agenzia specializzata in case di lusso, assicura che “c’è una grande richiesta da parte di russi”. A contendere il primato dei costi, e anche l’attenzione dei russi, sono gli appartamenti in costruzione a Knightsbridge, che vantano misure di sicurezza da record.  Il progetto è stato approvato a febbraio 2006 dalle autorità:  prevede 86 appartamenti al prezzo di 20 milioni di pound l’una ed è una produzione dei giovani fratelli Nick e Christian Candy, designer e progettisti che vivono nel più costoso appartamento di Londra, 27 milioni di pound. Saranno dotati di ascensori con accesso direttamente a Hyde Park, sistemi biometrici che riconoscono l’iride, telecamere a prova di proiettili e altre sofisticatissime misure di sicurezza.  Viene in mente che Berezovisky ha ottenuto la cittadinanza dichiarando di essere in pericolo di vita in patria. Ma certamente non mancano seri motivi per difendersi a nessun miliardario o milionario.
Nel caso di altre due esclusive agenzie immobiliari, Savills Estate Agency e Harrods Estate, si parla di case e proprietà. Della Savills, basta dire che è leader del settore, della Harrods Estate, che ha due uffici: uno a Knightsbridge, che si occupa delle vendite a Chelsea, Belgravia, Knightsbridge e South Kensington,  e uno a Mayfair, che copre Regents Park, St James. Sono le zone di Londra più belle in assoluto e quelle che contano di più. Ed è significativo che entrambe le agenzie abbiano un desk per la clientela russa. Abbiamo provato a chiedere a Alexandra Lovel, riferimento per la prima, e a Tatiana Beker, riferimento per la seconda, qualche statistica di vendita ma il rispetto della privacy del cliente è assoluto. Si conferma la percezione di una presenza al top.
Passeggiando presso Gloucester Road o entrando in uno dei Pub di livello a
Tower Hill, non siamo più sul piano dei miliardari ma di operatori di borsa, agenti di cambio e assicuratori. All’Emperor Pub alcune sere senti parlare più russo che inglese. Ci spiegano che parecchi nightclub fanno venire da Mosca i DJ. Al Bar Aquarium in Old Street la notte si fa proprio russa: bande in costumi tipici, donne biondi e forti che danzano con seduzione. E’ tenuto da Andrei Lomin, che ci tiene a mettere sul piatto della conversazione la sua laurea in Oceanologia prima di altro, e da sua moglie Sonia, che fa la modella. E’ lì che ci siamo sentiti spiegare che un russo si sente accolto e amato dagli inglesi, perché si tratta di due grandi popoli, per poi sentir dire, quasi en passant, che il russo si distingue sempre per un eccezionale binomio di forza e cultura. E’ un businessman che, con l’aria di riaffermare quanto sostiene spesso,  spiega orgoglioso che un uomo russo può costruire una casa dalle fondamenta e citare Dostojevski. Per poi aggiungere, dopo una pausa, che in Inghilterra gli uomini devono chiamare un idraulico per una goccia d’acqua. Analoga sensazione vicina ad un’allucinazione da colbacchi puoi averla il giovedì sera a Vauxhall Station, ma la frequentazione scende ulteriormente di livello. Siamo su un piano difficile da definire perché si ostentano più o meno soldi ma in modi che a volte  tradiscono uno scarso livello culturale.
Questi sono angoli che si scoprono osservando  bene una città come Londra dove si parlano 300 lingue e dove  la multiculturalità è stata sperimentata prima che teorizzata. Ci sono, cioè, isole di città dove in certi momenti viene voglia di caviale e dove girano giornali e magazine russi, ma una città così inglese e così plurietnica come la città di Blackfriars e di Piccadilly Circus può anche contenere tutto ciò senza che il turista più curioso o il giornalista attento se ne accorgano a prima vista. Non può certo colpire più di tanto sapere che Trafalgar Square  ha ospitato a gennaio 2006 il secondo Festival invernale russo, perché vengono in mente manifestazioni di ogni genere.
Il punto è che, pur sapendo che ci sono almeno 7 pubblicazioni che escono a Londra in russo, è ben difficile trovarle. Hai molte chance se partecipi ad uno dei
possibili ritrovi. Già ne hai meno se frequenti uno dei ristoranti che si stanno moltiplicando all’ombra di Caviar House, o se fai acquisti in uno dei circa 40 negozi di
prodotti alimentari tipici russi. La Russian Media House, che può essere un punto di riferimento, non ha alcuna insegna esterna e neanche una scritta che la identifichi sul citofono. Ma se arrivi ad avere tra le mani  una delle patinate riviste, il target pubblicitario è ben definito e inequivocabile: una clientela di ben alto livello. Harrods viene menzionato solo per l’area dedicata ai gioielli e ti scopri a pensare che in effetti è un grande magazzino appena più folcloristico di altri, se ti fai una passeggiata cercando gli altri negozi citati nella rivista e concentrati nelle zone più ‘in’. L’universo acquisti comincia a Jermyn Street, strada di alta sartoria. Non mancano gli indirizzi precisi di tutte le firme a livello mondiale in tema di abiti, e di inglese c’è l’atelier delle costose e stravaganti creazioni di Scarlet Ribbon a Conduit Street. Per i cappelli l’indicazione è per Lock and Company in St. James Street. Un’altra strada che compare più volte è Pall Mall, la strada dei tradizionali elitari club inglesi. A proposito di club, per il golf è pubblicizzato il Stoke Park Club, che lasciamo all’immaginazione del lettore. Per un parrucchiere il suggerimento è ancora una volta a knightsbridge. Insomma è solo di questo tenore, visto che non ci sono cadute di livello,  quello che interessa  trovare alla maggioranza di russi presenti a Londra, se le riviste si focalizzano su questo. D’altra parte, la Exclusive London from Russia Media House, pubblicata in formato quaderno, si presenta subito in copertina con il logo rappresentato da un grande diamante, che traduce per l’immaginario il termine “exclusive”.
Se tutto ciò non è esattamente evidente al primo impatto, anche perché la clientela giapponese fa la sua parte nello svaligiare le gioiellerie di Bond Street, diverso è il punto di vista di uomini d’affari, commercianti  e soprattutto di consulenti finanziari. Loro sono ben consapevoli di questa clientela russa e stanno gestendo il tutto come una grande, scrupolosa “industria di soldi”. L’espressione è del legale Joe McDonald.  E come tale deve vederla  anche l’occhio politico, se un esponente come Gordon Brown fa trapelare di avere dei dubbi su qualche aspetto del fenomeno per poi bloccarsi. E sembra di capire che a fermarlo siano state le cifre spese da russi. Abbiamo già capito che i turisti spendono
come gli americani ma poi ci sono anche i più o meno residenti che, oltre a comprare intoccabili proprietà e a consumare in ristoranti d’elite, assicurano i salari a tutti i dipendenti, dal cuoco all’autista al traduttore. Tutto può servire: quando, a gennaio scorso, Abramovic ha avuto un infortunio al menisco ha prenotato un ricovero al Wellington Hospital pagando 700 pound a notte. Sono comodità obbligate per  chi può permettersi di vivere, o soggiornare, a un passo dai monumenti storici  della città con  un mercato immobiliare più costoso di New York. C’è anche chi “consuma” di passaggio, come Oleg Deripaska, uno dei dieci miliardari russi che almeno per un lungo periodo ha fatto tappa a Londra tutte le settimane, dichiarando di voler migliorare il suo inglese. Neanche a dirlo ha un punto di appoggio in una casa a Belgravia. Dove ne ha una  anche Abramovic. A Chelsea, invece,  ha comprato casa Berezovsky, mentre ha scelto Mayfair  Alexandre Gaydamak, il trentenne che a gennaio scorso ha fatto un’offerta impossibile da rifiutare per acquistare la metà del Portsmouth Football Club, anche se non è chiaro se rientri nei 36 miliardari russi o se apra la lista dei milionari.
Stiamo parlando di ex oligarchi che hanno fatto fortuna dai tempi delle liberalizzazioni selvagge di Eltsin e di nuovi ricchi russi. Nel 2003 il quasi sconosciuto  Abramovic arriva alla ribalta delle cronache  con l’assegno di 300 milioni di dollari con cui acquista il Chelsea Football Club. E’ evidente che dalla Piazza Rossa già si guardava a Westminster quando, due anni fa, il più ricco di tutti, Khodorkovsky,  è stato condannato, con la sua Yukos, per frode ed evasione fiscale e poi inviato in Siberia. Una mossa partita dal Cremlino dopo anni di espansione economica del miliardario ma solo dopo pochissimo tempo dal suo serio interessamento alla politica. Qualcosa di diverso dall’impegno di governatore della regione Chukotka assunto tempo fa per due anni da Abramovic. In ogni caso, dalla caduta di  Khodorkovsky in molti hanno pensato di navigare nel Tamigi. Nel 2005 Abramovic,  che deve sostanzialmente la sua fortuna al petrolio, ha venduto al governo russo per 7,4 miliardi di pound la Compagnia petrolifera Sibneft che aveva acquistato per poco meno di 100 milioni di pound insieme con Berezovisky. E, parlando di Abramovic, si deve ricordare che nel 2001 la polizia russa aveva aperto un’indagine contro la sua
Sibneft per un’evasione fiscale di circa 450 milioni di dollari, ma il caso è stato chiuso senza    procedimenti.

Va detto perché scelgono Londra, lasciando da parte il fascino e la vivibilità di una città fatta di tanti “villaggi” e di tante facce ma capace di un abbraccio particolare. Le ragioni vere stanno nell’essere un forte mercato di capitali molto vicino a Mosca, solo 4 ore di volo che in jet privati si riducono a tre, e poi ci sono il sistema fiscale favorevole e il sistema giudiziario che ben protegge gli investitori. Non è una novità che gli investimenti in Gran Bretagna sono largamente incentivati dal governo,  che gli investitori stranieri godono  dello stesso  trattamento dei locali e che soldi provenienti da conti offshore non sono indagati. Se provengono da affari non leciti non è un problema del Regno Unito dove arrivano.
Il commercialista di alto livello Humphrey Creed ribadisce, dal suo studio a Salisbury Square, che l’apertura assoluta agli investimenti è una scelta politica.  In testa tra gli investitori ci sono gli Stati Uniti, seguiti dall’India. La Russia – ci dice – non saprebbe collocarla. Del sistema inglese, Creed dice  che “si tratta delle tasse più basse rispetto al resto del mondo”. Ci ricorda la filosofia che ci sta dietro: “Tassare meno più persone porta più soldi che tassare di più meno persone, anche perché comporta meno evasione”. Sulla dimensione della clientela russa dei commercialisti, Creed non si sbilancia ma ammette che quasi tutti i più noti si avvalgono di personale che parla la lingua. Lui sembra fare eccezione ma poi spiega che il suo gruppo ha una partnership con una compagnia in Russia. Dunque la consulenza sembra essere a monte, piuttosto che a valle.
Il punto è che ci sono soldi che vengono spesi a Londra ma che in Gran Bretagna non sembrano arrivare. In realtà,  guadagni realizzati all’estero non sono tassabili ma lo diventano se entrano nel Paese, ad esempio con un acquisto. I conti offshore non sono un fenomeno russo-britannico ma ce ne occupiamo perché cerchiamo di capire se i ricchi russi, che continuano ad arrivare, pagano tasse a sua Maestà. E se questo può essere un bel motivo in più per amare il Big Ben. Va ricordato che chi è domiciliato in Russia, nel Regno Unito  può comprare e vendere senza pagare pegno, a meno che non controlli gli affari dalla Gran Bretagna. Rakesh Kapila,
commercialista insignito del titolo di membro dell’Accademia di esperti e specializzato
tra l’altro in investigazioni di frodi, ricorda il caso di Mohamed Al-Fayed che non intendeva pagare le tasse su affari esteri ma che ha perso la sua causa perché li gestiva dalla Gran Bretagna. Kapila aggiunge però che, con le nuove tecnologie, è molto difficile provare una cosa del genere. Ammette che l’espressione “grande industria di soldi” per consulenti ed esperti di tasse è giustificata. E offre solo alcuni esempi di stratagemmi per  evitare di pagare le tasse restando nella legalità: dichiarare che il 30% del tempo di gestione degli affari è all’estero; tenere nelle isole Cayman il 20-30% dei profitti; portare soldi nel Regno Unito ma tenere separati i conti per il capitale e per gli interessi. Ricordiamo che il non residente deve trascorrere meno di 183 giorni  l’anno su territorio britannico e, su 4 anni, meno  di 90 giorni di media. Non far timbrare il passaporto è lo stratagemma più elementare. Ovviamente non sono solo questi gli escamotage  che fruttano una fortuna ai consulenti della City, ma sono  esempi.
In tema sono ovviamente anche i paradisi fiscali che non nascono certo con il fenomeno dei miliardari russi a Londra, ma che rientrano nel capitolo stratagemmi. Si può comprare qualcosa in Cina a 10 pound, venderla in Jersey a 12 e poi in Gran Bretagna  a 13. Se si denuncia solo il prezzo in Jersey e nel Regno Unito il profitto, su cui si pagherà tassa, è solo di un pound. Kapila spiega che nel caso delle isole Jersey o  Guernsey c’è più di un legame con il mondo anglosassone e dunque può essere più  facile indagare. E fa l’esempio del gruppo bancario Barclays che per una questione di carte di credito ha ottenuto dati abbastanza riservati da autorità in Jersey. Ma per altri paradisi fiscali non c’è appiglio per investigazioni. E, sempre in tema di indagini, Kapila ammette che le risorse sono limitate e spiega che vengono indirizzate sui grandi gruppi: non ci si può permettere di puntare agli individui, per i quali tra l’altro è anche più difficile. Ci viene da pensare che ci sono individui che fatturano come, o più, di una grande compagnia farmaceutica e Kapila ci conferma che “il sospetto è che ce ne siano soprattutto dall’est Europa”. Ammette anche che “finora non c’è stata una focalizzazione su stranieri”. E poi c’è la situazione dei controlli che l’esperto di frodi fotografa così: prima c’erano due dipartimenti, uno per le frodi sulle tasse delle
entrate e uno per le frodi relative all’IVA. Sono stati accorpati e a farla da padrona è
l’IVA perché alimenta, nel Regno Unito, un’evasione di 5 miliardi l’anno. Non meraviglia perché si tratta di un fenomeno generalizzato: l’Unione Europea perde 50 miliardi l’anno per frodi relative all’IVA, una cifra pari a quanto spende in politica agricola.
In definitiva è Kapila stesso a citare Roman Abramovic, dicendo che “ci sono parecchie chiacchiere su di lui” ma che non si meraviglierebbe se dal punto di vista legale fosse  inattaccabile.  Aggiunge però che si tratta di un caso particolare perché è personaggio che definisce in inglese “too connected” per essere indagato, che si può tradurre in diversi modi ma significa sempre che ha buone conoscenze e relazioni. Sappiamo che è più ricco del duca di Westminster.
Di sicuro possiede una maestosa proprietà a Rogate nel West Sussex che si estende  per 10 kmq, con campi da polo tra i migliori d’Inghilterra, guardie del corpo scelte tra ex SAS, le teste di cuoio dei servizi segreti inglesi, e un edificio per sauna e piscina lungo 130 m. e ribattezzato dai vicini Roman Empire Building.  Ha comprato una casa storica nella Eaton Square di Londra, oltre a quella di Belgravia e, secondo  alcuni, altre case nella capitale. Ma Abramovic sembra proprio abbia evitato di prendere la residenza. In Gran Bretagna, precisamente a Weybridge, nel Surrey, ha base la sua Millhouse Capital, il gruppo societario per la gestione del capitale che, nato nel 2001, ha fatto parlare in particolare per l’accordo con la Gazprom, alla quale ha venduto oltre il 72% della Sibneft.  Anche Berezovisky  potrebbe non essere residente né nella casa a Londra né nella proprietà vicino Godalming in Surrey. Lo stesso sarà per il cantante russo Alsou, che ha un appartamento che affaccia su Lord’s Cricket Ground. O per il già citato Leonard Blavatnik, 47 anni,  che ha fatto soldi ancora una volta con il petrolio, ma anche con gas e metalli. Ha lasciato la Russia per New York nel 1978 ma poi, alla caduta del comunismo, è tornato in patria, in tempo per prendere parte alla spartizione della torta delle liberalizzazioni. Nel 2003 ha messo su la TNK-BP, terza compagnia di petrolio in Russia. Nel 2004 ha fatto l’acquisto più prestigioso, di cui dicevamo: la proprietà a Kensington Palace Gardens, nell’area delle ambasciate, tra cui quella russa, dove possono passare solo macchine autorizzate e
anche i pedoni sono strettamente controllati. Una zona lontana dal traffico londinese
come tanti incantevoli angoli  della città rappresentata dalla caotica Oxford Street ma anche dagli aristocratici cortili alle spalle di Fleet Street, ma non altrettanto frequentabile.
Abbiamo cercato di parlare con Abramovic, pur sapendo che ha sempre negato interviste e che in Russia un quotidiano offre una “taglia” per chi può esibire una sua foto recente. La parola d’ordine, dichiarata, è niente interviste, niente titoli nei media. Berezovisky non ha proprio risposto all’invito. Il suo avvocato  Andrew  Stephenson  ci ha ricordato la sua riservatezza e le sofferenze per le diffamazioni subite, ma – aggiungiamo – ben respinte al mittente, vista l’ultima causa vinta con il The Guardian, costretto, di recente, a pagare 20.000 pound, 35.000 dollari, e a porgere pubbliche scuse.
Non si tratta di diffamazioni, ma c’è qualcosa che Anya e Oleg, da alcuni mesi a Londra, rimproverano alla maggior parte degli inglesi: vedono in ogni russo un bevitore di vodga e intravedono alle sue spalle una famiglia di militari, per non parlare dell’allusione alla mafia. Insomma, luoghi comuni che – dicono – non sono sempre veri. Tanya da dieci anni lavora nella capitale britannica e fa presente di aver assistito alla nascita del primo giornale russo pubblicato all’ombra di Westminster. Veste con gusto occidentale raffinato e parla un ottimo inglese. Sembra propensa ad assolvere chi cade negli stereotipi e poi aggiunge che lei spesso ricorda ai suoi interlocutori che “l’Armata rossa ha salvato l’Europa da Napoleone e da Hitler”. Cerchiamo di usare la stessa clemenza da lei usata per gli stereotipi per quello che ci sembra un particolarissimo punto di vista.
A rivendicare un patrimonio di secoli è anche padre Vadim, della Chiesa ortodossa a Londra, ma la sua è una raccomandazione: “I russi devono salvaguardare la loro cultura e condividere con gli inglesi l’anima russa che hanno formato in centinaia di anni”.
E il pensiero corre a curiosità storiche in tema di relazioni Russia-Gran Bretagna. Pensiamo al 1555 quando Ivan il terribile concesse a un gruppo di inglesi un monopolio su pellame, legname e vestiti. Nasceva la MUSCOY Company. Ben più tardi
Lenin complotterà anche da Londra. E poi c’è il fatto che, dopo la presa di potere da
parte dei bolscevichi, aristocrazia e intellighenzia russa si ripararono nella capitale dell’Inghilterra. Immaginiamo conversazioni tra notabili, intramezzate da tartine al caviale e tazze di tè e scandite da un inglese perfetto e un inglese pronunciato con la forza della musicalità russa. Cadiamo in altri stereotipi, che possono darci, però, il senso dello spessore delle culture e delle occasioni di incontro nella storia.