Un confuciano occidentale in Oriente

In versione italiana il docu-film dedicato a Matteo Ricci prodotto in Cina

13 novembre 2024

Un pubblico di un miliardo di persone per un missionario di quattro secoli fa: in Cina, in poco tempo, è stata questa l’accoglienza riservata al docu-film Un confuciano occidentale in Oriente dedicato alla straordinaria figura di Matteo Ricci. Si tratta di una produzione del Kuangchi Program Service (Kps) dei gesuiti, in stretta collaborazione con la China Central Tv (Cctv), la più grande emittente televisiva al mondo.

La versione italiana

Dopo il successo dell’opera in lingua cinese prodotta nel 2020, la versione italiana del documentario televisivo in quattro parti, dedicato al gesuita nato a Macerata il 6 ottobre 1552 e morto a Pechino l’11 maggio 1610, viene presentata nella serata di giovedì 14 novembre, al Teatro Quirino. È frutto di esclusive riprese fatte in Cina, Macao, India, Italia, Portogallo e anche nell’Archivio della Curia dove sono stati filmati documenti originali.

Il primo gesuita in Cina

Padre Matteo Ricci, di nobile famiglia, sceglie presto di abbracciare la Compagnia di Gesù e di guardare all’Asia, seguendo l’impulso missionario che vivrà senza rinnegare i suoi talenti di matematico, cartografo o sinologo, anzi costruendo proprio con i suoi studi ponti di dialogo. Dopo alcuni anni in India, riesce ad approdare in Cina al tempo della dinastia Ming e riceverà dai mandarini il titolo onorifico di «studioso confuciano del grande Occidente».

Individuare semi di bene

Al centro di tutto il suo impegno c’è la scelta di «individuare semi di bene che sempre lo Spirito regala a tutti i popoli e a tutte le culture creando così fraternità concreta». Con queste parole padre Massimo Nevola, assistente nazionale dell’associazione laicale ignaziana Comunità di Vita cristiana, ci parla di uno degli aspetti che rendono preziosi gli insegnamenti di Matteo Ricci: «La capacità di vivere nell’attitudine di rispettoso dialogo e ampie vedute che permette di riconoscere i valori di una cultura, di adattare il Vangelo alle esigenze locali, per poi annunciare la completezza e lo splendore della Croce e della misericordia di Cristo».

Inculturazione ante litteram

È quello che con un termine moderno chiamiamo inculturazione e che padre Ricci ha saputo vivere al di là delle definizioni. Padre Nevola ci aiuta con un esempio concreto: padre Ricci, approdando in Cina, ha scelto di riconoscere significati e valore al «culto dei morti», frutto degli insegnamenti del confucianesimo, prima di parlare di Vangelo.

Oltre le paure

Viene proclamato Servo di Dio da san Giovanni Paolo II il 19 aprile 1984 e viene riconosciuto Venerabile da Papa Francesco il 17 dicembre 2022. Senza nulla negare alla memoria eccezionale che ha sempre accompagnato il gesuita, alla sua morte, nonostante i frutti raccolti, — ricorda padre Nevola — le sue metodologie sono state fortemente messe in discussione e criticate da dotti religiosi, in particolare di altri ordini come domenicani o francescani, ma non solo. Si trattava di studiosi convinti che l’approccio di Ricci non potesse reggere il confronto sul piano teologico. È storia di dialetticità all’interno della Chiesa, che «all’epoca era spesso segnata da paure e rivalità — sottolinea padre Nevola — ma che è molto feconda se ci si apre al pensiero dell’altro nello spirito che Papa Francesco ci ha insegnato a chiamare sinodalità».

La lungimiranza di Pio XII

Il primo passo importante per rivalutare l’approccio dei “riti cinesi” è venuto da Pio XII . Lo sottolinea padre Nevola prima di ricordare la svolta decisiva su questi temi impressa dal concilio Vaticano II .

In ogni caso, la vicenda di Matteo Ricci è anche la vicenda dei padri che lo hanno ispirato, della cultura teologica del suo tempo, dei quaranta preziosi compagni di missione, di studi, di vita che lo hanno accompagnato, così come anche della terra e del popolo che lo ha accolto in un cammino difficile e vivo. Tutto questo trapela nel docu-film in cui emerge in tutta la sua straordinarietà «l’eclettica figura» di Matteo Ricci. «Non era esattamente uno scienziato — precisa padre Nevola — ma aveva straordinarie capacità di studio che lo hanno portato nel giro di soli tre anni a sostenere una dotta conversazione in lingua locale e soprattutto a scrivere trattati in cinese e a pubblicare dizionari». Peraltro — prosegue — anche e proprio sul piano dello studioso ritroviamo la sua impronta: ha prodotto il primo mappamondo che mette la Cina e non il mondo occidentale al centro. «È un simbolo della sua fantastica opera di esaltazione del sapere locale che gli ha permesso di dare un contributo preziosissimo a quel sapere insegnando la geometria euclidea e tanto altro».

Talenti locali

D’eccezione è anche il percorso che ha portato al documentario. Kps è una società di produzione televisiva fondata nel 1958 dal padre statunitense Phillip Bourret, che negli anni Cinquanta ha cominciato con una radio in una baracca per poi avviare l’avventura pionieristica della tv. Kps in cinese si chiama Guangqi She (Società Guangqi) e prende il nome da Paolo Xu Guangqi (1562-1633), l’amico cinese di Matteo Ricci.

Altri gesuiti da riscoprire

E Kps in collaborazione con la Jiangsu Broadcasting Corporation (Jbc) di Pechino ha già prodotto altri interessanti documentari messi in onda dalla China Central Television: la serie in quattro parti Paolo Xu Guangqi: un uomo cinese per epoche diverse; la serie in due parti Adam Schall von Bell: al servizio degli imperatori, sulla figura del gesuita tedesco Adam Schall von Bell, precettore del giovane imperatore Shunzhi; la serie in quattro parti Giuseppe Castiglione: pittore imperiale, umile servo, artista gesuita milanese. E l’impegno prosegue: sarà messa in atto la produzione sul gesuita spagnolo Diego de Pantoja, compagno di missione di Matteo Ricci.

Talenti locali

Si tratta della vita di studiosi, artisti e scienziati gesuiti che hanno dato un contributo notevole al progresso culturale e scientifico della Cina e alla crescita della nascente Chiesa cattolica cinese. Lo hanno fatto con i loro amici e collaboratori cinesi ed è bello che la realizzazione dei docu-film si avvalga di talenti locali in collaborazione con studiosi internazionali. C’è dunque un auspicio che padre Nevola ci confida: che «anche oggi un Paese come l’Italia, che non può competere minimamente con la potenza cinese in termini di sviluppo economico o tecnologico, possa continuare a offrire il suo contributo alla Cina in termini di umanità, di bellezza, di senso di tutte le cose, di spiritualità sulla scia dei grandi santi italiani».

di FAUSTA SPERANZA

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Il Cantico delle Creature compie 800 anni

Il Cantico delle Creature ha dato il via a 8 secoli di cultura francescana tra teologia e scienza

Canto di lode che dura da secoli

02 ottobre 2024

«Fare scienza al servizio del mondo e non per il puro gusto dell’erudizione». Così Cecilia Panti, docente di Storia della filosofia medievale all’Università di Roma Tor Vergata, parla del secolare impegno di studio dei francescani. Indubbiamente il punto di partenza è il Cantico delle Creature del frate di Assisi che — sottolinea — ha insegnato a «non pensare la natura solo in senso estetico e simbolico, ma a guardarla per come è, e soprattutto a considerarla come la nostra casa comune».

Quando nasce la lode di san Francesco

La stesura del Cantico, noto anche come Cantico di frate sole, si ritiene sia iniziata nel 1224 e, in ogni caso, deve collocarsi prima della morte di san Francesco avvenuta nel 1226. È questo, dunque, un momento speciale per celebrare, a otto secoli di distanza, il testo poetico più antico della letteratura italiana di cui si conosca l’autore.

Una mostra per ripercorrere otto secoli di cultura

E da oggi fino al 6 gennaio 2025, al Museo di Roma Palazzo Braschi, si potrà visitare la mostra Laudato Sie: tra natura e scienza. L’eredità culturale di Frate Francesco. Si tratta di un’iniziativa promossa da Roma Capitale, organizzata dalla St. Francis Day Foundation con il Sacro Convento di Assisi, l’Italian Academy foundation e l’associazione AntiquaÈ, con il patrocinio del comune di Assisi. Ieri, il direttore de «L’Osservatore Romano», Andrea Monda, ha moderato la conferenza stampa di presentazione, alla quale hanno partecipato esponenti di tutte le istituzioni coinvolte, sottolineando innanzitutto che si tratta di «una poesia che esprime un canto di lode a Dio e che ha permeato di spiritualità ottocento anni di cultura».

I depositari a Assisi

Padre Marco Moroni, Custode del Sacro Convento di Assisi, ha affermato che «la cultura moderna tenda a privilegiare l’affermazione dell’uomo, mentre Francesco è maestro nello scoprire che la grandezza di ognuno è nell’essere parte unica e insostituibile nella grande orchestra che è il mondo, la casa comune come dice Papa Francesco». Nelle parole di padre Moroni, «il Cantico esprime con rara armonia bellezza e fede, rispetto e contemplazione, forza e dolcezza, Dio, l’umanità e il mondo».

Tra teologia e sapere scientifico, la mostra propone — ha illustrato all’incontro il curatore Paolo Capitanucci — antichi codici e miniature preziose conservati nel Fondo antico comunale della Biblioteca del Sacro Convento di Assisi. Tra gli altri, è in esposizione il codice 338, di cui la Fondazione Sorella Natura ha curato la prima ristampa in fac simile al cento per cento, che conserva la più antica raccolta di scritti di Francesco d’Assisi, con la più antica versione in volgare umbro del Cantico.

L’impostazione multimediale dell’esposizione permette anche ai non addetti ai lavori di comprendere l’ampiezza della riflessione filosofica e teologica dell’Ordine francescano. Accanto a opere che raccontano lo studio della Bibbia e del sapere filosofico antico, raccolti in nove sezioni, sono esposti manoscritti dedicati a astronomia, matematica, fisica, chimica, medicina. Testi che hanno contribuito a una visione scientifica del mondo e che per l’anniversario, come ha spiegato il restauratore Stefano Benato, hanno subito interventi di conservazione, recupero e valorizzazione di ogni parte originale.

La preziosità di alcune intuizioni

Tra gli esempi possibili, Capitanucci ha citato scritti dedicati alla luce, che hanno anticipato teorie dell’ottica, e manoscritti che testimoniano l’influenza delle teorie aristoteliche sui maestri delle università medievali, tra i quali spiccano molti dotti francescani. Ci sono anche gli elaborati che illustri francescano hanno dedicato all’alchimia nonostante i divieti ecclesiastici, un impegno di studio sulle possibili “trasformazioni” di minerali o metalli che non si è conservato in quanto scienza, ma che in qualche modo ha contribuito al pensiero scientifico moderno.

Da Roma ad Assisi: Stefania Proietti, sindaca della città umbra dove nel 1182 è nato Francesco, ha annunciato che dal 7 aprile al 12 ottobre 2025 la mostra sarà ospitata nelle sale del Sacro Convento. Continua — ha assicurato — l’impegno a «valorizzare per un largo pubblico il significato storico culturale e artistico della ricca selezione di codici manoscritti e di libri a stampa».

di FAUSTA SPERANZA

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Diplomazia dei valori: nel libro di monsignor Chica Arellano

In un libro l’Osservatore permanente presso la Fao, Fernando Chica Arellano, parla di “diplomazia dei valori” e del ruolo della Santa Sede

L’opzione per i poveri
nella famiglia delle Nazioni
30 settembre 2024

Attenzione alla persona e diritto internazionale: si gioca a diversi livelli il ruolo della Chiesa che si presenta al mondo come “esperta di umanità”, come disse Paolo VI all’Onu il 4 ottobre 1965. Se l’obiettivo resta quello di promuovere il bene comune della famiglia umana e la peculiarità è sempre quella di non avere particolari interessi commerciali, militari o politici da difendere, negli ultimi anni l’impegno si è declinato sempre più in relazione alla questione ecologica e ambientale, cartina tornasole di diseguaglianze e urgenze.

Un sussidio prezioso tra diritto e persona

Si comprende come il mondo della “diplomazia dei valori” si presenti sempre più come un ambito interessante da conoscere anche per i non addetti ai lavori. Di prezioso aiuto può essere il volume a firma di monsignor Fernando Chica Arellano, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Agenzie specializzate del Polo romano dell’Onu, intitolato Ecologia integrale e diplomazia dei valori. La Santa Sede per l’alimentazione dell’umanità (Roma, Rubbettino, 2024, pagine 78, euro 13).

La dimensione della giustizia sociale e della cura della casa comune è il paradigma dell’ecologia integrale e l’attenzione per il mondo dell’agricoltura e per l’alimentazione è decisamente centrale, se si parla di cambiamento climatico e di sostenibilità, affinché nessuno rimanga indietro. Proprio la sostenibilità è direttamente connessa con l’opzione preferenziale per gli ultimi e i più poveri che in questo ambito sono braccianti, piccoli contadini, pescatori, popoli indigeni, donne e giovani rurali.

In dialogo nel Polo Romano dell’Onu

Dunque, l’impegno della Missione Permanente della Santa Sede presso le tre agenzie del campo agroalimentare — Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad), il Programma alimentare mondiale (Wfp) — è in sostanza alla base del contributo che la Chiesa porta quotidianamente a favore dell’umanità e rappresenta uno dei momenti più concreti della sua azione.

Con Papa Francesco, e la sua perseverante dedizione a favore di uno sviluppo umano integrale — ci dice monsignor Chica Arellano — ha ripreso respiro quella instancabile premura della Chiesa a difesa della centralità della persona nel palcoscenico della comunità internazionale. Dare voce a poveri, diseredati, sofferenti, anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso, traduce sostanzialmente il concetto di sviluppo umano integrale. Nella prefazione, l’economista Stefano Zamagni, già presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, ricorda che si tratta di lottare per l’allargamento degli spazi della libertà da fame, ignoranza, nuove forme di schiavitù, e di difendere la libertà di realizzare il proprio piano di vita, di autodeterminarsi.

Soggettività internazionale della Santa Sede

Se l’obiettivo è cercare di approfondire l’azione della Santa Sede nel consesso di queste organizzazioni internazionali, si comprende che il primo passo è acquisire alcuni concetti, a partire dal principio di “soggettività internazionale della Santa Sede”. È un elemento acquisito, comprovato dalla larga maggioranza di Stati che con essa intrattengono regolari relazioni diplomatiche, ma è bene sapere che storicamente è stato messo in discussione da alcuni studiosi a causa della perdita di sovranità territoriale dello Stato pontificio, avvenuta il 20 settembre 1870, con l’atto di debellatio ad opera del Regno d’Italia.

Ed è interessante comprendere che la soggettività di diritto internazionale non è data dai tre noti elementi utilizzati dal diritto costituzionale per identificare uno Stato (popolo, territorio e autorità di governo) ma dalla presenza di una sovranità effettiva e dell’indipendenza in grado di salvaguardare il titolo di legittimazione. Questi e altri elementi chiave per la comprensione dell’azione della Santa Sede vengono spiegati con sintetica efficacia nell’agile volume di monsignor Fernando Chica. Il testo riassume brevemente anche il funzionamento delle organizzazioni internazionali per poi chiarire l’essenziale: quali sono le priorità della dottrina sociale della Chiesa nel settore dell’agricoltura e dell’alimentazione per contrastare “la globalizzazione dell’indifferenza” denunciata da Papa Francesco e combattere così le conseguenze del cambiamento climatico.

Prospettiva globale

Il contesto è quello della globalizzazione, che abbiamo imparato tutti a conoscere, o della post-globalizzazione, che si caratterizza per la formazione nel mondo di macro aree economiche. In ogni caso, monsignor Arellano aiuta a ragionare sul fenomeno di interscambio globale che si è imposto a partire dagli ultimi decenni del XX secolo. Cambia la prospettiva se si prendono in considerazione gli aspetti prettamente economici o se si valutano implicazioni socio-culturali. In ogni caso, non si può pensare di assistere a un processo che porti a una polarizzazione tra “vincitori e vinti”. Il punto è che non si può guardare solo alla crescita complessiva della ricchezza ma alle conseguenze di una distribuzione tra pochi ricchi, sempre più ricchi, e tantissimi poveri, sempre più poveri.

A questo proposito, il libro aiuta a comprendere i criteri con cui le organizzazioni internazionali si occupano di globalizzazione. E poi sottolinea  che tutti i relativi documenti ufficiali concordano sul fatto che “nessuno si salva da solo”. I processi mondiali sono diventati tali per cui — avverte l’Osservatore Permanente — “bisogna intraprendere azioni come famiglia umana”. Un solo esempio: i meccanismi di accaparramento della terra denunciati dalle organizzazioni internazionali, in particolare dall’Ifad, in termini di land grabbing non sono concepibili nell’ottica di una destinazione universale dei beni.

Ossessione dei consumi

Quando Papa Francesco denuncia la “globalizzazione dell’indifferenza” e chiede sobrietà, parla di fratellanza umana. Lo fa innanzitutto perché è l’orizzonte naturale della spiritualità cristiana, ma non solo per questo. L’enciclica Laudato Si’ propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita rispetto all’ossessione dei consumi. Per «evitare le dinamiche di dominio», sottolinea monsignor Chica Arellano. In definitiva, la fratellanza umana è anche l’unico orizzonte possibile per un’umanità che si vuole salvare.

di FAUSTA SPERANZA

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2024-10/quo-221/l-opzione-per-i-poveri-nella-famiglia-delle-nazioni.html

Straordinario restauro per il Christus triumphans di Forlì

Restauro del «Christus triumphans» della cattedrale di Forlì, capolavoro della scultura medievale europea

La forza rara
di quegli occhi aperti

20 settembre 2024

«Sono occhi che incoraggiano chi lo guarda. Non solo Cristo condivide il dolore e la sofferenza, come tutti i crocifissi, ma questo — come tutti i crocifissi trionfanti — incoraggia e conferma la fede nella vita eterna». Così il vescovo di Forlì-Bertinoro, monsignor Livio Corazza, parla del Christus triumphans, statua lignea della fine del 1100 restituita in questi giorni ai fedeli della Cattedrale della Santa Croce di Forlì dopo l’impegnativo lavoro della restauratrice Carlotta Scardovi. Si tratta di un capolavoro della scultura medievale europea.

Tutto fa pensare che sia il Crocifisso voluto per la nuova Cattedrale dopo il devastante incendio del 1173, probabilmente donato tra il 1180 e il 1190 per iniziativa dell’abate vallombrosano di San Mercuriale.

In croce ma senza i segni della Passione

Grazie al restauro che ha restituito vividezza ai colori, balza agli occhi la peculiarità di Gesù raffigurato in croce ma vivo, senza i segni della passione, con gli occhi aperti. Sul capo, inoltre, si nota una corona regale, non una corona di spine. Le dimensioni monumentali del crocifisso (310 x 206 centimetri) lasciano immaginare una collocazione originaria in posizione preminente, con molta probabilità fissato a una trave o a un arco nella zona superiore del presbiterio.

Per la Cattedrale,  è la più antica testimonianza artistica e di fede

Negli ultimi anni si trovava in una navata laterale ma ora ha ritrovato il suo posto sull’altare maggiore e monsignor Corazza sottolinea la gioia della comunità di riaverlo e, in particolare, in tempo per il prossimo Giubileo. Ricorda che «ad ogni diocesi è richiesto di individuare un Crocifisso che diventi simbolo dell’Anno Santo 2025 e punto di riferimento per tutte le celebrazioni e i cammini di speranza e misericordia previsti».

La professoressa Scardovi definisce il Crocifisso «un’opera di alto pregio» e chiarisce che «l’obiettivo principale dell’intervento svolto è stato quello di intervenire sui fenomeni di degrado che potessero compromettere la conservazione dell’opera nel tempo». Certamente l’intervento di restauro permette di garantirne l’integrità e la tutela, ma anche la valorizzazione. Migliora infatti la possibilità di fruizione legata ai valori di fede, culturali e storico-artistici.

Al di là di qualche singola analogia

Il Crocifisso di Forlì si distingue. L’architetto Marco Servadei Morgagni della Commissione diocesana per l’arte sacra a spiega: «In ciascun paragone emerge la dirompente presenza plastica assai inferiore in qualunque altro esemplare. Oltre allo sguardo penetrante, riemerso in seguito all’ultimo restauro, l’intero volume della figura, affidato a una sapiente sintesi di naturalismo e purismo geometrico, si impone allo sguardo con forza rara». Morgagni sottolinea che «il rapporto uomo-croce, risolto con un’apparente semplicità, nasconde una profonda sapienza tecnica e teologica». Si ha effettivamente l’impressione che il corpo sia disgiunto dal supporto e si avverte un senso di leggerezza che Morgagni spiega come una «sovrapposizione piuttosto che una dipendenza, del Cristo dalla Croce».

di FAUSTA SPERANZA

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2024-09/quo-213/la-forza-rara-di-quegli-occhi-aperti.html

I miei maestri

Tra i vari frammenti del mio percorso professionale raccolti e raccontati in questo sito, voglio inserire anche la brevissima registrazione di una telefonata: è la mia professoressa di lettere delle medie che mi rintraccia e mi saluta dopo aver ascoltato i miei primi servizi alla Radio Vaticana. E’ la professoressa Iorio che purtroppo è venuta a mancare qualche anno fa.

Ricordo gli insegnanti più importanti della mia vita scolastica: il mitico professor Negro, appassionato docente di italiano e latino ma soprattutto pensatore libero, e l’acuta studiosa di storia e filosofia, professoressa Cino. A loro devo tanto del mio amore per lo studio e della mia curiosità intellettuale.

Ci sono poi maestri d’eccezione per il mio impegno professionale: Sergio Trasatti, direttore della scuola di giornalismo dell’allora Comunità europea che mi ha dato ottime basi della tecnica e dell’impostazione giornalistica, scomparso purtroppo prima di potergli raccontare le tappe più belle del mio percorso. E il grandissimo Sergio Zavoli: lavorare con lui è stato il più grande privilegio professionale. Mi ha dato e mi dà una straordinaria testimonianza della passione per la verità che dà senso all’impegno di giornalista. E, con i suoi indimenticabili complimenti, mi ha dato uno slancio che ritrovo sempre vivo dentro di me.

Tengo caro il loro esempio, il rigore appassionato dei loro insegnamenti. Grazie.

Delirio tecnologico e disimpegno antropologico

20 giugno 2024

di Fausta Speranza

 Di fronte alle «crisi internazionali aggravate», «lo scenario bellico ampliato tragicamente», «la vita delle persone sempre più faticosa e frenetica», l’uomo contemporaneo rischia di rispondere paradossalmente con un «disinteresse antropologico», che significa fiducia fideistica nello sviluppo tecnologico e «crescente identificazione dell’uomo con le opere da lui prodotte». L’intervento del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, ieri mercoledì 19 giugno, alla seconda e conclusiva giornata del primo “Festival dell’Umano tutto intero” ha offerto una sollecitazione importante a non arrendersi alla «perdita dello sguardo dell’uomo su di sé e sulla propria interiorità». Il festival, promosso dal network “Ditelo sui tetti”, si è svolto presso il Pio Sodalizio dei Piceni a Roma.

 Le domande antropologiche — ha osservato il cardinale Parolin — «sembrano suscitare sempre meno interesse». I motivi sono diversi a partire «dall’incalzare del progresso scientifico e dal fascino di potenza che questo ha esercitato sull’umanità», ma ci sono «anche altre ragioni, più profonde»: la questione antropologica una volta che la si affronti seriamente e radicalmente «mette in evidenza e fa venire alla luce la costitutiva fragilità dell’essere umano», il suo essere non solo “una canna” ma, come dice Pascal, “la canna più fragile di tutta la natura”.

 Emerge un punto essenziale che tanto impegna il dibattito odierno: «Lo stesso sviluppo dei diritti umani soffre la mancanza di un fondamento solido, la cui carenza espone tali diritti a discipline molte volte incerte e provvisorie, se non ideologicamente orientate». D’altra parte, invece, si fotografa «l’affidamento al progresso tecnologico» che «assume le caratteristiche di una vera e propria “fede”».

 Si comprende dunque quanto sia «urgente e necessaria» la riflessione sulla questione antropologica, «indicendo un Festival dell’«umano tutto intero» — riprendendo una felice espressione di san Giovanni Paolo II », ha sottolineato il cardinale Parolin, ricordando che due anni fa c’è stato un primo incontro su questi temi organizzato dallo stesso network. In quel momento il contesto era legato alla pandemia, finita la quale «le cose non sono purtroppo migliorate». E il cardinale Parolin ha aggiunto parole che non nascondono a gravità dei rischi: «Lo scenario bellico si è ampliato tragicamente con l’esplosione del conflitto israelo-palestinese e la guerra “a pezzi”, denunciata da Papa Francesco sin dall’inizio del pontificato, è andata allargandosi e componendosi in un quadro sempre più preoccupante e corre oggi il rischio serissimo di sviluppi imprevedibili e sempre meno ipotetici.»

 Il punto è che proprio per questo una riflessione sull’umano potrebbe sembrare — ha avvertito — «un mero esercizio d’accademia», distante dalle urgenze e dai problemi del vivere quotidiano, tanto dei singoli quanto dei popoli.  Ma sarebbe un primo grave errore pensare la domanda sull’uomo come separata e distante dalle domande e dai bisogni. Ha ricordato come non sia un caso che la questione antropologica risuoni da secoli, scolpita sull’architrave del tempio di Delfi, nel monito «Conosci te stesso». Centralità e necessità risiedono nel fatto che essa è veicolo degli interrogativi sull’esistenza umana.

 È come se in qualche modo l’uomo dagli albori dell’era industriale avesse messo da parte queste domande. Non sono mancati avvertimenti. Il cardinale Parolin ha citato tra gli altri Friedrich Schiller che già a fine Settecento evidenziava come l’essere umano, «non avendo mai nell’orecchio che il monotono rumore della ruota ch’egli gira …, invece di esprimere nella natura la sua umanità, diventa soltanto una copia della sua occupazione o della scienza cui attende». E poi il segretario di Stato ha sottolineato che sempre più l’uomo si è allontanato da Dio, sempre più si è identificato con il risultato delle proprie azioni, «perdendo una visione d’insieme di sé, capace di unificare tutti gli esseri umani, senza distinzioni di sesso, di età, di razza o di condizione sociale.» Citando la Costituzione conciliare Gaudium et Spes — «La creatura senza il Creatore svanisce» — ha parlato di «un pericoloso processo di vera e propria “disumanizzazione”».

 Il cardinale Parolin ha citato anche Robert Musil per affermare che la nostra società rischia di assomigliare all’apprendista stregone della ballata di Goethe, avventuratosi in un incantesimo che non è poi in grado di padroneggiare. Dunque, l’appello a proposito di Intelligenza Artificiale: «Si pone l’esigenza di una vera e propria difesa dell’umano; un argine a quell’intelligenza che l’uomo stesso ha creato e dalla quale si trova adesso a dipendere».

 Si comprende meglio il significato del «vuoto creato da questo disimpegno antropologico» da cui scaturiscono «il neo-individualismo che esalta e assolutizza il principio di autodeterminazione dell’individuo». E «uno pseudo-umanesimo che arriva, in sostanza, a teorizzare una libertà senza responsabilità e diritti senza corrispondenti doveri, fondamentalmente ispirato al modello dell’uomo-Prometeo il quale, imbrigliato dal proprio delirio di autosufficienza, finisce tuttavia con il ritrovarsi irrimediabilmente solo».

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Tante opportunità dietro quei limiti

22 aprile 2024

Concluso a Napoli il convegno della Cei su disabilità e inclusione

Oltre le disabilità si può andare con un bagaglio di tecnologia e creatività ma soprattutto serve la consapevolezza che la vulnerabilità non è un confine ma una condizione dell’essere umano, uno spazio di fratellanza. A conclusione di Noi, non loro — l’incontro organizzato dal 19 al 21 aprile a Scampia (Napoli) dal Servizio per la pastorale delle persone con disabilità della Conferenza episcopale italiana — sono tanti gli orizzonti di riflessione aperti ed è rinnovato lo slancio di collaborazione tra le tantissime realtà che sul territorio si prendono cura dei più fragili. La messa celebrata ieri mattina nel Duomo di Napoli dall’arcivescovo Domenico Battaglia ha permesso, con l’ausilio di varia strumentazione, il coinvolgimento diretto di persone con disabilità ed è stata un momento di festa segnato dalla riflessione personale del presule sulla «solitudine che rischia di affliggere chiunque quando non riesce ad andare oltre il proprio io».

La vulnerabilità, della quale la disabilità è una declinazione, non è qualcosa che appartiene ad alcune categorie ma riguarda tutti. Lo ha sottolineato anche don Gianluca Marchetti, sottosegretario della Cei, ricordando che, «quando nella storia l’uomo ha pensato di essere un superuomo dimenticando la propria limitatezza, ha dato vita agli orrori più gravi, frutto di impostazioni ideologiche». Vulnerabilità — ha chiarito — è «lo spazio dei limiti e delle ferite che tutti sperimentiamo ed è proprio questo lo spazio di umanità che Dio incarnandosi ha scelto di abitare insieme con l’uomo». Grazie alle testimonianze di associazioni, realtà parrocchiali o diocesane, è emerso un quadro essenziale dei bisogni ma anche dei sorprendenti risultati raggiunti quando entrano in campo attenzione e ascolto. È il caso di “Insuperabili”, associazione nata in Campania dallo slancio di Raffaella Bussetti, che offre a suo figlio affetto da autismo e ad altri ragazzi come lui la possibilità di fare sport con coach professionisti. Se per le problematiche fisiche, infatti, è stato fatto un percorso importante fino alle Paralimpiadi, «restano molte più barriere per l’accesso allo sport di chi ha disagi mentali, a partire dall’autismo».

Don Giovanni Stefanelli ha chiarito l’obiettivo dell’associazione “Autismo io ci sono”: dare una risposta a bambini, giovani e adulti autistici e alle loro famiglie attraverso una presa in carico globale che significa innanzitutto «coinvolgere figure professionali». Oggi l’associazione offre un supporto a scuole e a comparti sociali che si occupano di crescita e di sviluppo. Per tutte le persone che vivono problematiche «abbattere anche solo un gradino può fare la differenza», ha ribadito Marco Bertelli, della Misericordia di Firenze, parlando del «diritto a uno spazio abitabile che risponda a esigenze e scelte di vita». Se lasciare esplodere le tante potenzialità che tutti hanno è la finalità, lo psicoterapeuta Giovanni Miselli ha chiarito il punto di partenza essenziale: «Separare le persone dai problemi, capire i desideri e i valori delle persone che non riescono a esprimersi compiutamente per assecondare il progetto di vita che non bisogna negare a nessuno».

Di progetti, vecchi e nuovi, ha parlato il campione paralimpico di lancio del disco e di getto del peso Oney Tapia. Ha raccontato al ritmo di musica «la bellezza della vita perfino riscoperta quando d’improvviso ci si imbatte in una disabilità inattesa: c’è tanto dolore ma per far fronte a quel dolore si mettono in campo energie nuove». Oney, partito da Cuba con un contratto da giocatore di baseball, in Italia ha avuto bisogno di fare anche il giardiniere per mantenersi e su un albero è avvenuto l’incidente che ha provocato la perdita della vista. «Quando ti sembra di avere tutto — ci ha detto — il destino bussa alla porta e in un attimo la tua vita cambia così all’improvviso da scuoterti nel profondo». Tapia è ripartito con l’aiuto della fede e la sua vita ha preso la nuova direzione. All’incontro ha ringraziato per i tre giorni di «condivisione di pensieri ed esperienze straordinari» che ha vissuto dall’inizio alla fine. E ha lasciato il suo messaggio: «Niente può fermare i sogni».

Resta tuttavia ancora molto da fare per abbattere le barriere fisiche o mentali che rendono una società meno inclusiva. Aiuta il richiamo di Maria Rosaria Duraccio, direttore dell’Ufficio per la pastorale delle persone con disabilità della diocesi di Vallo della Lucania: «La società è fatta di persone e se le persone cambiano cambia pure la società». Dunque il richiamo: «Tutti, e per prime le persone con disabilità, siamo chiamati a cambiare il modo di concepire i limiti: dietro quei limiti ci sono le opportunità».

L’incontro ha preso ispirazione dalle parole di Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti: «Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”» (35).

dalla nostra inviata a Napoli
FAUSTA SPERANZA

 

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La vita nella deflagrazione che nessun crimine contiene

Al Santuario della Madonna di Briano il «Canto delle Creature per don Peppe Diana»

13 aprile 2024

«Don Peppe amava cantare e amava i canti popolari». Nasce da qui l’idea che sta alla base dell’iniziativa diretta da Ambrogio Sparagna, fondatore e direttore dell’Orchestra popolare italiana, per ricordare, a 30 anni dall’uccisione, don Giuseppe Diana nella sua terra campana. Si tratta del concerto Canto delle Creature per don Peppe Diana che viene eseguito con i Solisti dell’Orchestra popolare italiana dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, nel pomeriggio del 13 aprile al Chiostro del Santuario della Madonna di Briano. Una terra che non ha dimenticato il sacerdote e che «al contrario ha tratto energie e coraggio per il rinnovamento dal suo martirio», dice Sparagna.

L’occasione è particolare perché sono due gli anniversari considerati. Il 19 marzo 1994 a Casal di Principe, dove era nato il 4 luglio 1958, don Peppe veniva ucciso a colpi di pistola nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari, alle 7:20, mentre si accingeva a celebrare la messa. Il suo scritto più noto, la lettera Per amore del mio popolo diffusa a Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana, resta quale manifesto dell’impegno contro il sistema criminale. Ci sono poi gli 800 anni dalla composizione del Cantico delle creature di san Francesco che — sottolinea Sparagna — «in quanto primo canto popolare religioso ben si sposa con la sensibilità di chi vuole ricordare don Peppe sacerdote scout e ben si associa al valore della vita che si vuole celebrare». Al concerto pertanto interviene Davide Rondoni, presidente del Comitato 800, che sottolinea come «in un tempo di depressione o passioni tristi il santo di Assisi è una deflagrazione di vita».

Gli artisti coinvolti, oltre a Sparagna, voce e organetto, sono Gianni Aversano, voce e chitarra; Clara Graziano, voce e organetto; Raffaello Simeoni, voce e fiati popolari; Erasmo Treglia, fiati popolari, violino e ghironda; Alessia Salvucci, tamburelli; Anna Rita Colaianni, voce e direzione del Gruppo vocale Polifonia Aurunca. E per il concerto, oltre al Cantico, ci si è ispirati a Laude antiche dedicate al martirio di Cristo che — afferma Sparagna — «aiutano a capire il valore del martirio nella storia di don Diana». Tornano in mente le parole del sacerdote: «Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione” (…) sino al dono di sé.»

Don Diana vedeva la Campania, definita in passato Campania Felix per le caratteristiche di fertilità, ridotta dalle mafie a «laboratori di violenza e di crimine». Sotto questo aspetto — afferma Sparagna — è importante il richiamo a san Francesco perché «si vuole ripartire dallo sguardo alla ricchezza vitale della natura, proprio del santo di Assisi, per far rinascere il territorio». A questo proposito Sparagna parla di collaborazione fattiva citando il coordinatore del Comitato don Peppe Diana, Salvatore Cuoci, il giornalista e scrittore Raffaele Sardo, il poeta e regista Salvatore Nappa.

Peraltro, la tradizione sacra popolare ha accolto nel suo ampio repertorio musicale una serie di componimenti che descrivono la bellezza e la grandezza del Creato. Ed è tra i terreni agricoli della cittadina casertana di Briano che si avvistano il santuario mariano con il chiostro in cui si svolge il concerto e una piccola chiesa che si distingue per affreschi antichi e moderni. «Da sempre l’essere umano in mezzo alla natura canta», dice Sparagna.

di FAUSTA SPERANZA

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Un Papa alla Biennale per i “serbatoi di doppia creatività”

11 Marzo 2024

Il 28 aprile Papa Francesco si recherà alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte. Si tratta della prima volta che un Papa visita la Biennale di Venezia, che quest’anno si svolgerà, sul tema Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, dal 20 aprile al 24 novembre 2024 e ospiterà il Padiglione della Santa Sede intitolato With My Eyes. L’allestimento della Santa Sede,   installazione fisica e concettuale, ha coinvolto artisti internazionali e si svolgerà all’interno della Casa di reclusione femminile Venezia Giudecca, offrendo una declinazione particolare della questione dei diritti umani e della figura degli ultimi. Significati e valori che accompagnano l’iniziativa sono stati presentati questa mattina in Sala Stampa Vaticana.

Rispondendo alle domande dei giornalisti, il prefetto del Dicastero per la Cultura e l’educazione, cardinale José Tolentino de Mendonça, ha chiarito che «la Chiesa si attende un vero dialogo con gli artisti e non che siano cassa di risonanza». Ha ricordato che «Papa Francesco riconosce l’importanza del senso critico degli artisti che aiuta a pensare», per poi parlare di una polifonia che contiene qualcosa di inatteso o diverso che, anche nelle sue espressioni radicali, può offrire interrogativi o suggestioni utili a rintracciare, ricostruire una visione del sacro. Ha ribadito, dunque, che «la Chiesa si attende un dialogo vero con il mondo e le dinamiche degli artisti».

In conferenza stampa, oltre alla riflessione del porporato  pubblicata in questa pagina,  sono intervenuti Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia della Repubblica italiana; i curatori del Padiglione della Santa Sede, Chiara Parisi e Bruno Racine, che si distinguono tra i curatori più importanti nel panorama artistico internazionale; e il Chief governance officer di Intesa Sanpaolo Paolo Maria Vittorio Grandi. Ha moderato l’incontro Cristiane Murray, vicedirettore della Sala Stampa Vaticana.

Giovanni Russo ha raccontato della profonda emozione provata nel rispondere alla proposta di ospitare in carcere la mostra voluta dalla Santa Sede, ricordando che «trasformare l’attesa in speranza è lo scopo degli istituti penitenziari: l’attesa di tornare a vita diversa da quella che ha portato a subire una condanna». Si tratta del «compito difficile di produrre una revisione critica dell’agito che ha condotto alla condanna e alla reclusione». Sono tante le iniziative che avvicinano le persone detenute all’arte, ha detto Russo per poi sottolineare però che nessuna è comparabile con quella voluta dalla Santa Sede per il coinvolgimento relazionale, per lo spessore in termini artistici nonché mediatici. Inoltre, «la partecipazione delle detenute ha raggiunto livelli mai visti».

Gli artisti coinvolti sono otto: Maurizio Cattelan, Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Fontaine, Sonia Gomes, Corita Kent, Marco Perego & Zoe Saldana e Claire Tabouret. Il punto è che le detenute, di età intorno ai 40 anni,  “ospitano” l’evento negli spazi comuni dell’Istituto penitenziario e contribuiscono alle creazioni artistiche. Il catalogo sarà curato da Irma Boom e pubblicato da Marsilio.

Chiara Parisi ha parlato di «serbatoi di doppia creatività», di «moltiplicata energia creativa degli artisti nutrita dalla forza delle detenute». Una forza che in alcuni casi ha significato condividere foto dell’infanzia o di figli, in altri casi è stata veicolata dai componimenti poetici scritti per gli artisti dalle detenute stesse. In sostanza si mette in contatto il vissuto con i valori universali di solidarietà, di coraggio, di pace veicolati attraverso la bellezza. Si declinano in modi molto diversi: dai workshop alla danza, dalle performance ai dipinti.

Dell’esperienza dei visitatori ha parlato Bruno Racine, mettendo in luce come nell’arte contemporanea si possa cercare e individuare «una dimensione spirituale al di là della materialità dell’opera». Si tratta — ha spiegato — di un’esperienza di visita in un luogo particolare per accedere al quale bisogna lasciare documenti e telefonino. «L’unicità della Santa Sede, Stato unico e senza scena artistica nazionale, ha spinto a sperimentare una nuova formula», ha confidato Racine aggiungendo che «la scelta della location è un manifesto, una dichiarazione di attenzione per percorsi particolari di vita mentre la scelta di coinvolgere artisti provenienti da diversi Paesi e senza distinzione di fede testimonia un messaggio universale di inclusione».

È stato ricordato che il carcere femminile Venezia Giudetta è un luogo storico dalla metà dell’Ottocento: è stato un convento al quale venivano affidate donne che la Repubblica di Venezia riteneva dovessero essere “convertite” a vita più degna. In seguito è stato trasformato in una casa di reclusione senza perdere il target femminile. Oggi si trova al centro di una iniziativa che non lo coinvolge solo come luogo di esposizione ma anche come microcosmo relazionale in cui il lavoro artistico si offre nella consapevolezza del contesto.

Parole di ringraziamento per l’invito a partecipare seppure a diverso titolo sono state espresse da Paolo Maria Vittorio Grandi, che ha ricordato che sono varie le iniziative di Intesa San Paolo in altri istituti penitenziari, come a Caserta, Bari, Foggia, con un’attenzione alle famiglie dei detenuti, in particolare ai figli. Grandi ha ricordato l’invito di Papa Francesco a creare modelli di sviluppo  in grado di generare soluzioni nuove per aiutare individui e comunità, e ha affermato che si deve parlare di piani di impresa e non di isolati gesti caritatevoli.

Emerge l’idea di andare oltre ogni desiderio di voyeurismo o di giudizio, assottigliando i confini tra osservatore e osservato, tra chi giudica e chi viene giudicato. E nella convinzione che l’arte sia in grado di esplorare il linguaggio delle emozioni in tutte le sue sfumature facendosi mezzo di comunicazione sociale, la soglia da attraversare è anche quella tra bellezza e speranza.

di Fausta Speranza

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2024-03/quo-059/quando-ti-abbiamo-visto.html

Dietro l’intreccio magico tra note e parole

Alla ricerca delle radici d’autore ne «La cetra e la penna»

23 febbraio 2024

Non sono tutte «solo canzonette», come diceva, ironizzando, un autore del calibro di Edoardo Bennato. Anche se è difficile definire confini e stabilire il livello di “nobiltà intellettuale”, la poesia, quando c’è, si impone. È con questa consapevolezza che ormai dagli anni Cinquanta siamo abituati a fare distinzioni tra prodotti diversi che rientrano in ogni caso nella cosiddetta popular music, che era e resta strettamente connessa all’industria dell’intrattenimento e della comunicazione. L’obiettivo è intravedere la poesia, viva ma nascosta in luoghi da cui è sempre più difficile estrapolarla, anche perché in sostanza gli strumenti tradizionali con cui veniva analizzata e giudicata non funzionano più. In questo contesto offre spunti di riflessione il libro di Marco Testi La cetra e la penna (Roma, Àncora, 2024, pagine 206, euro 19) che mette in luce tracce del filo rosso che ci porta «dalla letteratura alla canzone d’autore», come si legge nel sottotitolo.

Anche nell’ambito del fenomeno di massa, le canzoni possono regalare più di quello che un suggestivo passaggio sonoro o una strofa riuscita o un ritornello efficace siano in grado di offrire. L’esplorazione del significato per così dire autentico di un brano pop passa però attraverso la sensibilità o insensibilità di critici e tempi. E troppo spesso, ad esempio, si è cercato tra le note e tra le righe la valenza politica, mettendo l’accento esclusivamente sui cantautori impegnati sul piano sociale. È stato fatto non senza forzature o pregiudizi, come ha messo in luce lo storico Eugenio Capozzi nel volume Innocenti evasioni. Uso e abuso politico della musica pop (2013), che ha aperto a un’operazione di tipo diversa: ricercare, liberi dalla lente della politica, quello che può essere riconosciuto in termini di significati e cultura. Meno soggettiva, nonché molto interessante, può essere, dunque, l’individuazione di radici o spunti di quel ricchissimo bagaglio culturale che l’Occidente offre dall’Ecclesiaste in giù.

Indubbiamente l’intreccio tra note e parole di alcune canzoni che si sono imposte nella cultura contemporanea tradisce l’eco di espressioni e immagini “d’autore”. In La cetra e la penna i richiami vengono proposti in chiave tematica, cioè in capitoli dedicati a grandi orizzonti esistenziali come il viaggio, la noia, la solitudine, la morte, la follia. C’è anche il tema della risposta a meccanismi imperanti pure nell’ambito culturale: le famose leggi del mercato, secondo le quali, come affermava Oscar Wilde «tutti conoscono il prezzo delle cose ma pochi ne conoscono il valore».

Come illustra l’autore, considerando l’ambito italiano, tra i testi di artisti come Battiato, Dalla, De André, De Gregori, Vecchioni ritroviamo impronte letterarie di tutti i tempi, da Dante a Joice, da Omero a Baudelaire. E c’è anche il «grande codice dell’Occidente», come il cardinale Gianfranco Ravasi ha definito la Bibbia, ricordando che ha insegnato «a intrecciare nel pensare, scrivere e cantare, spirito e corpo, mito e storia, mistica e amore, sacro e profano, ma soprattutto Dio e uomo».

Nei secoli sono diverse e affascinanti le variabili della declinazione musicale dell’agone poetico, di cui la cetra e la penna sono gli emblemi. Ad esempio, la studiosa Ester Pietrobon nel libro intitolato proprio La penna interprete della cetra (2019) si è soffermata sugli anni del Rinascimento, cruciali per la storia della cristianità occidentale e per la letteratura italiana. Si tratta degli anni dei “volgarizzamenti” biblici, e dunque anche della riproposizione in lingua volgare della poesia dei Salmi, e meglio che in altri contesti si avverte la ricchezza del rapporto dinamico tra metrica, sintassi, ipotesto. Una ricchezza da non dimenticare.

Tornando a tempi più recenti, si può dire che, pur tra diversi limiti e distinguo da fare, a partire dalla seconda metà del Novecento, la canzone ha progressivamente occupato gran parte del ruolo sociale che prima spettava alla poesia. È difficile per le nuove generazioni immaginare come agli inizi del secolo scorso un liceale, ovviamente della minoranza che aveva accesso allo studio, cercasse nei libri di contemporanei, da D’Annunzio a Montale, quello che il suo equivalente moderno cerca oggi nei testi di cantanti preferiti. Il punto è che con il tempo, ci piaccia o non ci piaccia, i confini fra cultura “alta” e “bassa” si sono fatti più sfumati. Si usa il termine middlebrow per individuare un tipo di produzione culturale e artistica che si situa subito al di sotto della tradizionale cultura “alta” e che però è adatta all’intrattenimento delle grandi masse alle quali si dice che, a seconda dei punti di vista, fornisca la possibilità o l’illusione di accedere facilmente a prodotti culturali socialmente prestigiosi. Secondo gli studiosi, il middlebrow comprende anche la fascia più “nobile” che si è creata nell’ambito della musica leggera e che per quanto riguarda l’Italia si identifica proprio con i cantautori “storici” del secondo Novecento. Anche per questo può essere importante individuare tracce del bagaglio culturale del passato di cui si sono “nutriti” questi cantautori, sperando che continui a essere fonte di ispirazione per quell’affascinante magia che in tutti i tempi fonde parole, note, pause e intervalli.

di FAUSTA SPERANZA

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2024-02/quo-045/dietro-l-intreccio-magico-tra-note-e-parole.html