La Somalia e la sfida del futuro

Dopo il rinvio delle elezioni

di Fausta Speranza

La Somalia non ce la fa ad affrontare la prova delle elezioni. Il voto per il rinnovo del parlamento, previsto in questi giorni e in qualche modo atteso da decenni, è stato rimandato a data da destinarsi. Cade così anche la possibilità di scegliere il nuovo presidente entro il 30 ottobre. Per il paese del Corno d’Africa è una sconfitta sulla via di una difficile stabilizzazione politica. Resta il valore della testimonianza di Fadumo Dayib, emigrata in Finlandia e laureata ad Harvard, che è ritornata in Somalia per candidarsi alla presidenza, scommettendo contro conflitti, corruzione, povertà, e sfidando gli altri candidati uomini.

Da parte delle autorità somale non è stata data una spiegazione ufficiale alla decisione di rimandare le consultazioni. Ma da settimane divergenze sullo svolgimento del processo elettorale si sono mostrate con sempre maggiore evidenza. In base al calendario, concordato solo il mese scorso, 14.000 delegati designati dal governo avrebbero dovuto eleggere i componenti della Camera alta e quelli della Camera bassa fra il 24 settembre e il 10 ottobre. Nulla di tutto questo si è però messo in moto.

Dopo la dura guerra civile degli anni novanta, seguita al rovesciamento del presidente Siad Barre e costata la vita a 500.000 persone, in Somalia si è aperto un periodo di transizione. E nonostante la formazione nel 2012 di un governo federale il processo di normalizzazione non è ancora giunto a compimento. Non si parla di conflitto aperto, ma non si può parlare nemmeno di vera pacificazione.

L’appuntamento elettorale ormai mancato avrebbe potuto segnare la svolta. Per la prima volta dal 1969 il paese sarebbe stato chiamato a partecipare a elezioni regolari. E l’attesa era forte. Anche se sulle aspettative di molti pesava la preoccupazione per le minacce dei miliziani legati soprattutto al gruppo degli Al Shabaab che hanno intensificato gli attentati nella capitale, Mogadiscio, allo scopo di di intralciare il processo elettorale. Al Shabaab è un gruppo collegato ad Al Quaeda, che continua a mietere violenza facendo proseliti tra i giovani economicamente più vulnerabili e senza istruzione. In Somalia l’85 per cento della popolazione è al di sotto dei 35 anni e cinque milioni di persone soffrono la fame. La carenza alimentare si sta aggravando anche per il rientro, in queste settimane, delle decine di migliaia di somali che si erano rifugiati nel campo di Dadaab in Kenya, chiuso dalle autorità.

Per quanto riguarda il meccanismo di voto, va sottolineato che, al momento, l’accesso ai seggi è consentito solo all’un per cento della popolazione, che è di 12 milioni di abitanti. Quell’un per cento consiste nei capi anziani dei principali clan riconosciuti nel paese. A loro, infatti, spetta il compito di scegliere i 14.000 delegati, ai quali spetta poi il compito di indicare i membri del parlamento. In questo modo si vorrebbe consentire un’equa ripartizione dei seggi: 61 seggi ai clan principali e i restanti 31 suddivisi tra i clan minori. Il timore evidenziato dagli analisti internazionali è comunque quello che, attraverso questo sistema elettorale, gli interessi dei clan più piccoli finiscano in secondo piano a tutto vantaggio di una specifica élite politica.

Il suffragio universale è ancora un miraggio. Ma al momento l’obiettivo più sentito è quello di superare l’avvicendamento di governi di transizione, dando stabilità alle istituzioni. In questo modo sfuma anche la speranza di avere a breve un nuovo presidente. Entro il 30 ottobre si dovrebbe infatti svolgere l’elezione del capo dello stato. Ma, considerata la situazione, non saranno necessari annunci ufficiali per annullare anche questo importante appuntamento. L’elezione del presidente rientra infatti tra i compiti istituzionali del parlamento.

Tra i candidati alla massima carica istituzionale c’è Fadumo Dayib, una donna nata in Kenya da genitori somali 43 anni fa e che ha trascorso la maggior parte della vita in nord Europa. Sua madre, che già aveva perso undici figli per banali malattie, nel 1990 è scappata insieme con la figlia nella speranza di salvarla dalla denutrizione. Fadumo ha chiesto asilo in Finlandia e, 26 anni dopo, è tornata nel suo paese, con l’obiettivo di partecipare alle prime  elezioni libere, vincerle e diventare presidente.

Nel suo programma elettorale ha messo al centro lo scardinamento di alcune pratiche tribali e la lotta alla corruzione. Ha ammesso di ricevere in continuazione minacce di morte. Laureata in Pubblica amministrazione alla Harvard Kennedy School of Government, degli Stati Uniti, ha ottenuto un dottorato presso l’università di Helsinky, occupandosi di sanità e diritti umani. Fadumo incarna la speranza di chi sogna una Somalia profondamente rinnovata.

E che questo fosse possibile lo aveva in certo modo annunciato il vertice dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo dei paesi dell’Africa orientale (Igad) che la Somalia ha recentemente ospitato per la prima volta in trent’anni. Il fatto che Mogadiscio abbia accolto i capi di stato e di governo di Uganda, Kenya, Sudan, Sud Sudan, Etiopia, ha significato un attestato di fiducia da parte del blocco regionale. Ora, a solo due settimane da quel summit, la battuta di arresto per le elezioni. Una delusione per molti sulla quale resta comunque la scelta significativa di Fadumo che, per far fare balzi in avanti al suo paese, è tornata sui suoi passi, in un percorso decisamente controcorrente.

L’Osservatore Romano,  29 Settembre 2016

Europa e questione fiscale

Dopo la multa miliardaria inflitta alla Apple

di Fausta Speranza

Si fa presto a dire ricorso. L’annunciato appello dell’Irlanda sul caso Apple non è così scontato come è sembrato. Dopo la decisione presa dalla Commissione europea di dichiarare illegittimo l’accordo fiscale di Dublino con l’azienda di Cupertino, che per questo dovrebbe rimborsare almeno 13 miliardi, il Governo di minoranza di Fine Gael ne sta discutendo. Ma quello che emerge davvero è il nodo di un’Europa che procede indecisa e zoppa sulla questione fiscale, con una sorta di tabù di cui nessuno parla.

La vicenda nasce dall’accordo stipulato tra Irlanda e Apple tra il 2003 e il 2014, che abbatteva di molto la già favorevole tassazione irlandese. Gli accordi particolari tra azienda e autorità fiscale sono legali. Si chiamano tax ruling. Ma in questo caso, secondo Bruxelles, si sono configurate le premesse di uno sbilanciamento in quello che le normative europee identificano come aiuti di Stato, vietati perché contro il principio di libera concorrenza. Una normativa votata e accettata da Dublino come da tutti gli altri partner europei.

Guardandola dal punto di vista dell’Irlanda, il rimborso per tasse non pagate, tutto considerato compreso interessi, potrebbe arrivare a 18 miliardi. Una somma pari alla spesa sanitaria del Paese in un anno. A Dublino qualcuno la vorrebbe accettare senza appello, anche se andrebbe a scontare il debito pubblico e non sarebbe spendibile sul piano sociale. Vista la crisi scoppiata nel 2010 e il debito con la comunità internazionale, la somma farebbe comunque comodo.

C’è chi difende, invece, in ogni caso il ricorso alla Corte europea per contestare la decisione di Bruxelles. Si tratta del fronte che sostiene che, presi questi soldi, si comprometterebbe il rapporto con le multinazionali che in Irlanda investono molto. Ma è proprio questo fronte, che sembrava il più compatto, a perdere proseliti: si considera infatti che accordi di questo genere non saranno comunque più possibili. E, in realtà, ad attrarre investitori già basta quel 12,5 per cento di aliquota che distingue il Paese dalla media europea del 20 per cento circa. Senza citare l’Italia dove si arriva al 60 per cento.

È questo, dunque, per sommi capi il dibattito in Irlanda. Ci sono poi anche questioni interne ai partiti e agli equilibri nel Governo di minoranza guidato da Fine Gael ma sostenuto da Alleanza indipendente. In ogni caso, si capisce che è un dibattito ben più complesso rispetto all’annuncio di ricorso sicuro.

Dal punto di vista della Commissione, il trattamento spuntato in Irlanda ha permesso ad Apple di evitare la tassazione su quasi tutti i profitti generati dalla vendita di suoi prodotti nel mercato unico europeo. I profitti non venivano registrati laddove si producevano, ma erano allocati ad un head office di due società possedute al 100 per cento dal gruppo Apple: la Apple Operation International (Aoi), per le vendite in America; e la Apple Sales International (Asi), per i prodotti in Europa e altri Paesi. Così, solo una piccola percentuale veniva tassata in Irlanda e il resto sfuggiva. Un esempio concreto: nel 2011, su 16 miliardi di profitti, soltanto 50 milioni sono stati considerati tassabili in Irlanda. Prima dei commissari europei, a denunciare le stesse irregolarità era stato un rapporto di indagine del Senato di Washington, datato 21 maggio 2013.

Non è la prima battaglia sul piano della concorrenza illecita. La Commissione europea ha multato Microsoft nel 2008, per abuso di posizione dominante. E Google, accusata di «abuso del diritto» — cioè di operazioni che, pur nel rispetto formale delle norme, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti — ha dovuto risarcire l’Italia di 320 milioni di euro, a febbraio 2015, per 800 milioni di imponibile prodotto e non registrato in cinque anni.

Il mondo riconosce che su questo l’Europa è avanti. Ma ci si chiede come si possa pensare di procedere ancora tutti insieme sulla normativa sulla concorrenza, gli aiuti di Stato e l’antitrust e andare avanti in ordine sparso sul piano fiscale. L’esperto di diritto europeo, Giandonato Caggiano, docente all’università Roma tre, parlando con «L’Osservatore Romano», denuncia una «asimmetria assurda». E sottolinea che, nel dare la notizia del pronunciamento della Commissione europea, i media hanno presentato la vicenda come il solito braccio di ferro tra i burocrati di Bruxelles e uno Stato membro che cerca la crescita economica come può. Il braccio di ferro è invece con le multinazionali, che sicuramente portano guadagni e indotto, ma viaggiano su sfere tutte loro di profitto e di diritto.

Caggiano denuncia quello che definisce il «tabù della politica fiscale», che resta affidata ai singoli Stati membri, «in modo sorprendente e inaccettabile». Paolo Guerrieri, docente di economia internazionale all’Università La Sapienza, sostiene che si tratta di un generale «processo incompiuto». Parlando con «L’Osservatore Romano», fa il paragone con l’euro e spiega che «quando è stata adottata la moneta unica, non si sono adottate le necessarie conseguenti politiche economiche e finanziarie comuni». Solo con la crisi, scoppiata nel 2008, si è capita, ad esempio, l’urgenza di un’unione bancaria. Ora, di fronte alla Brexit, emerge l’urgenza di affrontare i nodi che restano. Proprio a partire dalla questione fiscale.

L’Osservatore Romano, 11 Settembre 2016

Lo sciame della solidarietà

Tra le offerte di aiuto quella di un centro per anziani dell’Aquila e di un gruppo di rifugiati afghani

di Fausta Speranza

«Abbiamo sentito che L’Aquila veniva colpita di nuovo. Ci è sembrato di avvertire la stessa scossa del 2009». Poche, semplici parole usa il presidente di un centro per anziani del Comune dell’Aquila per spiegare la scelta di aprire le porte della struttura a persone più avanti nell’età colpite dal terribile terremoto di mercoledì notte. Il capoluogo d’Abruzzo rivive il dramma di sette anni fa con l’angoscia nel cuore, ma con tanta voglia di restituire la solidarietà ricevuta allora, che nessuno può dimenticare.

Venanzio Gizzi è il presidente del Centro servizi anziani (Csa) aquilano intitolato al cardinale Corradino Bafile. Racconta all’Osservatore Romano che dopo le 3.36 di mercoledì scorso si è ritrovato con tutti gli operatori e tante persone accorse per strada. Tutti un po’ increduli, perché «la scossa sembrava la stessa di quella distruttiva di pochi anni prima ma danni non ce n’erano». Gizzi in qualche modo cerca di spiegarselo: «Forse è stata diversa la profondità di diffusione o la reazione degli edifici». In definitiva, dopo tanta paura, «ci si è resi conto presto che le case in periferia, costruite dopo il sisma, avevano tutte retto e che tutti gli anziani ospiti del centro non avevano problemi, salvo il bisogno di un po’ di incoraggiamento». Ma Gizzi racconta che nessuno è riuscito ad andare a dormire e che, con il passare dei minuti, man mano che ci si rendeva conto che il dramma questa volta era al di fuori dell’Abruzzo, tra Lazio e Marche, in tanti hanno preso la macchina e si sono diretti verso le zone colpite, ricordando i volti di chi arrivava a portare un qualche aiuto nella notte di quel 6 aprile 2009 che ha cancellato il centro storico dell’Aquila. «Chi ha ricevuto aiuto, ora non può stare fermo», dice Gizzi.

E, nel 2009, l’aiuto per il Csa dell’Aquila è stato molto concreto. L’edificio era crollato e 50 anziani sopravvissuti sono stati accolti nell’ospedale privato di San Camillo a Sora, nel Lazio. Sono stati lì fino all’inizio del 2015, quando il centro ha riaperto all’Aquila. La struttura, che poggia su 15.000 metri quadri di terreno, conta oggi 80 stanze. Trenta saranno messe a disposizione «degli anziani terremotati, non importa da dove provengano, tra Amatrice o Accumoli, o tra Arquata e Pescara del Tronto». Si tratta di stanze che erano state appena predisposte per quello che in termini medici si chiama il servizio di «ospedale di comunità», cioè un’accoglienza per chi dal punto di vista sanitario potrebbe essere curato a casa ma logisticamente non riesce. Tutto era pronto per valutare alcuni casi, ma ora, afferma Gizzi, tutti concordano sulla priorità di accogliere alcuni dei tanti anziani sfollati, dopo il crollo delle proprie case.

La disponibilità è stata espressa ed ora, riferisce Gizzi, al centro ci si appresta a preparare le stanze, certi che qualcuno accoglierà l’offerta. Il Centro è dotato anche di una palestra, una piscina, un teatro e una cappella. Proprio oggi avrebbe dovuto essere inaugurata l’area del parcheggio, l’ultima ad essere allestita, ma «il festeggiamento non ci sarà» dice Gizzi. Tutto è rimandato «a quando tornerà un po’ di normalità».

Il caso dell’Aquila non è isolato. C’è ancora chi promette prefabbricati dal Friuli ricordando la tragedia del 1976. E, senza il tono accorato di chi ancora rivede davanti a sé le scene di distruzione, sono in tanti, da diverse regioni, a chiamare la protezione civile o i comuni per offrire un tetto. Ci sono le iniziative di singoli, come quella di due albergatori di Rimini che hanno offerto alcune delle loro stanze o di un altro che si è offerto da Salerno. E ci sono anche iniziative di categoria, come quella dell’associazione Turismo verde, che fa capo alla Confederazione italiana agricoltori: nelle prossime ore pubblicherà la lista degli agriturismi pronti ad aprire la porta.

Ci sono anche tante storie di aiuto e impegno che restano nell’ombra. Come quella di sette giovani rifugiati afghani che fanno parte di un progetto di assistenza del sistema Protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) ad Amatrice. Sono rimasti illesi ma hanno rifiutato il trasferimento in altre strutture di accoglienza e si sono impegnati, con gli altri soccorritori, in particolare per cercare due mediatrici culturali che li hanno assistiti e che ancora risultano disperse.

E ci sono le centinaia di autovetture private che portano tende e coperte. Lo conferma la Croce rossa. Un suo operatore ad Amatrice — che non vuole essere citato perché «non importano i nomi ma solo il servizio» — spiega che «la gente sa che questi posti colpiti dal sisma sono paesini ad una certa altitudine, circa 1000 metri, e che dunque, dopo il giorno assolato, la temperatura di notte scende» e ha pensato di dare coperte e tende. Poi, con un mezzo sorriso dice che «un sacco di gente arriva anche con macchine piene di generi alimentari, che servono meno perché le provviste ci sono». Ma aggiunge: «Qualunque cosa che sa di aiuto comunque fa bene al cuore di questa gente».

Osservatore romano 26 Agosto 2016

Mani tese tra le macerie

 

Insieme ai volontari preti e parroci per prestare soccorso

di Fausta Speranza

Ragazzi, tanti ragazzi che continuano a scavare. Sono arrivati dai paesi vicini ad Amatrice subito dopo la terribile scossa, in piena notte. Tanti li ha chiamati a raccolta don Fabio Cammarata, parroco di Cittareale, a pochi chilometri da Amatrice. Ci racconta subito del dramma e di questa immagine di speranza: giovani saltati giù dal loro letto, in altre aree appena interessate dal sisma, per arrivare a dare una mano. È solo uno dei sacerdoti che troviamo impegnato in prima linea a scavare.

All’Osservatore Romano don Fabio parla rubando minuti al suo impegno a rimuovere pietre e calcinacci e ad ascoltare persone che gli vanno incontro. È gentile e disponibile a raccontare, ma con l’essenzialità di chi ha a che fare con persone tra la vita e la morte. È stato sacerdote ad Amatrice e si sente, mentre parla al telefono, che qualcuno lo riconosce. Chiedono notizie di parenti, di amici e chiedono che cosa si può fare. Don Fabio cerca di indirizzare tutti nei centri di raccolta disposti dalle autorità. È l’unica cosa da fare, ci conferma, oltre a offrire le proprie braccia per strappare vite umane alle macerie. Don Fabio descrive quello che torna in tutte le cronache: «Intere zone della cittadina completamente crollate». Anche proprio là dove si doveva svolgere la sagra della pasta cucinata secondo la tradizione locale, sabato prossimo. Per questo, la città era al suo pieno stagionale, tra parenti che risiedono altrove ma tornano d’estate come affezionati villeggianti, e veri e propri turisti appassionati di arte culinaria. Il sacerdote ci dice che in faccia ai suoi giovani si legge la voglia di piangere di fronte allo scempio, ma prevale in tutti, ragazzi e ragazze, la forza di lottare contro il tempo. Le prime ore sono determinanti per salvare più vite umane possibile. Don Fabio dice che «non c’è bisogno di ricordarlo a nessuno». È il pensiero non espresso di tutti.

Sono passate già molte ore dall’arrivo in piena notte e la polvere taglia la voce. Si sente nelle parole di don Savino D’Amelio, parroco di Sant’Agostino, ad Amatrice. Anche lui corre tra un punto e l’altro della cittadina. Con affanno riferisce della preoccupazione di tutti: «Ognuna delle persone che si muove tra gli spazi ingombri delle vie, ha almeno una persona cara da piangere, perché ritrovata morta, o da piangere perché ferita o perché ancora sepolta da pietre e architravi». E don Savino riferisce che «tre delle sei suore dell’ordine delle Sorelle Ancelle, che si trovavano nella struttura dell’Opera Don Minozzi ben conosciuta in paese, sono irraggiungibili sotto le macerie». Si tratta di suore anziane ospiti per questo periodo estivo.

Ma tutti esprimono grande preoccupazione per quanto può essere successo ad Accumoli, il paese che risulta isolato ma che dall’alto si presenta devastato. Dopo ore di apprensione, dalla diocesi di Rieti si è riusciti a contattare don Cristoforo, parroco dei Santi Pietro e Paolo. Sta bene anche se provato dal disastro generale e impossibilitato a muoversi tra i vicoli intasati di detriti. Anche lui non riesce ad avere una visione d’insieme di quello che davvero è accaduto nella località dove neanche gli elicotteri riescono ad atterrare.

Le diocesi coinvolte sono due: quella di Rieti, nel Lazio, colpita al cuore ad Amatrice e ad Accumoli; e la diocesi di Ascoli Piceno, nelle Marche, terribilmente ferita nel paese di Arquata e in particolare nella frazione di Pescara del Tronto, quasi rasa al suolo. La testimonianza di don Francesco Armandi, parroco di Santa Croce a Pescara del Tronto, che si è svegliato coperto di polvere e pezzi di intonaco, si riassume nell’espressione «desolante». Gli fa eco don Alessio Cavezzi, direttore della Caritas locale, il quale assicura che quanti sono rimasti vivi stanno preparando il terreno ai soccorsi. Non è facile. Tra l’altro, tutte le utenze sono state interrotte.

Anche dalla diocesi di Ascoli Piceno sono partiti gruppi di aiuto. Uno si distingue. Si tratta di venti richiedenti asilo, quasi tutti nordafricani, che sono ospiti di una struttura nel paese di Monteprandone. Appena si sono resi conto che nella vicina cittadina di Amandola c’era bisogno di soccorsi, hanno chiesto e ottenuto di recarsi a prestare aiuto. Sono seguiti dalla protezione civile comunale. Amandola è un altro dei centri che non si citano perché i danni non sono paragonabili alle quattro comunità colpite al cuore, ma che presenta, come altri, ferite, tra gli edifici e tra la popolazione.

In generale, il direttore delle comunicazioni sociali della diocesi di Rieti, David Fabrizi, che raggiungiamo al telefono mentre cerca disperatamente di arrivare ad Accumoli, afferma che «ancora non è stata scattata la vera fotografia di quanto accaduto». Ancora «non ci può essere piena consapevolezza. Ci potrà essere solo nelle prossime ore». Fabrizi riferisce dell’apprensione di monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti che, appena arrivato a Lourdes martedì, dopo pochissime ore, ha ripreso il primo volo a disposizione per essere già nel primo pomeriggio tra la gente della sua diocesi. Trovandosi in vescovado, arrivare nei centri più colpiti di Pescara del Tronto e di Arquata è quello che ha fatto monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno.

Intanto, i vescovi italiani hanno stanziato un milione di euro dei fondi dell’otto per mille. È la prima immediata risposta della Conferenza episcopale. Inoltre la Cei ha promosso una colletta nazionale per il 18 settembre. La raccolta avverrà in concomitanza del ventiseiesimo Congresso eucaristico nazionale. Coinvolgendo parrocchie, istituti religiosi e aggregazioni laicali, si vuole assicurare un contributo nell’immediato, e poi si vuole raccogliere offerte da inviare alla Caritas italiana.

Osservatore Romano 24 Agosto

Dove inizia il traffico di esseri umani

 

Un fenomeno dalle radici profonde

di Fausta Speranza

«Siamo solo all’inizio e devono aprirsi tanti occhi che ancora non vogliono vedere». Con queste parole suor Eugenia Bonetti, responsabile del settore “Tratta donne e minori” dell’Unione superiore maggiori d’Italia e fondatrice dell’associazione Slaves No More, spiega che c’è tanto e tanto lavoro da fare contro lo sfruttamento a fini sessuali o di lavoro forzato, perché i trafficanti sono «abilissimi ed espertissimi nel cambiare le strategie» ma soprattutto perché «ci sono falle nella cultura dominante che aiutano proprio chi fa affari con la tratta». Ma poi suor Bonetti annuncia all’Osservatore Romano un’iniziativa che lascia intravedere che qualcosa può cambiare e che ha per protagonista l’Africa, una terra che ha deciso di alzare la testa.

Non si può dimenticare che l’ondata di flussi migratori aiuta l’ignobile fenomeno della tratta, ma, secondo suor Eugenia, resta il dramma di «una società in cui tutto si può comprare». Una società che «per esempio, regolarmente insegna ai suoi giovani che il corpo della donna è in vendita». La convinzione della suora, che in questi anni si è distinta per l’impegno a strappare dalla prostituzione centinaia di ragazze, è che di leggi contro lo sfruttamento degli esseri umani ce ne siano tantissime, ma che «non si può aspettare che i Governi incrementino la lotta se non cambia qualcosa nella profondità della mentalità dominante».

La religiosa non ha dubbi: «Si chiudono tanti occhi sulla pelle dei poveri, perché in fondo, a eccezione dei poveri, tutti ci guadagnano». E povertà, sottolinea, è carenza di mezzi e di risorse ma soprattutto è l’essere esposti a diventare «carne in vendita per prostituzione o organi da espiantare». Ma tutto questo esiste — sottolinea la suora che non ha paura di denunciare sfruttatori mafiosi in cui si imbatte avvicinando donne mercificate sulle strade — perché «la domanda è tanta. Serve una società diversa in grado di recuperare il valore della persona».

Ma suor Bonetti cambia tono di voce quando anticipa all’Osservatore Romano che a settembre ci sarà in Nigeria un convegno dedicato alla tratta che ha la caratteristica di essere «tutto africano». L’accento di soddisfazione tradisce chiaramente la speranza che il continente diventi protagonista nella lotta a un fenomeno che finora l’ha visto come terra di materiale umano da sfruttare. La religiosa annuncia che il convegno si terrà ai primi di settembre ad Abuja tra esponenti delle diverse zone dell’Africa, su iniziativa di Caritas internationalis. Chiede che trovino spazio sui media iniziative importanti come questa, oltre a tanti allarmismi xenofobi.

Esattamente di valori e giustizia sociale parla all’Osservatore Romano Alfonso Giordano, anche se la sua competenza specifica attiene alla geopolitica e ai flussi migratori, quale docente presso l’Università Luiss. Alla domanda su quanto le recenti ondate di flussi alimentino il drammatico fenomeno della tratta di esseri umani, Giordano assicura che si deve parlare di un raddoppio, ma immediatamente ci tiene a sottolineare che «i media amplificano, parlando di invasione, un fenomeno che in Europa non è affatto allarmante e che, con una gestione più opportuna, potrebbe seguire un corso positivo». Secondo Giordano, non è questione di numeri ma di «crescenti diseguaglianze sociali all’interno dei Paesi e tra Paesi», che rappresentano «il vero punto da affrontare» perché sono il motore dei flussi. Così come bisogna capire che quanti affrontano i viaggi della speranza «lo fanno anelando al benessere economico ma anche allo stato di diritto dei Paesi europei». Dunque, anche nelle parole di Giordano, la tratta è questione di giustizia penale ma soprattutto di giustizia sociale.

Sul piano sociale si svolge da sempre il lavoro delle Caritas. L’organizzazione umanitaria cattolica è impegnata sul campo a livello di strutture locali, europee e internazionali. Alain Rodríguez è il responsabile della comunicazione di Caritas Europa. Interpellato dal nostro giornale risponde che il «primo antidoto allo sfruttamento» è «dare l’opportunità alle persone di essere indipendenti economicamente e, dunque, non soggette a nessuna delle forme di ricatto che aprono la porta alla tratta».

Rodríguez conferma l’impegno degli operatori della Caritas tra i tendoni allestiti per accogliere migranti o nelle strutture dove transitano i richiedenti asilo. Ma vuole spostare l’attenzione su altri fronti meno noti, che rappresentano «le frontiere che la società civile non deve dimenticare». Fa l’esempio di un’iniziativa in Austria, terra non di disperato primo approdo dei migranti ma di secondo accesso. Racconta dell’hotel Magdas, una struttura nata a Vienna, per iniziativa della Caritas locale, impiegando tutto personale reclutato tra rifugiati. L’obiettivo è «assicurare un lavoro che mette al riparo da qualunque reclutamento in uno dei meandri della criminalità organizzata che gestisce la tratta».

Tutto questo può aiutare a evitare che ogni anno si consumi un’altra Giornata mondiale contro la tratta solo tra cifre e dichiarazioni di sdegno.

Osservatore Romano 30 Luglio 2016

La parte sommersa del web

 

Propaganda e armi dell’Is viaggiano sulla rete parallela a quella che conosciamo

di Fausta Speranza

Gli esperti la chiamano capacità di resilienza. È la reazione che permette al mondo di internet di rispondere alla chiusura di una pagina con l’apertura di altre cento. È la caratteristica che rende difficile combattere il deep web, quella rete profonda, parallela al web che tutti conoscono, nella quale però domina l’illegalità. Quella stessa rete dove ragazzi, come il diciannovenne che ha trucidato il sacerdote a Rouen, intessono contatti con il mondo del terrorismo o, come nel caso del diciottenne autore della strage di Monaco, si possono procurare armi.

Questa dark net — come viene chiamata — non si raggiunge con i comuni motori di ricerca e i suoi contenuti non sono indicizzati da Google. Secondo alcuni esperti, si tratta di oltre il 95 per cento del materiale che circola nel cyberspazio, la parte sommersa dell’iceberg internet, dove trovano spazio traffici di ogni genere, da quello delle armi alla pedopornografia, dalle droghe al commercio degli organi, per finire con quella che sembra essere, al momento, l’ultima frontiera: la compravendita di materiale radioattivo. Per non parlare poi della propaganda a favore di organizzazioni terroristiche.

Alessandro Burato, esperto di politiche della sicurezza, docente presso l’Università cattolica del Sacro Cuore, spiega all’Osservatore Romano che proprio il commercio illegale di materiale radioattivo è il campo «sul quale stanno più lavorando esperti britannici, dopo la scoperta dell’offerta di pezzi di uranio impoverito».

Quello che maggiormente colpisce della realtà del web criminale è la sua relativa facilità di accesso e di utilizzo. Non serve un computer con prestazioni particolari e non è richiesta neanche una specifica preparazione da parte di chi vi accede. È una rete nascosta, ma neanche tanto. Basta un browser ad hoc, in grado di leggere protocolli di rete diversi dal tradizionale http, e saper utilizzare l’interfaccia. Ma, spiega Burato, «si trovano linee guida per imparare». All’inizio dell’anno sono comparsi su alcuni siti liberamente accessibili suggerimenti su come accedere alla dark net, come pure trucchi per camuffare e nascondere eventuali tracce della propria navigazione online.

Al mercato della dark net, insieme con aberranti offerte di video con piccoli vittime di abusi o di fucili d’assalto, ci sono anche prodotti più comuni. Per esempio, tante produzioni cinematografiche e televisive, distribuite in violazione di ogni norma antipirateria. Con il rischio crescente di una banalizzazione dell’illegalità. È il terreno in cui il confine tra lecito e illecito svanisce, aprendo la strada a legittimazioni pericolose.

Burato ricorda che «la pirateria cinematografica si trova usando il programma Tor, che presenta caratteristiche da dark net ma che risulta ormai conosciuto a molti». Il software, il cui acronimo significa The Onion Router, garantisce l’anonimato all’utente che commette il reato di scaricare film senza autorizzazione e impedisce la tracciabilità della connessione o del tentativo di connessione. Queste caratteristiche fanno sì che lo stesso programma venga però utilizzato anche per aggirare censure e blocchi in quei Paesi dove Internet non è accessibile a tutti. Ma questo non fa altro che dimostrare la complessità del fenomeno.

Tutto questo non fa che complicare l’azione di indagine e repressione da parte delle forze dell’ordine, sia a livello nazionale che internazionale. Tuttavia anche questo sofisticato e occulto mondo della dark net potrebbe avere il suo anello debole. È quello delle transazioni economiche. Per forza di cose, trattandosi di un mercato, ci saranno dei pagamenti che da virtuali alla fine divengono reali, rimpinguando le tasche dei trafficanti. Anche immaginando percorsi che rimbalzano su piattaforme fittizie e codici criptati, ci devono essere alla fine interconnessioni con delle transazioni reali. Ed è qui la cerniera tra cybercriminalità e criminalità “ordinaria” che utilizza paradisi fiscali, corrompe, ricatta.

Il lavoro di chi indaga sul deep web si muove, dunque, su diversi terreni non facili, con la caratteristica alla quale ci ha costretto internet: l’extraterritorialità. Emerge quindi la necessità di una più efficace collaborazione tra sistemi investigativi, a livello internazionale e innanzitutto a livello europeo. Burato ricorda che «lo scambio tra servizi di polizia postale tra Paesi dell’Ue esiste, ma che si sente sempre più l’esigenza di un sistema di intelligence europea».

Quando si indaga su realtà come queste, infatti, ci si mette su binari che finiscono facilmente nel cono d’osservazione dei servizi segreti. È per questo che Burato sottolinea «l’urgenza di un sistema di intelligence europea» altrimenti, dice, «la cooperazione si arena». È un’urgenza viva più che mai di fronte all’escalation di episodi di terrorismo o di follia collettiva sul territorio del vecchio continente.

Ma un’intelligence europea è pensabile solo in presenza di una governance centrale comune, diversa da un insieme di Governi che in qualche modo cercano di coordinarsi. La prospettiva è praticamente la stessa che è stata più volte evocata in campo economico, quando di fronte alla crisi dei mercati finanziari e alle critiche alla moneta unica si è evidenziata la mancanza di un polo centrale in grado di assicurare vere e proprie politiche monetarie comuni che accompagnassero la nascita dell’eurozona. Ed è anche la stessa prospettiva che emerge in tema di migrazioni, quando torna l’appello a una politica unitaria che vada oltre le possibili scelte nazionali di apertura o chiusura delle frontiere.

Ma non è poca la strada da fare in questo senso sul terreno della storia dell’integrazione europea. E non è decisamente detto che si voglia andare in questa direzione, visto le spinte di movimenti antieuropeisti.

Certamente, fenomeni come la dark net vanno ben oltre l’ambito europeo, per sconfinare nel mare della globalizzazione digitale. Ma, in questo mare, muoversi come realtà europea sarebbe meglio che farlo come singolo Stato. Il mare presenta le stesse insidie ma è come navigarci su una barca più forte e solida rispetto a farlo su un piccolo scafo.

Osservatore Romano 28 Luglio 2016

La Liberia vuole farcela da sola

 

La difficile ma tenace scommessa del piccolo Paese africano

di Fausta Speranza

Povertà, postumi della guerra civile, missione Onu. Sono tutti termini che servono, per una volta, non a denunciare uno dei tanti scenari di instabilità e sofferenza al mondo ma, piuttosto, a raccontare la scommessa di rinascita che sta vivendo la Liberia. Questo Paese dell’Africa occidentale, che è stato tra i più colpiti dalla ferocia delle armi, dalla cecità dalla dittatura e poi dalla forza distruttiva di ebola, oggi saluta i soldati della forza di peacekeeping internazionale perché il loro lavoro è finito. Non tutte le ferite sono state risanate, ma il Paese si sente in grado di voltare pagina.

D’ora in poi, saranno le forze dell’ordine liberiane a garantire la sicurezza. Dopo 13 anni di missione, gli uomini del contingente di pace delle Nazioni Unite il 30 giugno hanno passato le consegne alle forze armate locali e stanno lasciando il piccolo Paese africano. Si è trattato di una delle missioni più strutturate in Africa, con 42 nazioni che hanno contribuito con propri militari e 35 con personale di polizia.

Il tessuto sociale della Liberia — di poco più di 111.000 chilometri quadrati e una popolazione di poco più di un milione di abitanti — è stato lacerato da due guerre civili (dal 1989 al 1996 e dal 1999 al 2003) e da una dittatura, quella di Charles Taylor, che dal 1997 ha consentito uccisioni e torture, suscitando ribellioni e repressioni che sono costate la vita a 200.000 persone. L’uscita di scena di Taylor — che è stato condannato dalla Corte dell’Aja per i crimini di guerra e contro l’umanità avvenuti nella vicina Sierra Leone — è stata negoziata: l’esilio in Nigeria a patto di non essere perseguito in patria.

Al momento a Monrovia, la capitale, c’è un Governo di unità nazionale che riunisce vari esponenti delle diverse fazioni che si erano combattute. Una scelta difficile, così come è stato per la riammissione alla vita politica, decisa cinque anni fa dalla Corte Suprema liberiana, di Prince Yormie Johnson, uno dei militari che aveva fatto sequestrare, torturare e poi uccidere l’allora presidente Jamuel K. Doe. Ma tutto questo fa parte della scommessa di riconciliazione che si gioca questo Paese, che già nel nome proclama di credere nella libertà, e che ha avuto nel 2011 la soddisfazione di veder assegnato il Premio Nobel per la pace al suo presidente Ellen Johnson Sirleaf.

La nascita della nazione liberiana risale intorno al 1822, quando aziende private statunitensi finanziarono il rientro nel continente nero di schiavi di origine africana. E la capitale Monrovia prese il nome del capo della Casa Bianca dell’epoca, James Monroe. Non è solo una curiosità storica, è il segno di un rapporto privilegiato con Washington.

A caratterizzare l’azione delle autorità al potere, c’è la lotta senza frontiera alla corruzione. Il presidente, che è anche capo dell’Esecutivo, ha assunto iniziative clamorose, come il licenziamento del personale di interi settori impiegatizi e la riassunzione solo di quanti potevano dimostrare di non avere avuto implicazioni in affari illeciti.

La lotta all’illegalità è il primo passo affinché le considerevoli materie prime che il Paese possiede, a partire dai diamanti, divengano effettivamente un bene comune. La Liberia gode della crescita di circa il 4 per cento del Prodotto interno lordo, come altri Paesi dell’area del Golfo di Guinea. Non è povera di acqua e non manca neanche di potenzialità agricole. Ma la questione aperta è l’equa distribuzione di queste ricchezze e di queste potenzialità tra tutta la popolazione.

Fa impressione ricordare che in due anni l’epidemia di ebola ha falcidiato 4.800 persone. Passata l’emergenza, anche con il contributo internazionale, ora il settore sanitario sta tornando alla normalità. Ma in Liberia questo significa avere, per ogni 100.000 abitanti, un solo medico e appena 80 posti letto.

Mentre nella stessa area geopolitica dell’Africa subsahariana Paesi come il Mali e la Nigeria stanno lottando duramente contro l’insidia fondamentalista, la Liberia lancia così la sua scommessa. Dicendo al mondo di potercela fare, cominciando dal riassumere il controllo del suo territorio.

Osservatore romano 18 Luglio 2016

A Bruxelles il Consiglio Nato-Russia

 

La politica prima dei sistemi antimissile

di Fausta Speranza

Questione ucraina, sicurezza in Afghanistan ma anche strategie per l’est europeo. Sono questi i temi al centro della riunione del Consiglio Nato-Russia che si apre mercoledì 13 a Bruxelles, a pochi giorni dal vertice con cui l’Alleanza atlantica ha ridisegnato il suo impegno nell’Europa orientale e, soprattutto, a 25 anni dalle prime relazioni formali tra Nato e Russia. Un anniversario che cade proprio mentre si registra una certa tensione, ma nello stesso tempo si spera che le opzioni politiche siano in grado di ridare fiducia.

Il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, alla vigilia del summit, ha spiegato che si deve discutere della «necessità di attuare pienamente gli accordi di Minsk» sulla crisi nell’est Ucraina e si deve «parlare della situazione della sicurezza in Afghanistan». Gli accordi firmati nella capitale bielorussa, a settembre 2014, hanno determinato il cessate il fuoco, anche se a intervalli regolari si sono registrati disordini e vittime. Non è risolta neanche la situazione in Afghanistan. Stoltenberg commenta la scelta della Nato di proseguire la sua missione sul campo fino a tutto il 2017, ammettendo che nel Paese esiste «una presenza dello Stato islamico insieme con quella dei talebani».

Dall’altra parte, il rappresentante della Russia presso la Nato, Alexander Grushko, ha sottolineato che l’incontro si concentrerà «sullo stato della sicurezza militare alla luce delle decisioni del vertice della Nato a Varsavia». Su tutto bisognerà capire quale sia lo spazio del dialogo.

Se si guarda all’arco di questi 25 anni, dall’avvio nel 1991 delle relazioni formali tra l’Alleanza atlantica e la Russia, non è questa certo la fase più difficile. Da quel momento, si è vissuta un’escalation di cooperazione. Nel 1994, c’è stata la firma del Partenariato per la pace; nel 1997 l’approvazione dell’Atto istitutivo sulle relazioni reciproche, la cooperazione e la sicurezza; fino al 2002, alla Costituzione del Consiglio Nato-Russia, principale organo di coordinamento. E il Consiglio è proprio il format nel quale si svolge l’incontro di Bruxelles. Ma non è tutta storia di avvicinamenti. Nell’agosto 2008, al momento del secondo conflitto in Ossezia del sud, gli analisti hanno parlato di congiuntura più critica dalla fine della guerra fredda. Poi, c’è stata un’altra parabola di rilancio dei rapporti, che ha avuto per protagonista il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, alla Casa Bianca proprio da novembre 2008. Con l’intervento russo in Crimea, accompagnato dal referendum che nel 2014 ha annesso la penisola alla Russia, e il conflitto nell’est dell’Ucraina, è arrivato un nuovo raffreddamento dei rapporti. Ma è al momento dell’intervento russo in Siria, nei mesi scorsi, che i media sono tornati a parlare di clima da guerra fredda e di rischio di confronto militare. Ha prevalso la prudenza in tutte le parti coinvolte. Ma il punto è che nessuna delle linee di contrasto si sta attenuando.

Ora ci sono due elementi in più rispetto al citato rafforzamento della Nato sul versante orientale dell’Ue e alla scelta di Mosca di potenziare il sistema militare e missilistico a Kaliningrad, enclave russa tra Polonia e Lituania. Si sente il bisogno di decisioni ad hoc sul piano politico in grado di spostare qualcosa rispetto a queste dinamiche.

Ci sono nodi da affrontare, a diversi livelli. Nel dialogo tra Nato e Russia pesa l’unità, o meno, all’interno dei Paesi membri dell’Alleanza, tra chi è più critico nei confronti di Mosca e più fermo sulle sanzioni e chi spinge per una ritrovata dialettica. Lo spazio di azione di Mosca potrebbe dipendere più dalla coesione in campo occidentale che non dalle risorse della Russia stessa.

Ci sono variabili ancora da verificare. Innanzitutto, il cambio di presidenza negli Stati Uniti, a novembre, e poi il processo di uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e il suo riposizionamento all’interno della Nato. C’è anche la variabile dello sviluppo della crisi in Siria.

In ogni caso, è rilevante questo Consiglio Nato-Russia per capire quale margine ci sia per un rilancio vero della parola politica. Perché non sia solo questione di scelte di battaglioni da schierare.

Osservatore romano 13 Luglio 2016

Europa a 27 e Alleanza atlantica

In Polonia il primo vertice Nato dopo Brexit

di Fausta Speranza

La Brexit entra nei dibattiti dell’Alleanza atlantica e dunque anche negli equilibri dell’occidente con la Russia. L’8 luglio si apre a Varsavia il primo vertice Nato dopo il referendum che chiede l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (Ue). Un vertice dal quale ci si aspetta un rilancio della cooperazione tra Nato e Ue, anche alla luce del ruolo sempre più importante di Mosca sullo scacchiere internazionale e, a questo punto,  di fronte ai possibili vantaggi che Mosca potrà trarre da un’Europa a 27.

Il Regno Unito copre, tra gli alleati europei della Nato, un quarto della spesa per la difesa. Si capisce bene, allora,  perché il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, alla vigilia dell’incontro a Varsavia, abbia rassicurato che «la Brexit cambierà il rapporto tra Regno Unito e Ue, ma non cambierà la posizione di Londra all’interno della Nato». Ma Stoltenberg ha voluto anche sottolineare che «i rapporti con Bruxelles si intensificheranno», annunciando che, proprio nella capitale polacca, i vertici della Nato e dell’Unione europea «firmeranno una dichiarazione di impegno a sviluppare e rafforzare la cooperazione».

Se si compattano le fila è perché le sfide incombono. Dal punto di vista della Nato, viene meno nel cuore dell’Unione europea  il più forte alleato degli Stati Uniti, dunque c’è bisogno di sentire Bruxelles più vicina, al riparo da posizioni distanti da Washington. Dal punto di vista dell’Ue, l’esito del referendum britannico comporterà l’uscita del Paese che ha tenuto testa alla Russia su dossier cruciali come i fatti della Crimea e la crisi ucraina, ma anche sulle questioni energetiche. Sulle sanzioni a Mosca, volute in relazione alla situazione nell’est dell’Ucraina, al momento delle decisioni è stata Londra a volere la linea più dura.

Nei giorni del dopo Brexit, un editoriale del New York Times sosteneva che la scelta dei cittadini britannici era «tutta colpa di Vladimir Putin». Il quotidiano statunitense giungeva a ipotizzare finanziamenti russi ai partiti di euroscettici in Francia e altrove, gli stessi partiti che nel Regno Unito hanno fatto campagna vincente per la Brexit. Al di là delle analisi della stampa bisogna capire quanto questa fase di riassestamento dell’Europa possa giovare al Cremlino.

È innegabile che il presidente russo da tempo lavori con impegno  per un posizionamento nuovo di Mosca nello scacchiere internazionale. Ed è innegabile che, in particolare con l’intervento militare in Siria contro il sedicente Stato islamico (Is), si sia ritagliato un ruolo di peso. La Russia sta incidendo fortemente sugli equilibri del conflitto, anche se ci si augura che sulla voce delle armi prevalga finalmente la voce della mediazione politica.

In ogni caso, la Siria non è l’unico terreno su cui Mosca sta lavorando. C’è il rapporto strategico con la Turchia, che il Cremlino sta ricucendo. Tanto che il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, di recente ha chiesto formalmente scusa a Putin per l’abbattimento, a novembre, del bombardiere Su-24  precipitato al confine tra Turchia e Siria. Ankara per mesi aveva rivendicato il diritto di intervenire in caso di violazioni del suo spazio aereo. Le scuse sono state un chiaro segnale di avvicinamento.  D’altra parte, ad Ankara conviene uno scambio diretto con Mosca anche in considerazione della lotta al terrorismo: gli attentatori suicidi di tanti attacchi sul territorio turco provengono dalle fila degli estremisti islamici delle zone della Cecenia e del Daghestan, ex repubbliche sovietiche. Inoltre, la Turchia sa che il conflitto siriano ha fatto riemergere la questione curda e su questo tema Ankara può aver bisogno dell’appoggio russo. Di fatto, Mosca sta tessendo rapporti nuovi, mentre in fondo il rapporto della Turchia con l’Ue risulta congelato.

Di grande importanza per gli equilibri geopolitici regionali è stato, inoltre, il recentissimo accordo per la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Israele. Un segnale importante è anche la decisione del Governo israeliano di permettere agli aerei di Mosca di sorvolare il proprio spazio aereo, nonostante la storica alleanza tra Russia e Iran.

In tutte queste dinamiche, un’Ue che si ridisegna a 27 rappresenta un elemento di novità. E questo non può non interessare la Nato.

Osservatore 6 Luglio 2016

La Brexit fa paura anche ai tories

Il passo indietro di Boris Johnson

di Fausta Speranza

La Brexit non finisce di stupire, oltre che dividere. Lo dimostra il passo indietro compiuto ieri dall’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, vincitore dal referendum per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, per il quale sembrava scontata la candidatura alla successione di David Cameron. Al suo posto, per il ruolo di premier si fa ora il nome di una donna, Theresa May, l’attuale ministro dell’Interno che, pur non avendo mai nascosto il proprio euroscetticismo, meno si è esposta sulla Brexit.

Boris Johnson, dipinto dai media come solidale amico di Michael Gove, proprio dal Lord Cancelliere e segretario di Stato della Giustizia  britannica è stato definito non adatto a candidarsi alla leadership del partito conservatore e dunque al ruolo di premier dopo l’annuncio delle dimissioni di David Cameron. I tempi prevedono prima la votazione all’interno del partito il 2 settembre, e poi l’investitura alla conferenza di autunno, il 2 ottobre.

Per il ruolo di capo del Governo, oltre alla figura di Gove, guadagna posizioni Theresa May, che i media già definiscono la nuova Margaret Thatcher. May, che nel 2012 è diventata la seconda presidente donna dei conservatori, respinge i paragoni con la “lady di ferro” e quelli con Angela Merkel, ma ricorda che ha un nonno sergente maggiore dell’esercito, per sottolineare di avere i requisiti adatti a governare i sudditi britannici.

Il referendum ha spaccato il Regno Unito, ha contrapposto la vecchia e la nuova generazione, ha creato divisioni interne a conservatori e laburisti. Questi risvolti potevano anche essere messi in conto. Più difficile, invece, era prevedere che proprio la guida del fronte vittorioso, dopo un brevissimo festeggiamento, si ritirasse quasi sottotono. Era davvero arduo infatti immaginare che, invece di rivendicare la vittoria, fossero in tanti a prenderne le distanze. Ma questo succede, se Johnson è costretto a ritirarsi, dopo essere stato acclamato vincitore e probabile futuro premier.

A questo punto bisogna capire se il sì alla Brexit venga davvero percepito come una vittoria. È fuori discussione che l’espressione della volontà del popolo sovrano sia comunque un’affermazione della logica democratica. Ma dalle vicende di queste ultime ore appare meno scontato che l’uscita dall’Unione europea sia considerata una conquista da tutti coloro che l’hanno voluta, il 51,8 per cento dei votanti. E i sondaggisti sembrano confermare: in tanti non rivoterebbero il fronte Leave.

Chi si accinge a guidare il Governo britannico deve tener conto di tutto questo. C’è chi addirittura ritiene che si debba considerare l’ipotesi, davvero poco probabile, di un nuovo referendum. Più sicuro è il fatto che il nuovo premier dovrà fare i conti con la Scozia, decisa a rimanere nell’Unione europea.

Resta da considerare il valore di un voto popolare che va innanzitutto rispettato e che, se smuove pedine inattese, rimanda alle parole attribuite a Winston Churchill. Non si sa se le abbia davvero pronunciate ma tradizione vuole che, all’annuncio della sua sconfitta alle elezioni del 1945, lo statista, che aveva guidato la Gran Bretagna durante tutto il drammatico sviluppo del conflitto mondiale, abbia commentato: abbiamo combattuto contro il nazismo perché episodi come questi potessero verificarsi.

Osservatore romano 2 Luglio 2016