Categoria: Osservatore Romano
Primo passo per la riforma del regolamento di Dublino
Accoglienza solidale in Europa
di Fausta Speranza
Italia e Grecia potrebbero non essere più sole nel far fronte alle domande di asilo di tutti quelli che bussano all’Europa. A Strasburgo questa mattina è stato approvato, in sede di commissione ad hoc dell’europarlamento, il testo della nuova normativa Ue sui richiedenti asilo, che finora abbiamo conosciuto come il regolamento di Dublino. Fino ad oggi si vincolava il primo paese di ingresso ad disbrigo di tutte le pratiche, ora, in base a questo testo, ogni paese membro in cui arrivano i profughi deve assumersi la responsabilità di gestire le domande, anche se non si tratta del primo territorio europeo calpestato. Il prossimo passo decisivo, perché la nuova regolamentazione diventi davvero legge europea, è l’approvazione del consiglio dei capi di stato e di governo, che non dovrebbero smentire tante promesse di solidarietà. Ma in ballo non c’è solo il vincolo del primo ingresso, il nuovo testo prevede l’avvio di un sistema automatico e permanente di ricollocamenti.
I tempi sembrano maturi per vedere ormai superata la posizione di quanti hanno remato contro una gestione comunitaria dei particolari flussi migratori che dal 2014 in particolare hanno interessato il vecchio continente. Il sistema in vigore in questi anni ha fatto sì che solo sei stati membri su 28 hanno fatto fronte a quasi l’80 per cento di tutte le richieste d’asilo presentate nell’Ue. Già lo scorso anno il parlamento europeo aveva adottato una risoluzione che raccomandava un approccio olistico al fenomeno migratorio, con il superamento del criterio del primo paese d’ingresso e l’avvio di una vera e propria centralizzazione a livello europeo delle responsabilità sull’asilo. Nel frattempo la commissione europea è riuscita a sbloccare il no di quanti rifiutavano il principio dei ricollocamenti di quote di migranti. Ma la posta in gioco con il nuovo testo è alta proprio perché i paesi membri dovrebbero accettare che diventi un meccanismo costante.
La questione è delicata e complessa anche per altri aspetti. Per esempio, il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) ribadisce la sua raccomandazione centrale: riscrivere il regolamento di Dublino è l’occasione per rivedere anche i criteri guida per le risposte alle domande di asilo. Il presidente del Cir Roberto Zaccaria spiega a L’Osservatore Romano che “vanno ampliati i criteri di requisiti soggettivi dei richiedenti asilo”. In sostanza suggerisce che nel valutare le domande “non vengano considerate solo le parentele strette ma anche affinità di comunità, di paese, senza trascurare lingua e cultura”. L’appello è chiaro: “i criteri vanno ampliati considerando principi di umanità”. Inoltre, non si può dimenticare l’obiettivo finale, che resta quello dell’integrazione. Una volta approvate le domande, deve essere messo in atto un impegno serio, basato – anche in questo caso – su precisi criteri condivisi più possibile a livello europeo.
Osservatore Romano, 20 Ottobre 2017
I tedeschi chiamati al voto
Con l’incognita delle coalizioni
di Fausta Speranza
Alla vigilia del voto in Germania, non sembra ci siano dubbi sul fatto che il cancelliere Angela Merkel vedrà riconfermato il proprio consenso. I sondaggi indicano chiaramente la prospettiva di un quarto mandato per la leader tedesca. Più complesso, invece, il rebus delle alleanze e degli equilibri nella prossima diciannovesima legislatura.
Negli ultimi quattro anni il partito di Merkel, l’Unione cristiano-democratica (Cdu), ha governato insieme con gli alleati del Partito socialdemocratico (Spd). Al momento, entrambi sembrano registrare perdite di consensi intorno ai quattro o cinque punti rispetto alle elezioni del 2013, quando la Cdu aveva ottenuto il 41,5 per cento di voti e la Spd il 25,7. Se il dato fosse confermato, per i socialdemocratici sarebbe il più deludente risultato della loro storia, e questo anche perché, dopo aver chiamato Martin Schulz alla guida del partito a gennaio, si era registrata un’iniziale crescita dei consensi al 30 per cento. La prima incognita, dunque, è se la Spd entrerà in una eventuale grande coalizione o se tornerà all’opposizione. Fatta eccezione per i quattro anni dal 2009 al 2013, i socialdemocratici sono sempre stati al governo dal 1998. Hanno guidato il paese con il cancelliere Gerhard Schröder fino al 2005, poi hanno collaborato con Merkel. Di fatto, hanno preso parte alla compagine governativa per 15 degli ultimi 19 anni.
A crescere è invece Alternativa per la Germania (Afd), partito definito di estrema destra ed euroscettico, fondato nel 2013 dall’economista Bernd Lucke. Afd sembra assicurarsi almeno il 12 per cento dei consensi. Si presenterebbe, quindi, come il terzo partito. A seguire, ci sono il Partito democratico libero (Fdp), cui viene attribuito il 9,5 per cento, e la Die Linke, partito nato dalla fusione tra il Partito della sinistra e il movimento Lavoro e giustizia sociale, che scenderebbe al 9 per cento. In retrocessione anche i Verdi, che sembra non dovrebbero andare oltre il 7,5. Le combinazioni immaginabili tra tutte queste formazioni nel quadro di una futura compagine governativa potrebbero essere molte.
Uno dei temi cruciali della campagna elettorale è stato l’immigrazione. La stampa ha scritto più volte che Afd, molto critico nei confronti dell’arrivo di stranieri, ha allargato i propri consensi dall’autunno 2015, quando il cancelliere decise di aprire le porte a un milione di profughi siriani. Tuttavia, secondo le dichiarazioni di voto registrate finora, la leadership di Merkel non ne sarebbe seriamente intaccata.
L’altro capitolo importante è l’economia. Parlando del successo della leader venuta dalla Germania dell’est, si cita subito la stabilità economica. In effetti, quando Merkel ha assunto per la prima volta la guida del governo nel 2005, la Germania veniva definita “il malato d’Europa”. Il tasso di disoccupazione era sopra l’11 per cento, i conti pubblici non riuscivano più a centrare i parametri del patto di stabilità europeo, tanto che nel 2003 l’allora cancelliere Schröder chiese all’Ue di poter sforare temporaneamente il tetto massimo del deficit, fissato al tre per cento del prodotto interno lordo. Lo aveva fatto con la promessa di attuare le necessarie riforme economiche, che puntualmente sono state portate a termine.
Da allora, l’economia è stata rilanciata e in tutto il mondo si parla di “miracolo tedesco”. La disoccupazione è ferma sotto il 4 per cento — ai minimi dalla riunificazione del 1990 — e dal 2014 il governo di Berlino è l’unico in Europa a registrare avanzi di bilancio. La maggior parte dei tedeschi vede in Merkel la garanzia per proseguire su questa strada.
Il voto in Germania arriva dopo un lungo ciclo di appuntamenti con le urne in Europa: negli ultimi mesi si è votato in Francia, in Spagna, nei Paesi Bassi, in Austria (dove si tornerà a votare per le legislative a ottobre) e nel Regno Unito. Dopo la sorpresa della Brexit, ovunque si sente la pressione dei cosiddetti populismi, anche se gli elettori in Olanda, a marzo, e in Francia, a giugno, non hanno premiato questo tipo di proposte.
Il resto dei paesi dell’Unione europea guarda con attenzione alle elezioni tedesche. I flussi migratori per un verso e la Brexit per un al tro impongono ripensamenti delle regole europee. In discussione ci sono, ad esempio, la revisione del Trattato di Dublino sui richiedenti asilo e il ruolo dei paesi della cosiddetta Eurozona, e quindi il peso di un eventuale “super ministro” delle finanze europeo. Nulla di tutto questo può muoversi senza il contributo della Germania, che resta il primo paese per popolazione: oltre 82 milioni di abitanti.
Si tratta di tutti temi che Merkel stessa ha sollevato nei mesi scorsi. Lo ha fatto in particolare in incontri bilaterali con il presidente francese, Emmanuel Macron, che spinge molto per un rilancio del progetto europeo, ma anche nei vertici cui hanno partecipato anche i leader di Italia e di Spagna, nonché in tutti gli ultimi appuntamenti del consiglio che riunisce i capi di stato e di governo dell’Ue. Ma per impegnarsi davvero Merkel deve aspettare una nuova legittimazione delle urne. L’attesa, dunque, è per capire quali saranno gli equilibri politici interni alla Germania e come il nuovo governo tedesco vorrà e potrà contribuire a rilanciare l’Ue affrontando le necessarie riforme.
L’Osservatore romano, 23 Settembre 2017
Un altro g7
Dalla società civile l’appello ai leader riuniti a Taormina perché affrontino la questione migratoria intervenendo su povertà e guerre
di Fausta Speranza
«Sostituire il concetto negativo che vuole le migrazioni come una minaccia da bloccare, con l’idea positiva di mobilità umana, andando a comprendere le ragioni che fanno muovere le persone: povertà, violenza, cambiamenti climatici e carestie». È una richiesta precisa che parte dalla società civile ed è rivolta ai cosiddetti grandi del g7. Si tratta di decine e decine di organizzazioni, associazioni, movimenti che si riconoscono nella Global call to action against poverty (Gcap). Per il vertice in svolgimento a Taormina hanno preparato un testo da lasciare sul tavolo dei leader, firmato Civil 7, il g7 della società civile.
Da tempo queste riunioni sono accompagnate da manifestazioni di protesta, spesso segnate da azioni di frange estremistiche. L’appuntamento di quest’anno nasce oltretutto in un contesto più ampio di insoddisfazione nei confronti della politica e dei partiti tradizionali. Tuttavia, la mobilitazione del Civil 7 non si esprime attraverso gli slogan dell’antipolitica ma con un concreto e costruttivo appello alla responsabilità della politica.
Ciò che si chiede, infatti, è in primo luogo un intervento diretto su povertà, conflitti, carestie, ovvero di non dimenticare l’Africa e le altre zone da dove partono i flussi migratori. La questione migrazioni, dunque, resta al centro, come è giusto che sia in un vertice ospitato in Sicilia, terra simbolo degli sbarchi dei viaggi della speranza nel Mediterraneo.
Si è a lungo parlato del g7 come del gruppo delle «nazioni sviluppate con la ricchezza nazionale netta più grande al mondo». Ma da tempo non è più così: lo scorso anno, la Cina, seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti, ha ospitato un g20 che ha disegnato nuovi orizzonti. Ma forse per il g7 si può ancora utilizzare un’altra delle definizioni finora consuete: «il gruppo delle maggiori democrazie del mondo». In questo senso, la riunione dei capi di stato e di governo che si ritrovano in Italia deve essere all’altezza di tutti i valori che questa definizione racchiude. E, raccogliendo l’appello forte e chiaro che arriva dal Civil 7, potrebbe scaturire un vertice di rilancio. Anche se, a ben guardare, bisognerebbe concordare sul significato di rilancio.
Gli Stati Uniti, nei dati ufficiali, hanno superato la crisi economica, ma nel paese è in aumento la povertà estrema. Negli anni settanta, quando nasceva il g7, risultava indigente il 3,3 per cento della popolazione statunitense, mentre oggi la percentuale è salita al 6,6 per cento. Della crescita del pil si sono avvantaggiati solo i più ricchi. E ancora oggi, dopo la cosiddetta ripresa, oltre 40 milioni di persone, pur avendo un lavoro, vivono grazie a sussidi statali. Nel Regno Unito, il gap tra fasce sociali non è mai stato così ampio: l’un per cento più ricco dei britannici possiede un patrimonio venti volte superiore a quello del 20 per cento più povero. Anche per questo in molti paesi del g7 aleggiano tentazioni populiste che parlano dell’immigrazione sempre e solo come di un’emergenza. Il documento dei Civil 7 raccomanda di «ristabilire alcune priorità», ricordando che, ad esempio, in Europa il numero degli immigrati equivale al 2 per cento della popolazione continentale, mentre restano senza lavoro il 22 per cento dei giovani. Tra falsi allarmi e vere frustrazioni, si chiedono idee concrete, per il bene comune.
L’Osservatore Romano, 27 Maggio 2017
Il peso del petrolio
Economia e risorse energetiche sul tavolo dei leader al g7 di Taormina
di Fausta Speranza
Uno dei temi cruciali al g7 di Taormina sarà l’economia e il rilancio dello sviluppo. Sotto questo profilo, la partita geopolitica del petrolio gioca un ruolo chiave. Non è un caso quindi che proprio domani, 25 maggio, si tenga a Vienna la riunione dell’Opec (l’organizzazione che raccoglie i principali paesi esportatori). L’obiettivo è capire se ci sarà una nuova proroga di sei mesi del taglio della produzione oppure se si deciderà di attuare il taglio subito per frenare la corsa a ribasso del greggio. A tre anni dal primo consistente crollo del prezzo del barile, si tratta ora di vedere quali cambiamenti reali stiano avvenendo intorno a quella che è stata negli ultimi decenni la più importante commodity del mercato, che ha cambiato i rapporti economici e geopolitici del mondo.
A giugno 2014 il prezzo del greggio raggiungeva i 106 dollari al barile. Poi è precipitato fino a 30 dollari, riassestandosi successivamente intorno ai 40. Oggi, dopo un leggero rialzo nelle due ultime settimane in vista della riunione Opec, ristagna intorno ai 50 dollari.
Le conseguenze socio-politiche sono sotto gli occhi di tutti. Basti pensare alla crisi che stanno attraversando paesi come il Venezuela, l’Algeria, la Nigeria e l’Angola, la cui economia si basa sull’esportazione del petrolio. Sotto un certo livello di prezzo, per questi paesi le spese per l’estrazione del greggio sono maggiori dei guadagni.
Alle decisioni che verranno prese a Vienna guarderà anche la Russia pur non facendo parte dell’Opec. E perfino l’Arabia Saudita, che ha le riserve più grandi al mondo e i costi medi di produzione più bassi. Riad ha avvertito il colpo del crollo del prezzo del barile, varando un anno fa un’inconsueta finanziaria con forti ristrettezze.
Il mercato del greggio paga soprattutto lo sviluppo delle nuove tecniche di estrazione messe a punto negli Stati Uniti. In effetti, da tempo Washington ha scommesso sull’autonomia in campo energetico e ha puntato sulle tecniche di fracking, che consistono nello sgretolare le rocce ed estrarre il petrolio che si ricava, anche se non allo stato liquido. Nonostante il basso costo del greggio che avrebbe dovuto scoraggiare gli investimenti, questo tipo di estrazioni alternative e particolarmente onerose — oltre che dannose per l’ambiente — è cresciuto molto. A ciò si aggiunge il fatto che l’Europa, dal canto suo, si è impegnata a ridurre il consumo di materie fossili per motivi ambientali, puntando sulle energie rinnovabili.
A compensare la grande domanda di consumo di energia dovrebbe essere la Cina, in grande espansione industriale, nonché altre nazioni emergenti dell’Asia. Ma, a conti fatti, questi paesi non hanno inciso in maniera sostanziale. Almeno fino a oggi. L’interrogativo che gli analisti del settore si pongono è se ci sia ancora qualcuno in grado davvero di muovere il prezzo del petrolio. E questo significa domandarsi se il petrolio resta ancora l’oro nero in grado di influenzare gli equilibri geopolitici.
L’Osservatore Romano, 25 Maggio 2017
Riparte da Pechino il libero commercio
Investimenti e impegni dal vertice sulla via della seta
di Fausta Speranza
La Cina “custode” della globalizzazione e del libero commercio. È l’immagine che emerge dal summit che ha riunito a Pechino i delegati di oltre cento nazioni, con i vertici di Nazioni Unite, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale. Ventisette dei trenta capi di governo presenti hanno sottoscritto l’appello «contro ogni nuova forma di protezionismo» promosso dal presidente cinese Xi Jinping. Appello legato a doppio filo alla nuova “via della seta”, un progetto che muoverà ottomila miliardi di dollari, cioè venticinque volte il piano Marshall. Xi ha parlato di «sviluppo aperto» e di «inclusività dall’Asia all’Europa» in controtendenza rispetto alle nuove strette doganali annunciate dagli Stati Uniti. Tuttavia, va detto che a Pechino si è recato il consigliere della Casa Bianca Matt Pottinger il quale ha parlato «con favore» di piani infrastrutturali e di «possibili servizi di grande valore da parte di società statunitensi».
Più che la cifra degli ottomila miliardi, da record è l’orizzonte temporale previsto per la realizzazione della nuova “via della seta”: entro il 2020. Anche se il paragone con il piano Marshall voluto dagli Stati Uniti per l’Europa all’indomani della seconda guerra mondiale è azzardato per tutte le differenze del caso, serve comunque a rendere l’idea del notevole impegno economico che ruota attorno alla One belt one road (una cintura, una via). Il progetto prevede investimenti per infrastrutture ferroviarie e portuali dall’Asia centrale all’Europa, passando per Asia del sud e Medio oriente. Decine di progetti si stanno negoziando o sono già stati negoziati, come il caso del porto del Pireo in Grecia. Pechino ha messo sul tavolo 124 miliardi di dollari. Il tutto si muove attraverso uno strumento essenziale: la Asian infrastructure investment bank, nata a Pechino nel 2014.
Il presidente cinese ha proposto «una piattaforma aperta di cooperazione e un’economia mondiale aperta». E all’universo commerciale che accusa la Cina di non rispettare le norme sul dumping, ha detto che il mondo deve creare condizioni che promuovano «norme commerciali e d’investimento globali, ragionevoli e trasparenti». In sostanza, sembra di capire si tratti di nuove norme commerciali.
Tra i favorevoli, il cancelliere dello Scacchiere britannico, Philip Hammond: ha dichiarato al vertice che il suo paese è «un partner naturale», ormai proiettato nel dopo Brexit. Tra i critici, il ministro del commercio australiano, Steven Ciobo, che ha affermato che «accanto alle opportunità sulla via della seta, non si possono dimenticare interessi nazionali da difendere». Xi Jinping ha affermato: «Non interferiremo negli affari interni di altri paesi, non esporteremo il nostro sistema di società e il nostro modello di sviluppo, e ancor di più non vogliamo imporre i nostri punti di vista». Sono proprio queste parole a chiarire che la questione si fa decisamente politica oltre che economica. E tra entusiasmi o perplessità, c’è chi già ha sollevato un preciso problema. È stata l’India, di cui tutti gli analisti hanno notato l’assenza a Pechino. New Delhi non è d’accordo con il progetto del corridoio da 57 miliardi tra la Cina e il Pakistan che passa per il Kashmir.
Di «prospettive di pace che si aprono» si è detto convinto il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ricordando che «oggi la Cina è il motore dell’economia globale» e che «questo progetto avvicina le persone, favorisce non solo lo sviluppo ma anche il bene del mondo». Sempre che «tutti ne escano vincitori».
A calcolare la cifra degli otto trilioni da mettere in campo entro tre anni è stata la Asian development bank. È chiaro che non sarà solo il governo cinese a investire. Ciò nonostante, il grosso dell’impegno è pensato da Pechino e spetterà alla Cina, che rappresenta la seconda economia mondiale. Nel primo trimestre di quest’anno ha registrato una crescita del 6,9 per cento. Nonostante che ad aprile l’espansione della produzione industriale abbia rallentato, si potrebbe sempre chiudere il 2017 al 6,5 per cento. Ma c’è chi, proprio dall’interno, avverte su possibili rischi. L’economista Shi Yinhong, esperto di affari internazionali della Renmin University di Pechino, ha scritto che «la Cina deve evitare un eccessivo espansionismo, che porterebbe a conti scoperti strategici». La scommessa è per tutti.
L’Osservatore Romano, 17 maggio 2017
Cresce il peso dell’Asia
Nello scacchiere economico internazionale
di Fausta Speranza
Geopolitica e investimenti. Mentre si parla sempre più di globalizzazione da rivedere, di spinte al protezionismo negli Stati Uniti, di nuovi rapporti commerciali da ridisegnare per Europa e Regno Unito, cresce il progetto della Banca asiatica di investimenti (Asian infrastructure investment bank). Da domani, 12 maggio, sale a 77 il numero dei paesi partecipanti al piano di investimenti promosso da Pechino e legato alla “Nuova via della seta”. Una visione, questa, dalla forte suggestione storica, ma estremamente concreta nei risvolti economici e di politica estera.
Da tempo si discute di riforme degli organismi internazionali usciti da Bretton Woods, cioè la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Ora, con il progetto della Banca asiatica di investimenti cominciano a emergere nuovi equilibri. La Banca è un’istituzione finanziaria internazionale fondata dalla Repubblica popolare cinese nel 2014 e operativa da gennaio 2016. I paesi fondatori sono i 57 stati che hanno aderito entro il 31 marzo 2015; tutti gli altri possono avere solo lo status di «componenti». Dal 12 maggio alla Banca aderiranno sette nuovi stati. Tra questi, ci sono anche Grecia e Romania. Due giorni dopo, il 14 maggio, Pechino ospiterà il Forum One Belt One Road (Obor) al quale quest’anno partecipano diversi capi di governo europei, tra cui l’italiano Paolo Gentiloni. Un vertice di cui — secondo gli analisti — ci si occuperà sempre di più, come si fa oggi per il summit economico che ogni anno si tiene a Davos, in Svizzera, dove, peraltro, nel 2016, per la prima volta, prese la parola il presidente cinese Xi Jinping.
Il quadro geopolitico nel quale viene a posizionarsi la Banca asiatica di investimenti è dominato da due pilastri: la Banca mondiale, da sempre sotto l’ombrello degli Stati Uniti, e il Fondo monetario internazionale, che ha sede a Washington ma che, per una sorta di bilanciamento tra paesi occidentali, risponde in modo diretto agli input e alle nomine decisi in sede europea. Questo è stato l’assetto mantenuto finora, in linea con quanto emerso dalla riunione del 1944 a Bretton Woods, che ridisegnava gli equilibri mondiali dopo la seconda guerra mondiale. In tale ambito è nata nel 1966 l’Asian development bank (Asdb) per combattere la povertà e assicurare aiuti ai paesi asiatici più bisognosi. Ma la Asdb è e resta una banca regionale, voluta su iniziativa degli Stati Uniti, del Giappone e di alcuni paesi europei. Non si tratta di un vero progetto asiatico, pensato e realizzato da una vasta maggioranza di paesi. La Banca asiatica di investimenti per le infrastrutture segna dunque un netto cambio di passo in direzione di una maggiore autonomia.
Per capire il bisogno di rinnovamento degli organismi internazionali conosciuti fino a ora, basta ricordare che l’Occidente non ha più la stessa indiscussa leadership economica mondiale che aveva alla nascita della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Ci sono poi dei particolari eloquenti. Per esempio, con la nascita dell’euro non si è assicurata una rappresentanza unica ai paesi che hanno aderito alla moneta unica neanche all’interno del Fondo monetario.
Le prospettive che Pechino apre con il progetto della Banca asiatica si richiamano all’antica via della seta, cioè il percorso delle carovane che un tempo, attraversando l’Asia centrale, collegavano la Cina all’Asia Minore e, attraversando Medio oriente e Vicino oriente, arrivavano al Mediterraneo. Le diramazioni si estendevano poi a est dell’Asia, fino alla Corea e al Giappone, e a sud, in India. La Banca asiatica rafforza questo progetto, coinvolgendo un’area che spazia da Samoa al Bahrain, dal Cile a Cipro, dalla Bolivia all’Azerbaijan, dalla Nuova Zelanda all’Oman, dal Vietnam alla Georgia.
In ogni caso, se si parla di economia e di Cina non si può dimenticare tutto il dibattito intorno alla richiesta di Pechino di ottenere lo status di economia di mercato. La prima formale domanda all’Ue è datata 2003. Ma Bruxelles, esattamente come Washington, non vede riconosciuti tutti i parametri richiesti. In sostanza, il punto focale è che alla Cina viene imputato di non rispettare le regole, in particolare in tema di dumping, cioè concorrenza sleale. Ma già dall’11 dicembre 2001 Pechino è stata ammessa nell’Organizzazione internazionale del commercio (Wto), segnando una sorta di sdoganamento economico, che però la parte cinese non sente compiuto senza il riconoscimento appunto dello status di economia di mercato.
Al momento, di certo c’è che Pechino sta gestendo con grande slancio il progetto mondiale di investimenti sulla nuova via della seta, e che si tratta di un progetto in grado di determinare nuovi rapporti di partnership nel mondo.
L’Osservatore Romano, 12 maggio 2017
L’Algeria e la scommessa della stabilità
Il peso della crisi economica sul voto
di Fausta Speranza
Algeria alla prova elettorale. Nel più grande paese africano, che ha vissuto negli ultimi anni una singolare stabilità nonostante il contesto regionale, si vota oggi per il rinnovo del parlamento. Si tratta di un momento della vita politica che catalizza le più gravi sfide nazionali: dalla difficile successione dell’ottantenne presidente Abdelaziz Bouteflika, in carica dal 1999, al malcontento sociale per le recenti misure di austerity adottate a causa del calo del prezzo del petrolio sui mercati internazionali. Ma la posta in gioco non è solo interna. Dopo le cosiddette primavere arabe e mentre incombono la crisi in Libia, la minaccia terroristica e l’emergenza migrazioni, ai risultati della tornata elettorale guardano con interesse i paesi per i quali l’Algeria è un importante partner energetico. A cominciare da quelli europei, ma anche Turchia, Giappone, Corea del Sud, India e perfino la Cina.
Sono 23,3 milioni i cittadini chiamati a eleggere sia i membri dell’Assemblea nazionale popolare, sia quelli dei consigli municipali e provinciali, che a loro volta nomineranno due terzi dei membri della camera alta. Si tratta delle prime consultazioni che si svolgono dopo le modifiche costituzionali varate nel febbraio 2016. Tra i punti centrali della riforma: la creazione della commissione indipendente per la supervisione delle elezioni (Haute instance indépendante de surveillance des élections), composta da 205 magistrati incaricati da un consiglio giudiziario e 205 esponenti della società civile. La commissione è nominata direttamente dal presidente Abdelaziz Bouteflika, al suo quarto mandato. Le modifiche costituzionali hanno inoltre reintrodotto il limite di due soli mandati per la presidenza, norma che dovrebbe valere per il successore dell’attuale capo dello stato. La riforma ha sancito poi la dissoluzione del Département du renseignement et de la sécurité , temuto organo di controllo, prontamente sostituito con il Département de surveillance et de sécurité. Diversi partiti di opposizione hanno espresso e ribadito la propria preoccupazione per la reale indipendenza di tutti questi organismi dalla cerchia più stretta delle autorità al potere.
Le formazioni politiche riconosciute nel paese sono ben 69, ma sono due i partiti che hanno dominato la scena politica interna a partire dal 1997, quando furono indette le prime elezioni multipartitiche dall’inizio della tragica guerra civile del cosiddetto “decennio nero”, e che formano anche l’attuale coalizione governativa. Il primo è il Front de libération nationale, dello stesso Bouteflika e del primo ministro Abdelmalek Sellal, che al momento conta 208 seggi su 462. Il secondo è il Rassemblement national démocratique che finora non ha superato i 68 seggi e che fa capo a Ahmed Ouyahia, più volte primo ministro e incaricato dal presidente di guidare il processo di revisione costituzionale. I seggi rimanenti sono divisi tra gli altri gruppi.
Negli ultimi mesi è cresciuto il malcontento popolare per i tagli a servizi e sussidi imposti dalla legge di bilancio per il 2017, entrata in vigore il 1° gennaio. Da allora le proteste si sono moltiplicate, con scontri in Cabilia, precisamente nel comune di Béjaïa, una delle più antiche città del paese e oggi grande polo industriale. Il suo porto, scalo petrolifero e commerciale sul Mediterraneo, è in una posizione fortemente strategica dal punto di vista geopolitico. Si protesta perché sembra sgretolarsi il sistema di welfare, fondato proprio sulla redistribuzione, in forma di sussidi e servizi, delle rendite derivanti dalle ricche riserve di idrocarburi del paese, messe in crisi dall’abbassamento globale del prezzo del petrolio iniziato nel 2014. Dopo aver fatto ricorso alle riserve sovrane del paese, quest’anno sono scattati i tagli.
Ma a sgretolarsi è stata anche la stabilità regionale: dal 2011 si sono moltiplicati i focolai di conflitto, in Mali come in Libia, ma, soprattutto, nelle regioni meridionali e del Sahel si è andata intensificando la minaccia del terrorismo di stampo jihadista: una questione di rilevanza non solo locale o regionale ma transnazionale.
L’Osservatore Romano, 5 Maggio 2017
Una moda molto pericolosa
Crescono i casi di alcolismo fra i giovanissimi
di Fausta Speranza
Morti, malattie e disabilità. Le conseguenze di un consumo eccessivo e disordinato di alcol, soprattutto tra i giovanissimi, sono sempre più evidenti. Ogni anno, si contano nel mondo almeno 3,3 milioni di vite spezzate e si registrano casi di ben 230 patologie legate all’alcol. Eppure sono sempre di più i ragazzi che si lasciano coinvolgere da mode come il binge drinking, l’assunzione di almeno cinque bevande alcoliche in un’unica occasione.
Aprile è stato il mese della prevenzione alcologica, su indicazione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Ma chi è stato schiavo della bottiglia spiega che, oltre a informare sui danni alla salute, bisogna intervenire per colmare il vuoto esistenziale che porta a bere. E chi fa prevenzione chiede interventi sul piano culturale.
È emergenza nella fascia tra i 15 e i 24 anni e si impenna il grafico che riguarda le donne. Cresce il consumo di amari e superalcolici. In sostanza, è sempre meno diffuso il tradizionale modello di consumo basato sull’assunzione quotidiana di vino durante i pasti e vi si contrappone il modello dell’assunzione occasionale, a qualunque ora e con quantità sempre maggiori. In particolare, è preoccupante quel dieci per cento di ragazzi sotto i 16 anni che l’anno scorso ha dichiarato di aver provato almeno una volta il binge drinking. Tanto che l’associazione Alcolisti anonimi (Aa) ha creato il gruppo Yaa, per quando si aggiunge il fattore Young. Bere un bicchiere appresso all’altro di superalcolici (nonostante il divieto di vendita ai minorenni) si sposa con la pseudo cultura dello “sballo”, che vorrebbe far credere ai ragazzi che solo nella perdita di lucidità e consapevolezza c’è il divertimento. E spesso si associa a stupefacenti.
Il tutto si traduce, secondo l’Oms, che rileva questi dati, in «danni diretti alle cellule di molti organi, soprattutto fegato e sistema nervoso centrale». Dunque, cirrosi epatica, pancreatite, tumori maligni e benigni, epilessia, disfunzioni sessuali, demenza, ansia, depressione. Risulta evidente che il termine inglese binge drinking si deve tradurre come la combinazione di tutti questi rischi e, nella migliore delle ipotesi, con intossicazioni acute.
Non si possono dimenticare poi altri aspetti “collaterali” all’alcol, a partire dal drammatico capitolo degli incidenti stradali provocati dalla guida in stato d’ebbrezza. In Europa, le distrazioni al volante sono responsabili di ben il 25 per cento dei decessi tra i ragazzi tra i 15 e i 29 anni.
Di tutti questi aspetti dà conferma Michela, che fa parte proprio del gruppo Yaa. Spiega all’Osservatore Romano che l’alcol, alla prima leggera sbronza, regala una appagante lontananza dai propri problemi che conquista chiunque abbia un vuoto dentro e, fin qui, assicura che «non c’è alcuna differenza di età». Ma secondo Michela, «se è un ragazzo a bere, c’è l’aggravante che genitori, parenti o amici tendono a relativizzare: una sbronza è vista quasi come un passaggio di crescita». E «qui arriva il dramma», dice Michela: «Tutto può ruotare intorno al suo bisogno di bere, ma negarlo è facile, come è facile ed economico procurarsi alcol». Michela ricorda che l’alcolismo è una malattia, secondo il pronunciamento dell’Oms del 1958. Ma soprattutto raccomanda di ricordare che «chi è schiavo dell’alcol è malato nell’anima». E «non c’è differenza se esagera con lo champagne o con il vino da tavola, se si stordisce da solo o in compagnia».
Di mancata consapevolezza parla anche Maria Nuovo, presidente della fondazione onlus Oikia impegnata a fare prevenzione in scuole di Roma. Nei ragazzi, dice, «stupisce la bassa consapevolezza dei pericoli», ma soprattutto la «spropositata fiducia nelle proprie capacità di mantenere il controllo della situazione».
In diversi giorni di aprile, in Europa e nel mondo, è stato celebrato l’Alcohol Prevention Day. Lavora tutto l’anno, però, l’ufficio dell’Organizzazione mondiale della sanità dedicato alle ricerche sugli effetti dell’uso smodato di alcol, denominato «Collaborating Centre for research and health promotion on alcohol and alcohol-related health problems». Una lunga definizione che indica in sostanza che si fa ricerca e studio su tutto ciò che gravita tra alcol e salute. Tra tante pubblicazioni, in un documento il Centro chiarisce che «per quanto riguarda i giovani, l’alcol si associa ancora a concetti e situazioni che esprimono dolore, sofferenza, malattia, solitudine, paura, violenza». Ma subito dopo si legge anche che «assume sempre più importanza il piano strettamente culturale», che significa il peso che hanno l’immaginario e il costume.
A questo proposito, emerge e colpisce una raccomandazione esplicitata dagli esperti del Centro: «Tenere sotto monitoraggio le fiction». Se è vero che tanti fattori incidono e che sono investite nella prevenzione tutte le agenzie educative, è vero anche che «il peso che hanno alcune fiction o sit-com nell’immaginario giovanile è molto forte». Parliamo di scelte precise che passano al vaglio di creativi e di registi, ma di cui la politica deve assumersi la responsabilità. Emerge un altro urgente doveroso livello di consapevolezza.
L’Osservatore Romano, 28 Aprile 2017
Turchia a un bivio
Domenica il referendum sulla riforma costituzionale
di Fausta Speranza