L’Algeria e la scommessa della stabilità

 Il peso della crisi  economica sul voto

di Fausta Speranza

Algeria alla prova elettorale. Nel più grande paese africano, che ha vissuto negli ultimi anni una singolare stabilità nonostante il contesto regionale, si vota oggi per il rinnovo del parlamento. Si tratta di un momento della vita politica che  catalizza  le più gravi sfide nazionali: dalla difficile successione dell’ottantenne presidente Abdelaziz Bouteflika, in carica dal 1999, al malcontento sociale per le recenti misure di austerity adottate a causa del calo del prezzo del petrolio sui mercati internazionali. Ma la posta in gioco non è solo interna. Dopo le cosiddette primavere arabe e mentre incombono la crisi in Libia, la minaccia terroristica e l’emergenza migrazioni,  ai risultati della tornata elettorale guardano con interesse i paesi per i quali l’Algeria è un importante partner energetico. A cominciare da quelli europei, ma anche Turchia, Giappone, Corea del Sud, India e perfino la Cina.

Sono 23,3 milioni i cittadini chiamati a eleggere sia i membri dell’Assemblea nazionale popolare, sia quelli dei consigli municipali e provinciali, che a loro volta nomineranno due terzi dei membri della camera alta. Si tratta delle prime consultazioni che si svolgono dopo le modifiche costituzionali varate nel febbraio 2016. Tra i punti centrali della riforma: la creazione della commissione indipendente per la supervisione delle elezioni (Haute instance indépendante de surveillance des élections), composta da 205 magistrati incaricati da un consiglio giudiziario e 205 esponenti della società civile. La commissione  è nominata direttamente dal presidente Abdelaziz Bouteflika, al suo quarto mandato. Le modifiche costituzionali hanno inoltre reintrodotto il limite di due soli mandati per la presidenza, norma che dovrebbe valere per il successore dell’attuale capo dello stato. La riforma ha sancito poi la dissoluzione del Département du renseignement et de la sécurité , temuto organo di controllo, prontamente sostituito con il Département de surveillance et de sécurité.  Diversi partiti di opposizione hanno espresso e ribadito la propria preoccupazione per la reale indipendenza di tutti questi organismi dalla cerchia più stretta delle autorità al potere.

 Le formazioni politiche riconosciute nel paese sono ben 69, ma sono due i partiti che hanno dominato la scena politica interna a partire dal 1997, quando furono indette le prime elezioni multipartitiche dall’inizio della tragica guerra civile del cosiddetto “decennio nero”, e che formano anche l’attuale coalizione governativa. Il primo è il Front de libération nationale, dello stesso Bouteflika e del primo ministro Abdelmalek Sellal, che al momento conta 208 seggi su 462. Il secondo è il Rassemblement national démocratique  che finora non ha superato i 68 seggi e che fa capo a Ahmed Ouyahia, più volte primo ministro e incaricato dal presidente di guidare il processo di revisione costituzionale. I seggi rimanenti sono divisi tra   gli altri gruppi.

Negli ultimi mesi è cresciuto il malcontento popolare per i tagli a servizi e sussidi imposti dalla legge di bilancio per il 2017, entrata in vigore il 1° gennaio. Da allora le proteste si sono moltiplicate, con scontri in Cabilia, precisamente nel comune di Béjaïa, una delle più antiche città del paese e oggi grande polo industriale. Il suo porto, scalo petrolifero e commerciale sul Mediterraneo, è in una posizione fortemente strategica dal punto di vista geopolitico. Si protesta perché sembra sgretolarsi il sistema di welfare,  fondato proprio sulla redistribuzione, in forma di sussidi e servizi, delle rendite derivanti dalle ricche riserve di idrocarburi del paese, messe in crisi dall’abbassamento globale del prezzo del petrolio iniziato nel 2014. Dopo aver fatto ricorso alle riserve sovrane del paese, quest’anno sono scattati i tagli.

 Ma a sgretolarsi  è stata anche la stabilità regionale: dal 2011 si sono moltiplicati i focolai di conflitto, in Mali come in Libia, ma, soprattutto, nelle regioni meridionali e del Sahel si è andata intensificando la minaccia del terrorismo di stampo jihadista: una questione di rilevanza non solo locale o regionale ma transnazionale.

L’Osservatore Romano, 5 Maggio 2017

Una moda molto pericolosa

Crescono i casi di alcolismo fra i giovanissimi

di Fausta Speranza

Morti, malattie e disabilità. Le conseguenze di un consumo eccessivo e disordinato di alcol, soprattutto tra i giovanissimi, sono sempre più evidenti. Ogni anno, si contano nel mondo almeno 3,3 milioni di vite spezzate e si registrano casi di ben 230 patologie legate all’alcol. Eppure sono sempre di più  i ragazzi che si lasciano coinvolgere da mode come il binge drinking, l’assunzione di almeno cinque bevande alcoliche in un’unica occasione.

Aprile è stato il mese della prevenzione alcologica, su indicazione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Ma chi è stato schiavo della bottiglia spiega che, oltre a informare sui danni alla salute, bisogna intervenire per colmare il vuoto esistenziale che porta a bere. E chi fa prevenzione chiede interventi sul piano culturale.

È emergenza nella fascia tra i 15 e i 24 anni e si impenna il  grafico che riguarda le donne.  Cresce  il consumo di amari e superalcolici. In sostanza, è sempre meno diffuso il tradizionale modello di consumo basato sull’assunzione quotidiana di vino durante i pasti e vi si contrappone il modello dell’assunzione occasionale, a qualunque ora e con quantità sempre maggiori. In particolare, è  preoccupante quel dieci per cento di ragazzi sotto i 16 anni che l’anno scorso ha dichiarato di aver provato almeno una volta il binge drinking. Tanto che l’associazione Alcolisti anonimi (Aa) ha creato il gruppo Yaa, per quando si aggiunge il fattore Young. Bere un bicchiere appresso all’altro di superalcolici (nonostante il divieto di vendita ai minorenni) si sposa con la pseudo cultura dello “sballo”, che vorrebbe far credere ai ragazzi che solo nella perdita di lucidità e consapevolezza c’è il divertimento. E spesso si associa a stupefacenti.

Il tutto si traduce, secondo l’Oms, che rileva questi dati, in «danni diretti alle cellule di molti organi, soprattutto fegato e sistema nervoso centrale». Dunque,  cirrosi epatica, pancreatite, tumori maligni e benigni, epilessia, disfunzioni sessuali, demenza, ansia, depressione. Risulta evidente che il termine inglese binge drinking si deve tradurre come la combinazione di tutti questi rischi e, nella migliore delle ipotesi,  con intossicazioni acute.

Non si possono dimenticare poi altri aspetti “collaterali” all’alcol, a partire dal drammatico capitolo degli incidenti stradali provocati dalla guida in stato d’ebbrezza. In Europa, le distrazioni al volante  sono responsabili di ben il 25 per cento dei decessi tra i ragazzi tra i 15 e i 29 anni.

Di tutti questi aspetti dà conferma Michela, che fa parte proprio del gruppo Yaa. Spiega all’Osservatore Romano che l’alcol, alla prima leggera sbronza, regala una appagante lontananza  dai propri problemi che conquista chiunque  abbia un vuoto dentro e, fin qui, assicura che «non c’è alcuna differenza di età». Ma secondo Michela, «se è un ragazzo a bere, c’è l’aggravante che genitori, parenti  o amici tendono a relativizzare: una sbronza è vista quasi come un passaggio di crescita».  E «qui arriva il dramma», dice Michela: «Tutto può ruotare intorno al suo bisogno di bere, ma  negarlo è facile, come è facile ed economico procurarsi alcol». Michela ricorda  che l’alcolismo è una malattia, secondo il pronunciamento dell’Oms del 1958. Ma soprattutto raccomanda di ricordare che «chi è schiavo dell’alcol è malato nell’anima». E «non c’è differenza se esagera con lo champagne o con il vino da tavola,  se si stordisce da solo o in compagnia».

Di mancata consapevolezza parla anche Maria Nuovo, presidente della fondazione onlus Oikia impegnata a fare prevenzione in scuole di Roma. Nei ragazzi, dice, «stupisce la bassa consapevolezza dei pericoli», ma soprattutto la «spropositata fiducia nelle proprie capacità di mantenere il controllo della situazione».

In diversi giorni di aprile,  in Europa e nel mondo,  è stato celebrato l’Alcohol Prevention Day.   Lavora tutto l’anno, però, l’ufficio dell’Organizzazione mondiale della sanità dedicato alle ricerche sugli effetti dell’uso smodato di alcol, denominato «Collaborating Centre for research and health promotion on alcohol and alcohol-related health problems». Una lunga definizione che indica in sostanza che si fa ricerca e studio su tutto ciò che gravita tra alcol e salute. Tra tante pubblicazioni, in un documento il Centro chiarisce che «per quanto riguarda i giovani, l’alcol si associa ancora  a concetti e situazioni che esprimono dolore, sofferenza, malattia, solitudine, paura, violenza».   Ma subito dopo si legge anche che «assume sempre più importanza il piano  strettamente culturale», che significa il peso che hanno l’immaginario e il costume.

A questo proposito, emerge e colpisce  una raccomandazione esplicitata dagli esperti del Centro: «Tenere sotto monitoraggio le fiction». Se è vero che tanti fattori incidono e che sono investite nella prevenzione tutte le agenzie educative, è vero anche che «il peso che hanno alcune fiction o sit-com nell’immaginario giovanile è molto forte». Parliamo di  scelte precise che passano al vaglio di creativi e di registi, ma di cui la politica deve assumersi   la responsabilità. Emerge un altro urgente  doveroso livello di consapevolezza.

L’Osservatore Romano, 28 Aprile 2017

Turchia a un bivio

Domenica il referendum sulla riforma costituzionale

di Fausta Speranza

A nove mesi dal fallito colpo di stato, la Turchia è chiamata a scegliere se diventare o no una Repubblica presidenziale. Oltre 55 milioni i cittadini convocati alle urne nel referendum di domani, domenica 16 aprile, sulla riforma costituzionale voluta dal presidente Recep Tayyip Erdoğan. Il risultato del voto può cambiare significativamente il sistema politico del paese e, dunque, potenzialmente ridefinire le relazioni con il resto del mondo.
Il referendum si svolge mentre è ancora in atto lo stato di emergenza proclamato  dopo il tentativo di golpe dello scorso 15 luglio. Se verrà approvata la riforma, il presidente della Repubblica in Turchia diventerà  capo dello stato e contemporaneamente  capo del governo; avrebbe il potere di nominare e rimuovere uno o più vice-presidenti e i ministri del governo e di far approvare un certo numero di leggi per decreto, oltre a nominare direttamente la maggioranza dei giudici che siedono nella corte suprema.  In sostanza si passerebbe da una repubblica parlamentare a una repubblica presidenziale.
Il governo ha presentato questa riforma come «necessaria per dotare lo stato di un esecutivo stabile» e lasciare definitivamente alle spalle i fragili governi di coalizione degli anni Ottanta e Novanta, prima che salisse al potere, nel 2002,  il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Erdoğan. Gli articoli della riforma sono stati  approvati dal parlamento lo scorso gennaio con una maggioranza di tre quinti, rendendo così necessario il passaggio del referendum. La maggioranza di due terzi  avrebbe permesso di implementare immediatamente la riforma, anche se Erdoğan aveva dichiarato che in ogni caso avrebbe sottoposto la legge al voto popolare.
I partiti che hanno votato sì alla riforma sono l’Akp di Erdoğan e il Partito del movimento nazionalista (Mhp). Il Partito popolare repubblicano (Chp) di centro sinistra  ha votato no assieme ad alcuni dissidenti dell’Mhp. Il partito che rappresenta la minoranza curda, il Partito democratico dei popoli (Hdp), non ha partecipato ai lavori parlamentari dopo che la polizia aveva arrestato una decina di suoi membri con l’accusa di terrorismo.
La riforma costituzionale, che sarà trasformata in legge se il 50 per cento più uno dei votanti si esprimerà per il sì, è fortemente voluta da Erdoğan, che  è diventato capo del governo turco per la prima volta nel 2003. Da allora ha svolto quattro mandati da primo ministro, che in turco si dice  başbakan, per poi essere eletto capo dello stato nel 2014, cioè  cumhurbaşkanı.
Al momento della fondazione nel 2001, l’Akp si era presentato come «un partito filo-occidentale e filo-statunitense, sostenitore di una economia liberale di mercato e per l’adesione della Turchia all’Unione europea». Oggi si propone come «un partito conservatore di centro-destra che ha  conciliato ispirazione religiosa con la laicità dello stato». Ma oppositori e analisti internazionali lo accusano di essere, in realtà, un partito di destra di ispirazione islamica, teso a mettere sotto diretto controllo i vari apparati dello stato, come polizia, magistratura e servizi di sicurezza, e impegnato a rinnegare l’impostazione laica ereditata da Mustafa Kemal Atatürk, padre della Turchia moderna, nata nel 1923.
Alla vigilia del voto, su tutti i media si è aperto un dibattito su quanto la riforma costituzionale, qualora fosse approvata, potrebbe contribuire a spostare l’asse delle alleanze internazionali di Ankara. Accelerando, per esempio, il processo di progressivo allontanamento dall’Ue e dagli Stati Uniti e di avvicinamento alla Russia. Tenendo comunque conto dell’ancoraggio alla Alleanza atlantica, che al momento persiste saldo.
In ogni caso, le implicazioni possibili sarebbero tante e importanti, a partire dalla questione migrazioni, con il delicato accordo in ballo con Bruxelles. Ankara si è assicurata sei miliardi di euro impegnandosi a controllare le frontiere e, dunque, a bloccare la rotta balcanica dei flussi, ma si tratta di un processo da gestire rispettando determinati standard umanitari. Sul tavolo potrebbe però esserci molto di più, considerato anche il contesto geopolitico del drammatico conflitto siriano.
L’Osservatore Romano, 16 Aprile 2017

Nella Repubblica Democratica del Congo

La paura e l’impunità

di Fausta Speranza

Non è guerra, ma non è pace. Sicuramente è impunità. Non si placano le violenze e gli scontri nella Repubblica Democratica del Congo. Nel fine settimana, nella regione del Kasai centrale, miliziani hanno saccheggiato il seminario maggiore di Malole di Kananga, rubando e distruggendo; nella capitale Kinshasa è stata violata e rapinata la parrocchia di San Domenico; nel Nord Kivu sono stati massacrati 25 civili.

 Papa Francesco all’Angelus di domenica ha ricordato violenze e brutalità che colpiscono anche tanti bambini, strappati alle famiglie e alla scuola per farne soldati. Si vive nella paura e nel caos. E regna l’impunità. Impunità per le razzie perpetrate e per le connivenze che permettono il traffico illecito di armi e di preziose materie prime, di cui il paese è ricco. Impunità per lo stallo politico, con un presidente che ha concluso il suo ultimo possibile mandato senza che però si riescano a svolgere le elezioni. E impunità per una comunità internazionale che, da mesi, ripete che il martoriato paese africano è sull’orlo di un nuovo conflitto globale ma non fa niente.

Di sicuro c’è solo il fatto che nella Repubblica Democratica del Congo è in gioco l’instabilità di tutta la travagliata regione dei Grandi Laghi. E il rischio è che si ripeta quanto avvenuto tra il 1998 e il 2003, quando sei paesi africani hanno preso parte a quella che è stata definita la guerra mondiale africana. Cinque milioni e mezzo di morti.

Presidente e parlamento sono fuori tempo massimo dal 19 dicembre. Il voto previsto entro novembre è stato rimandato per questioni legate alle liste elettorali e alle consultazioni locali e provinciali. Di fatto, Joseph Kabila resta al comando. Divenuto presidente in seguito all’assassinio di suo padre Laurent-Désiré Kabila il 16 gennaio 2001, ha compiuto i due mandati consecutivi consentiti dalla Costituzione. La sua presidenza è la più lunga della Repubblica, nata dopo 32 anni di dittatura di Mobutu, arrivato al potere nel 1965 con un colpo di stato e deposto nel 1997.

Facendo un passo indietro, per oltre un secolo la storia di questo paese, vittima di un colonialismo crudele, è stata condizionata da guerre, carestie ed efferate razzie compiute per accaparrarsi le preziose materie prime di cui il territorio è ricco. La prima vera esplosione di sfruttamento e criminalità si è avuta per la raccolta del caucciù, di cui andavano ghiotte le fabbriche nel boom industriale. In seguito, è stata caccia ad avorio, oro, diamanti. Più di recente, si uccide per petrolio e coltan, così prezioso per i telefoni cellulari.

Oggi, Joseph Kabila resta, nonostante le ripetute manifestazioni per chiedere che lasci il potere, sfociate a settembre in scontri con la polizia e costati la vita ad almeno 44 persone. Non è il solo nell’area. In Rwanda, Paul Kagame, dopo un referendum che ha autorizzato la cancellazione del limite dei due mandati, si è ricandidato per la terza volta per il voto quest’anno. In Burundi, Pierre Nkurunziza ha forzato la stessa regola nel 2015. Tutte situazioni potenzialmente esplosive.

Intanto, proprio la provincia congolese che confina direttamente con questi paesi, il Kivu, ospita trafficanti di ogni etnia e vive periodici saccheggi e massacri. Si intrecciano i linguaggi, ma spesso la popolazione locale riferisce di aggressori che si esprimono in lingala, la lingua dei soldati. Le organizzazioni umanitarie denunciano che lo stupro, anche di bambine piccolissime, è l’arma più diffusa per spargere terrore e odio. Segno di una disumanità di fronte alla quale essere solo spettatori significa essere complici.

L’Osservatore Romano 22 Febbraio 2017

Il terzo Forum mondiale dei popoli indigeni

Rispetto e bene comune

di Fausta Speranza

Lo chiamano «supporto integrale»: è il tipo di aiuto che le comunità indigene chiedono al resto del mondo. «Supporto integrale» significa «non considerare solo gli indici economici» ma tutto ciò che rende migliore una comunità e una società, a partire da «un sano rapporto tra generazioni e dall’attenzione all’ambiente». È questo il principio cardine dei documenti di base del terzo forum mondiale dei popoli indigeni, che si è aperto ieri nella sede del Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo (Ifad) a Roma. Un incontro che assume un significato particolare a dieci anni dalla dichiarazione dell’Onu sui diritti di questa fetta di popolazione mondiale. E che ha molto da ricordare anche alle civiltà industrializzate.

Quando si parla di indigeni si parla di circa trecento milioni di persone nel mondo. Si va dai cacciatori kazaki con aquile reali, in Mongolia, ai pastori Himba, in Namibia, dagli “uomini di fango” asaro e gli huli, in Papua Nuova Guinea, ai dagon in Mali, dai nomadi nenet, in Siberia, ai bayaka della Repubblica centrafricana meglio conosciuti come pigmei. Il forum di Roma, al quale prendono parte i rappresentanti di trenta popolazioni indigene oltre ai vertici dell’Ifad, rappresenta un appuntamento di grande importanza per fare un bilancio dello stato dei diritti e delle condizioni di vita di queste comunità.

Per redigere i testi in discussione al forum si sono svolti per due anni intensi dibattiti in cinque macro-aree: Pacifico, Asia, Caraibi, America latina, Africa. Non sorprende che sia l’agenzia dell’Onu per lo sviluppo agricolo a promuovere l’incontro, se si pensa che, nella maggior parte dei casi, è la terra la prima risorsa per queste popolazioni. E la terra è, infatti, anche la prima rivendicazione. Basti pensare alle tribù dell’Amazzonia, ma anche agli ogoni della Nigeria, ai maya del Chiapas. In alcuni contesti anche l’acqua diventa un bene di inestimabile valore da gestire. E poi ovviamente le risorse del sottosuolo, minerali, petrolio, pietre preziose.

La vita di questi popoli conosce ritmi da civiltà preindustriali. Bisogna anche ricordare che nel mondo ci sono almeno cento comunità indigene con le quali ancora non si è entrati in contatto.

Nei documenti in discussione in questi giorni si legge che i popoli indigeni pretendono «il rispetto del loro diritto all’accesso alle risorse» e chiedono che debba passare «attraverso il loro consenso» qualunque decisione significativa che governi e multinazionali prendano sui territori che li interessano. Viene in mente il caso dei sioux nello stato del North Dakota, in America settentrionale, che cercano da tempo di bloccare la costruzione di un oleodotto che profana la terra sacra nella quale hanno seppellito per secoli i loro morti e che, attraversando il Missouri, rischia di inquinare le acque che sono la linfa vitale di questa regione. Dopo manifestazioni e scontri anche violenti con la polizia,  il presidente Obama aveva stabilito di sospendere tutto e trovare un percorso alternativo. Poi, nei giorni scorsi, con un ordine esecutivo, il presidente Trump ha ridato il via ai lavori, sollevando altre polemiche.

Il caso dei sioux è emblematico. Dalle discussioni del forum sta emergendo che, da una parte, in molti casi le rivendicazioni degli indigeni restano inascoltate, ma, dall’altra, che queste comunità, spesso distanti tra loro, stanno trovando mezzi e modalità per accrescere la propria consapevolezza e la comunicazione su temi comuni e principi base. Prima di arrivare alla dichiarazione sui diritti delle popolazioni indigene nel 2007, le Nazioni Unite hanno promosso nel dicembre 1994 un decennio internazionale dedicato alle questioni dei popoli indigeni. Nel 2013 si è svolto il primo forum mondiale, nel 2015 il secondo.

In questa edizione del forum si sente parlare di «uno sviluppo dei popoli che non consideri solo il prodotto interno lordo ma la capacità di una comunità di trasferire il sapere da una generazione all’altra». Colpisce anche il concetto di «reciprocità sociale», declinato molto semplicemente come «l’esigenza di profonda solidarietà tra persone e con la natura». Antonella Cordone, responsabile dell’ufficio dedicato ai popoli indigeni dell’Ifad, spiega all’Osservatore Romano che in queste persone così diverse tra loro si ritrova sempre una convinzione radicata profondamente: «La terra e le sue risorse appartengono anche alle generazioni future, non si può farne un uso scellerato». In definitiva, una rivendicazione fondamentale: il bene comune. Non il profitto di grandi aziende o società azionarie, ma il bene del popolo. Non solo di diritti di minoranze si sta parlando, ma di un messaggio rivoluzionario per tutti, così locale e così globale.

L’Osservatore romano, 11 Febbraio 2017

Westminster al voto sulla Brexit

Mentre la City cerca di salvaguardare i propri interessi finanziari

di Fausta Speranza

È atteso in serata il voto della camera dei comuni britannica sulla legge presentata dal governo di Theresa May per l’avvio della Brexit. Il confronto si sposterà in seguito in commissione parlamentare dal 6 all’8 febbraio; sono stati annunciati diversi emendamenti. Si potrebbero, quindi, allungare i tempi. Intanto, non perde tempo il mondo finanziario della City, che sta mettendo in atto le sue prime strategie a sette mesi dal referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, il 23 giugno scorso.
Il parlamento di Westminster deve dare il suo via libera alla notifica a Bruxelles dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Secondo il regolamento europeo, è il primo passo da fare per aprire il processo di negoziazione che dovrà riformulare i rapporti tra Regno Unito e Ue, e a farlo deve essere Londra. Al momento, sembra sempre più difficile che il governo di Theresa May riesca a ottenere il via libera e ad attivare la procedura entro marzo, come promesso. Il premier avrebbe voluto accelerare il tutto evitando il dibattito a Westminster, ma la corte suprema ha imposto il passaggio parlamentare.
Finora la linea del governo britannico è sempre stata chiara: attuare una «hard Brexit», cioè un’uscita sia dalle istituzioni dell’Unione che dal mercato comune europeo. May ha dichiarato di non essere disposta a «nessun compromesso con Bruxelles per difendere margini di mercato comune». Il punto è che questa posizione, al di là del dibattito all’interno di Westminster, non piace alla City, il gotha finanziario britannico.
Anthony Browne, presidente della British Bankers Association, ha confermato che le banche più importanti di Londra rispetteranno il loro programma: il trasferimento, nel primo trimestre dell’anno, di parte della forza lavoro a Francoforte o a Parigi o a Dublino, o anche a Vienna. Secondo l’istituto di think thank finanziario CityUk, Londra sta per perdere 70.000 posti di lavoro. Il motivo è la preoccupazione per l’incertezza nelle trattative e proprio la prospettiva di una «hard Brexit». Per il cuore finanziario di Londra significherebbe perdere i passport rights, ossia il diritto di vendere servizi e prodotti finanziari al resto d’Europa senza dover pagare dazi e tariffe doganali. Un business che rappresenta circa il 20 per cento del fatturato della City. Browne ha assicurato che le banche non hanno nessuna intenzione di perderlo. I dirigenti della Hsbc, la più grande banca del Regno Unito, hanno fatto sapere che perdere preziosi clienti sarebbe una «Brexit too hard», troppo dura, e hanno chiarito di intravedere «ancora pressioni al ribasso sulla sterlina e crescita ulteriore dell’inflazione». Come dire che non si può perdere tempo.
Guardando la questione da Bruxelles, le banche basate nella capitale britannica prestano all’Europa più di un trilione di sterline. E, dunque, creare il “muro finanziario”, come lo definisce Browne, non conviene neanche ai ventisette. L’amministratore delegato della Deutsche Bank, John Cryan, ha avvertito che, nel caso di una «hard Brexit», «i vantaggi andranno ai mercati di New York, Singapore, Shangai». A meno che non si corra ai ripari «con un mercato del capitale integrato nell’Ue il più velocemente possibile». Significa ricompattare le fila seriamente nell’ambito europeo, trovando un’unione di intenti che, se in passato ha avuto momenti di debolezza, in questa fase storica sembra proprio vacillare. Il negoziato tra Londra e commissione europea, che non potrà durare meno di due anni, si conferma ben complesso su entrambi i fronti.
L’Osservatore Romano, 1 Febbraio 2017

Svolta Radicale

Sanità, ambiente e immigrazione i punti chiave dell’agenda interna del tycoon

di FAUSTA SPERANZA

Svolta radicale: è questa l’espressione usata più volte da Donald Trump per definire le decisioni che prenderà da presidente degli Stati Uniti in tema di politica interna. Tante le questioni sollevate: dalla riforma sanitaria a quella di Wall Street, dalla politica industriale alle grandi infrastrutture nazionali. Dopo le parole, dal 20 gennaio il nuovo capo della Casa Bianca passerà ai fatti. A differenza di Obama, Trump è un presidente forte della maggioranza del suo partito al Congresso, ma è anche vero che il confronto per le presidenziali ha portato divisioni nel paese non solo tra repubblicani e democratici ma anche all’interno del Grand Old Party. Da abolire perché troppo costosa e, in realtà, fallimentare: la posizione di Trump sulla riforma sanitaria di Obama è chiara, ma resta da definire la strada da percorrere per assicurare un’alternativa in un campo che sta molto a cuore ai cittadini statunitensi. Nei giorni scorsi Trump ha affermato di avere come obiettivo «un’assicurazione sanitaria per tutti», lasciando intendere che chiarirà presto i punti precisi del suo piano. E sempre in campo sanitario ha fatto ancora più scalpore l’annuncio di un nuovo corso nei rapporti con le case farmaceutiche che — ha detto il tycoon in un’intervista al «Washington Post» — «dovranno trattare sui prezzi con il governo per abbassare i costi». La riforma sanitaria viene vista comunque come un singolo aspetto della questione sociale più vasta, segnata da una crisi che risulta superata negli indici economici, ma è ancora viva sulla pelle della gente, soprattutto della classe media. Il tasso di disoccupazione resta del 5 per cento in un paese abituato a livelli vicini allo zero. La promessa di Trump è stata precisa: migliorare la vita di tutti coloro che si sono sentiti danneggiati dalla globalizzazione. Di qui l’intenzione di rivitalizzare l’imprenditorialità nazionale, dando avvio al piano per il rinnovamento delle infrastrutture e chiedendo alle imprese di tornare a produrre negli Stati Uniti. Un altro capitolo importante è l’ambiente. In campagna elettorale Trump si è distinto per il pesante ridimensionamento delle politiche per arginare i cambiamenti climatici e ha fatto alcune proposte concrete in tema di energia: abolire o riformare il Clean Power Plan (la legge del 2015 sulle energie pulite) e soprattutto il Clean power plan for existing power plants (sulla riqualificazione degli impianti), che potrebbe implicare effetti sulle emissioni di anidride carbonica. C’è poi il nodo dell’immigrazione. Molti suoi elettori hanno votato convinti che gli stranieri mettano in pericolo il loro standard di vita e, dunque, si aspettano l’annunciata espulsione di tre milioni di clandestini e la costruzione del muro per bloccare gli ingressi irregolari dal Messico. Ma tutto ciò dovrebbe reggere alla prova dei fatti. I media hanno riferito che un piano per le espulsioni potrebbe costare seicento miliardi di dollari e richiederebbe l’uso di un contingente di novantamila persone come «personale per l’arresto». Sembra molto difficile da attuare anche se, bisogna ricordarlo, l’amministrazione uscente ha rimpatriato milioni di immigrati. Sembra più facile invece ipotizzare che, come promesso, Trump decida di sospendere il programma Deferred action for childhood arrivals promosso da Barack Obama. Il programma permette alle persone senza permesso di soggiorno che sono state portate nel paese da bambini di lavorare legalmente ed essere protetti dall’espulsione. Il nuovo presidente potrebbe poi sospendere con altrettanta facilità anche il programma per l’accoglienza dei rifugiati siriani. Obama ha avviato questi programmi emanando ordini esecutivi, che non sono permanenti come una legge approvata dal Congresso. Trump potrebbe quindi cancellarli già nel primo giorno del suo mandato. Si tratta comunque di tutte mosse annunciate e, al momento, restano pagine di storia statunitense ancora da scrivere.

Osservatore Romano, 19-20 gennaio 2017

Mai piegate al male

Le due yazide vincitrici del premio Sacharov sfuggite all’Is

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Da schiave a paladine della lotta al razzismo

di Fausta Speranza

            «È sempre difficilissimo raccontare di essere state schiave del sesso, ma è diverso sentir parlare di numeri o incontrare vittime, ed è per questo che siamo qui a ricordare».  Sono parole delle due ragazze yazide che sono state per mesi nelle mani di uomini del cosiddetto Stato islamico (Is) in Iraq. Raccontano in un’intervista in esclusiva all’Osservatore Romano che «l’Is odia ciò che più è umano, a partire dal valore della persona» e  «perseguita soprattutto yazidi e cristiani». Mettono in guardia sui «gravissimi rischi del radicalismo e del terrorismo» ma anche sui «pericoli delle risposte sbagliate a tutto ciò e di ogni forma di razzismo».

            Nadia Murad Basse e Lamya Haji Bashar appartengono alla comunità degli yazidi, una minoranza religiosa, di etnia curda, con 4000 anni di storia. Hanno ricevuto il premio Sacharov per i difensori dei diritti umani dal Parlamento europeo, nei giorni scorsi. Le abbiamo incontrate subito dopo: hanno rispettivamente 23 e 18 anni e lo stesso sofferto, ma intenso, proposito di denunciare, perché «ancora 3000 giovani yazide sono in schiavitù». C’è tanto coraggio e tanta dignità nelle espressioni di queste due ragazze minute, dagli occhi addolorati ma determinati. Dalla comunità internazionale si aspettano «la creazione di zone protette per il mezzo milione di yazidi che altrimenti moriranno o si riverseranno in Europa» e il giudizio della Corte penale internazionale sui «crimini contro l’umanità che l’Is commette».

            Nadia e Lamya vivevano a Kocho, un villaggio vicino alla città di Sinjar, nel nord dell’Iraq, a poca distanza dal confine siriano. Il 3 agosto del 2014 miliziani dell’Is hanno portato l’orrore: hanno ucciso gli uomini, hanno catturato i bambini e le donne, che hanno passato in rassegna, «per poi uccidere quelle che non avrebbero reso soldi al mercato delle schiave del sesso». La madre di Nadia è stata freddata da colpi di arma da fuoco davanti ai suoi occhi, insieme con altre 85 madri di famiglia o sorelle maggiori. Lamya ha visto calpestare i cadaveri di disabili e anziani ed è stata catturata con le sue sei sorelle, che sono ancora  nelle mani dell’Is, «se non si sono uccise». Sia Nadia che Lamya raccontano di tante ragazzine che «appena possono si tolgono la vita», non sostenendo tanto strazio. Le giovanissime in pubertà vengono «iniziate alla schiavitù con il rituale dello stupro di gruppo». Rituali e pratiche si ritrovano teorizzati in un agghiacciante manuale di 32 pagine scoperto in vari covi dell’Is e pubblicato nei mesi scorsi dai media. Emerge una “burocrazia” delle violenze, listini prezzi e contratti d’acquisto delle schiave “notarizzati” da giudici.  Si legge di «jihad sessuale» con le «femmine bottino di guerra». Proprio così si sono sentite appellare più volte le due ragazze, fragili nel fisico e forti nello spirito, che sono riuscite a scappare in momenti diversi, dopo essere state vendute più volte.

            Nadia, dopo tre mesi, è stata aiutata da una famiglia vicina a un campo profughi. Non vuole svelare maggiori dettagli perché ha paura per loro. Dal campo profughi è giunta in Germania.  Il 20 dicembre del 2015 ha ripetuto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la sua storia. A settembre di quest’anno è stata nominata ambasciatrice dell’Onu in tema di tratta di esseri umani. Confida che i riconoscimenti ricevuti le «restituiscono quell’onore che l’Is voleva sopprimere», ma avverte: «Il radicalismo e il terrorismo sono ovunque e si deve fare di più». Quando le chiediamo se crede ancora nel Bene dopo aver conosciuto tanto male, ci risponde senza esitazione: «Più il male mi toccava e più trovavo in me la forza di Dio che mai mi ha abbandonata; e più trovavo il Bene». E aggiunge: «Hanno ucciso mia madre, ma non hanno cancellato i suoi insegnamenti ad amare e a pregare».

            Lamya è riuscita a fuggire dopo otto mesi e al suo terzo tentativo,  dopo vessazioni e violenze ogni volta peggiori. Ha oltrepassato la zona controllata dall’Is con altre due compagne, ma, a due passi da lei, una delle due è saltata in aria su una mina delle tante disseminate dai miliziani. È sopravvissuta solo Lamya, che ha perso l’uso di un occhio ed è rimasta gravemente ferita al volto, su cui porta i segni dell’esplosione, dello choc per la morte atroce delle amiche, delle torture cui è stata sottoposta. Per lei è difficile anche abbozzare un sorriso. Ripete, con pacatezza ma fermezza, che «esseri umani non possono essere ridotti a merci». Con voce tremolante, aggiunge:  «Non ho mai visto un barlume di pietà in nessuno dei tanti uomini che mi ha violata o costretta a confezionare cinture esplosive». E aggiunge: «L’Is non è l’islam: l’islam è un’altra cosa».

            Nadia ci lascia con una raccomandazione. Chiede di «spiegare bene al mondo» che «oggi si devono fronteggiare due grandissimi rischi: il pericolo del radicalismo e del terrorismo ma anche il pericolo di risposte sbagliate in cui cresce lo spazio per qualche forma di razzismo». Il suo appello è chiarissimo: «Bisogna prevenire ogni forma di radicalismo e razzismo, sempre più pericolosi ovunque».

L’Osservatore Romano, 20 Dicembre 2016

Un filo ideale

Giornata mondiale contro la violenza sulle donne

di Fausta Speranza

         Dal 25 novembre al 10 dicembre corre un filo ideale: la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne, che si celebra oggi, si collega alla giornata voluta, dal 1948, per il riconoscimento dei diritti umani.

         Pur trattandosi sempre di violazioni dell’integrità e del valore della persona, nel 1999 l’Assemblea generale dell’Onu ha voluto una giornata a parte per ricordare che il settanta per cento delle donne nel mondo sono vittime di violenza fisica o sessuale da parte di uomini. Ma non va dimenticato il legame che deve portare prima o poi a ricongiungere le due giornate. Di dignità di ogni essere umano come tale, in ogni caso, si tratta.

         Oggi più di cento paesi sono ancora privi di una legislazione specifica contro la violenza domestica. Casi aberranti, come l’acido gettato su volti femminili, continuano a registrarsi soprattutto in Asia meridionale, perfino in Europa. Gli stupri non diminuiscono. Tralasciando i casi di sevizie sessuali come arma di guerra nei conflitti, si stima che ogni 22 minuti uno stupro avvenga in India, seconda nazione più popolosa del mondo. Anche in paesi abitualmente considerati all’avanguardia su questi temi, le cifre sorprendono: in Canada una donna su diciassette è stata vittima di violenza sessuale e la Svezia detiene il triste primato di stupri tra i paesi europei.

A questo si aggiungono tutte le difficoltà nel denunciare questi fatti terribili. Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Onu, solo una donna su cento se la sente di uscire allo scoperto e parlare. Ovunque non diminuiscono molestie e violenze sessuali, anche di gruppo. Diminuisce solo l’età di vittime e aguzzini e aumenta il numero di quanti vengono ripresi con il telefonino e finiscono su internet, amplificati nella loro ferocia. L’indigenza e le mancate opportunità di studio riguardano un numero di ragazzine doppio rispetto ai coetanei maschi.

         In un simile scenario, che cosa fare? Nel rapporto dell’Onu per il 25 novembre 2016, si legge che «deve diffondersi sempre di più la consapevolezza che la violenza contro donne e giovanissime è non solo una violazione dei diritti umani, ma è anche una emergenza sanitaria e un serio ostacolo allo sviluppo sostenibile». Il messaggio è chiaro e urgente: «C’è ancora molto che si può e si deve fare in termini di risposte e di prevenzione», anche nei casi di violenza psicologica oltre che fisica.  Si parla di «azioni concrete nel sociale e di sensibilizzazione profonda per cambiare il piano della mentalità diffusa», che è «ancora ovunque troppo incline all’accettazione».

         La responsabilità è di tutti, come ha sottolineato anche il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, affermando che «la violenza, l’abuso, usati come strumento di imposizione, sopraffazione, sono il volto di una visione primordiale dei rapporti tra le persone che va contrastata anzitutto da parte della comunità». Ricordando che «a sommarsi sono violenze collettive e individuali, generate da guerre e conflitti, dal prevalere di stereotipi aggressivi, maturate tra le mura domestiche, nell’ambito di relazioni sentimentali», Mattarella ha rinnovato un appello chiarissimo: «A questi abusi non possiamo rassegnarci, perché ne va della dignità umana».

         L’Onu propone quest’anno mobilitazioni in tutto il mondo colorate di arancione, tinta scelta per simbolizzare un futuro luminoso senza violenza. E l’invito è a mantenere vive le iniziative almeno fino al 10 dicembre, perché il filo corra più stretto tra le due giornate e la trama dell’impegno si rafforzi ovunque. Ne va del valore universale della persona.

Osservatore Romano, 25 Novembre 2016

Unione senza responsabilità

La revisione del regolamento sul diritto di asilo

di Fausta Speranza

Sulla questione migrazioni è drammaticamente evidente la mancanza di una risposta comune dell’Europa. E il rischio è che ogni nuova mossa confermi la stessa carenza. Dalle bozze di revisione del regolamento di Dublino, infatti, sembra emergere una preoccupante rinnovata fermezza nel chiudere le frontiere verso l’Europa settentrionale.

Tra i tanti aspetti da affrontare, c’è l’urgenza di ridefinire i regolamenti sulle richieste di diritto di asilo, dopo il riconoscimento da parte di tutti dell’inadeguatezza del trattato firmato nella capitale irlandese nel 1990, e già riformulato nel 2003 e nel 2013. Un lungo percorso, che dice la complessità del tema e il continuo evolversi delle emergenze, ma che racconta anche la difficoltà di trovare intese tra i paesi dell’Ue.

La crisi migratoria, iniziata molto prima ma esplosa nel 2015 e aggravatasi nel 2016, ha infatti messo in luce tutte le carenze di un sistema concepito nell’impianto un quarto di secolo fa. Se ne è parlato molto e la questione è allo studio della commissione europea. Ed è doveroso chiedersi in quale direzione si vada.

Tra i nodi da sciogliere, c’è quello delle liste dei paesi ritenuti «non sicuri». Solo provenendo da uno di questi, infatti, si ha diritto allo status di rifugiato. Con fatica si è arrivati a una lista comune, ma ogni stato continua a fare riferimento alla propria. Un solo esempio: se il richiedente asilo è un afghano, in Italia può vedersi riconosciuto lo status di protezione internazionale con un tasso del 100 per cento, in Bulgaria con un tasso del quattro per cento.

Ma il vero rebus da risolvere è decidere quale stato debba esaminare la domanda di protezione internazionale. Finora si è sempre indicato lo stato di primo arrivo. Ma, con gli sbarchi di migliaia di profughi, gli stati di ingresso si sono ritrovati di fronte a una mole di lavoro insostenibile. Basti pensare alle emergenze nel canale di Sicilia, che gravano sull’Italia, e a quelle sulla rotta balcanica riversatesi sulla Grecia.

C’è anche un altro aspetto da considerare. In base alla normativa vigente, neanche chi ha ottenuto l’asilo ha diritto a spostarsi in un altro stato. È per questo che i richiedenti rifiutano spesso di presentare domanda o di adempiere agli obblighi di identificazione nel primo luogo di approdo, perché non vogliono rimanere lì. È successo ai tanti che, sbarcati in Grecia e in Italia, volevano raggiungere la Germania o la Svezia e sono rimasti praticamente “intrappolati”. Molti di loro ancora lo sono sulle isole greche.

Da tutte queste situazioni è nata l’urgenza di rivedere le norme di Dublino. E ci si aspetterebbe, dunque, innanzitutto una modifica che porti verso una qualche forma di distribuzione delle responsabilità. Ma le bozze dei nuovi regolamenti, di cui si discute a Bruxelles, suscitano perplessità, perché contengono una serie di «deterrenti» e «vere e proprie punizioni» per i migranti che vogliano spostarsi all’interno dell’Unione.

A lanciare l’allarme è il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), un’organizzazione umanitaria indipendente costituitasi nel 1990, su iniziativa delle Nazioni Unite. Al Cir spiegano che scongiurare i cosiddetti movimenti secondari non può essere la priorità assoluta. Mettono in luce alcuni punti positivi delle bozze: il primo è l’assicurazione dell’assistenza legale gratuita per ogni richiedente asilo, che al momento non è garantita ovunque; il secondo è il riconoscimento di eventuali nuclei familiari formatisi nei lunghi viaggi che questa gente deve affrontare o nelle lunghe permanenze nei centri di accoglienza. Ma il punto è che, al di là di questi elementi positivi, nell’impianto generale manca un’assunzione di responsabilità comune. Al Cir parlano di «ossessione» contro i movimenti secondari.

Torna, dunque, la stessa guerra agli spostamenti dichiarata dopo l’ipotesi dei ricollocamenti, cioè della ridistribuzione tra gli stati europei di quote di migranti. È stato il consiglio che riunisce tutti i capi di stato e di governo dell’Ue a prendere questa decisione, ma poi alcuni paesi, in particolare quelli del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia), hanno alzato un muro. E la ridistribuzione di 160.000 profughi, prevista entro settembre 2017, non procede, con conseguenze gravissime sugli hotspot in Italia. Ancora una volta manca un’assunzione comune di responsabilità.

Osservatore Romano 16 Novembre, 2016