Il restauro del Santo Sepolcro

 

Alla ricerca della roccia

dalla nostra inviata a Gerusalemme Fausta Speranza

È un laico arabo il rappresentante dei francescani della Custodia di Terra Santa che partecipa come supervisore della comunità cristiana dei latini ai lavori di restauro del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Nessuno dei 90 frati, alcuni studiosi di archeologia e storia, che sono a Gerusalemme è stato coinvolto. La proprietà è delle tre confessioni che gestiscono la basilica, greco-ortodossi, latini e armeni, ma i lavori sono in mano ai religiosi greco-ortodossi, che si avvalgono degli esperti dell’università di Atene, guidati da una donna, l’ingegnere Antonia Marapoulou.

Il restauro è iniziato a fine maggio e, al momento, le paratie di copertura lasciano intravedere qualcosa della prima fase dei lavori, quella di smantellamento delle lastre di marmo che rivestono l’edicola. L’edicola ripropone nella sua composizione le tombe del tempo di Gesù, formate da un vestibolo, in cui si ungeva il corpo e lo si deponeva nel sudario, e dalla camera sepolcrale.

Il punto è che, dal momento che le lastre di marmo sono rovinate e vanno rimosse, è di grande interesse verificare che cosa possa emergere dalla roccia originaria che si immagina possa essere conservata sotto le sovrapposizioni del tempo. Tradisce emozione, pensando a questo, padre Eugenio Alliata, archeologo di grande competenza, direttore dell’Istituto Studium Biblicum Francescanum, che ha sede nel convento della flagellazione, uno dei nove conventi francescani a Gerusalemme. Lo incontriamo tra i reperti storici, capitelli e frammenti di colonne, che stanno nel giardino del convento, posizionato sulla via Dolorosa.

Padre Alliata racconta all’«Osservatore Romano» che non è stato coinvolto in nessun modo nei lavori e che non vuole essere indiscreto, anche se ci confessa di avere il cuore lì, dove si scalpella. I francescani della Custodia hanno accettato che fosse un laico a rappresentarli nella supervisione, per facilitare una procedura che stentava a partire.

Ora si lavora alla rimozione delle lastre di marmo, danneggiate in diverso modo dall’afflusso dei pellegrini negli anni, in particolare dalle candele accese senza sosta. E si procede di notte, per non impedire l’accesso ai fedeli. Poi, sarà la volta della pulitura dei materiali, che svolgendosi in altri ambienti, si potrà fare di giorno, senza disturbare le visite. Sappiamo che parte del laboratorio di restauro sarà nella galleria superiore dei latini.

Marapoulou assicura, dunque, che la basilica non sarà mai chiusa durante i lavori, che dovrebbero durare circa un anno e che al momento vedono impegnati 27 architetti ed esperti. Ma, nel complesso, coinvolgono 70 persone. Secondo l’ingegnere, sarà una fase molto delicata anche quella di consolidamento della muratura di epoca crociata, che «richiederà la riparazione con materiali coerenti con quelli antichi».

Ma bisogna capire di quale antichità parliamo. La storia del Santo Sepolcro è sui libri, ma abbiamo il privilegio di sentirla riassunta da padre Alliata che, con francescana semplicità, ci spiega termini particolari e sintetizza passaggi storici complessi. Tradisce l’attesa di sapere cosa si potrà conoscere di più di quello che le ultime generazioni hanno visto. Bisogna ricordare che nel 1009 l’autorità islamica dell’epoca fece distruggere la struttura che l’imperatore Costantino aveva fatto costruire per proteggere la pietra su cui era stato adagiato il corpo di Gesù per essere lavato e quanto rimaneva del sepolcro dove era stato deposto il corpo, prima della Risurrezione. La distruzione voluta dal califfo è stata radicale. Su quello scempio, su possibili resti della pietra originaria, sono intervenuti, con le loro costruzioni, i bizantini, i crociati. Con strutture, ornamenti e iscrizioni latine. Tutto ciò formava cupola ed edicola che sono state travolte dal disastro avvenuto in epoca napoleonica. Parliamo dell’incendio che si è sprigionato nel 1808 dalle camere dei religiosi armeni e che è divampato nella basilica, facendo crollare la cupola e danneggiando seriamente l’edicola. Il tetto della rotonda, infatti, è sprofondato sull’edicola distruggendo la sommità e il rivestimento in marmo e calcare. Fino al 1868 sono stati fatti lavori di restauro. Nel 1810 vennero affidati ai greco-ortodossi dalle autorità civili del momento, che facevano capo al Sultano prima del mandato britannico su questi territori assunto dopo la prima guerra mondiale. I greco-ortodossi, dunque, hanno gestito il restauro, che ha significato la rimozione delle scritte latine e l’inserimento degli elementi del barocco costantinopolitano che si presentano oggi.

Le domande storico-archeologiche sono presto dette. Ci si chiede quanto delle mura antiche costantiniane possa essere conservato, in termini di frammenti, dietro a quello che finora è stato visibile. E anche cosa potrebbe esserci conservato delle icone precedenti. Ma la domanda ancora più importante è quanto potrà essere ritrovato della roccia originale. Cosa di significativo per i credenti potrebbe emergere da quello che quelle mura conservavano. Padre Alliata ci spiega che nel 1009, secondo testimonianze più che attendibili, la costruzione che proteggeva i resti originali della tomba di Cristo lasciava intravedere tali resti, così come i segni dei cavatori, riportati da modelli copiati.

Ci sono, poi, le domande che potrebbero essere definite a carattere logistico. Padre Alliata ci dice quelle che ha nel cuore. Ci confida di chiedersi «come tutto ciò che potrà emergere sarà davvero ben studiato e documentato, come potrà essere conservato e se saranno pensate e allestite delle specie di finestrelle per rendere visibili parti di pietra che emergeranno dietro le lastre di marmo». Le lastre, è stato spiegato, saranno ripulite e riposizionate.

Padre Alliata ci ricorda che l’anno scorso la basilica del Santo Sepolcro è stata chiusa un giorno, in seguito alla caduta di un pezzo di cornicione dell’edicola. Da allora, secondo le norme vigenti, le tre comunità, greco-ortodossi, latini e armeni, hanno avuto un tempo per accordarsi sulle modalità di gestione dei restauri, prima che, in assenza di un’intesa, la gestione stessa passasse alle autorità civili, come previsto per motivi di emergenza. Padre Alliata sottolinea l’importanza di aver trovato in qualche modo l’accordo, anche a costo di qualche rinuncia, perché solo l’accordo poteva lasciare all’interno delle comunità proprietarie del Santo Sepolcro la gestione della cura, anche in termini di restauro, di qualcosa di così tanto caro alla cristianità.

Osservatore Romano 24 Giugno 2016

Nuovi fedeli in Terra santa

Cambia la tipologia dei pellegrini

dalla nostra inviata Fausta Speranza

Parlano cinese e indonesiano. Sono i nuovi pellegrini che arrivano in Terra santa, in questi tempi generalmente segnati dal calo di visite. È quanto ci racconta il francescano che guida la comunità di Ein Kerem, il villaggio ai piedi di Gerusalemme dove si recò Maria per incontrare Elisabetta, madre di Giovanni Battista. Padre Severino è in questa terra da ventotto anni, ma per venticinque è stato a Betlemme. Arrivato ai tempi della prima Intifada — racconta al nostro giornale — ha poi conosciuto, subito dopo il 1993, la tensione per la delusione degli accordi di Oslo che non portavano risvolti decisivi di vera pace e ha vissuto, nel 2000, lo scoppio della seconda Intifada. Afferma che «oggi in Israele e nei territori palestinesi la situazione è calma, in confronto agli anni passati, ma arrivano sempre meno pellegrini da Europa e America latina». Certamente il vicino conflitto in Siria e tutto il terrore che il sedicente Stato islamico ha portato in Medio oriente non aiutano. Ma padre Severino giustifica il calo con la crisi economica, piuttosto che con il timore di disordini e violenze. Ci spiega anche che, chi arriva, lo fa in gran parte senza ricorrere ad agenzie ma organizzando, con la famiglia o pochi amici, trasferimenti e alloggio. Sottolinea con un sorriso che davvero tanti arrivano negli ultimi tempi da Pechino.

Un tempo le case dei francescani per pellegrini, definite Casanova, erano una quindicina. Oggi ce ne sono una a Gerusalemme, una a Betlemme, una a Nazareth. Da poco si è aggiunta proprio quella a Ein Kerem, dove padre Severino, che l’ha fortemente voluta, ci racconta con orgoglio che offre anche un servizio di ristorazione la sera, per la popolazione locale. Il villaggio di En Kerem era popolato da arabi, ma al momento della nascita dello Stato di Israele, nel 1948, se ne sono tutti andati via, a eccezione di una sola famiglia di arabi cristiani. Negli anni si è ripopolato di ebrei. Oggi, la comunità cristiana, che gravita intorno alla basilica di San Giovanni Battista, è formata di solo quattro fedeli, in comunione con i dieci frati che abitano il convento e gestiscono la casa di accoglienza.

Padre Severino, che è polacco e al secolo si chiama Leszek Lubecki, ci racconta di curare personalmente la cucina del convento e del servizio di ristorazione e ci confida la soddisfazione di avere molti clienti ebrei che prenotano per la cena. Afferma che «si tratta di un segno dei tempi». Spiega all’Osservatore Romano che «i francescani in Terra santa si sono ritrovati più spesso facilmente a contatto con il mondo arabo, cristiano nella minoranza e musulmano nella maggioranza, ma che è stato bello e importante avviare un rapporto nuovo e più intenso con gli ebrei negli ultimi anni». Ci dice che, in particolare, si deve a padre Pierbattista Pizzaballa, che è stato custode di Terra santa dal 2004 fino all’elezione a maggio scorso di padre Francesco Patton. Padre Pizzaballa «conosceva l’ebraico molto bene e ha favorito e incoraggiato tale scambio».

Incontriamo padre Severino in un viaggio che ci porta al cuore del contributo dei francescani in Terra santa, in vista del significativo anniversario che cadrà nel 2017: ottocento anni di presenza a tutela dei luoghi santi, a cura delle pietre che hanno vissuto la storia di Cristo, ma anche delle persone, “pietre vive” della Chiesa. Con lui parliamo di sfide antiche, diverse come le diverse vicissitudini di questa terra nei secoli, e delle sfide attuali per i cristiani di oggi, che tra Israele e Palestina sono 250.000, cioè il 2 per cento della popolazione. Ma la Custodia di Terra santa, la provincia dei francescani che comprende questi territori, si estende fino a Siria, Libano, Cipro, Rodi. E padre Severino, ce lo ricorda subito, invitandoci a guardare alla Siria, Paese martoriato da cinque anni di conflitto, e ricordando i confratelli che «sono rimasti soli in territori da cui sono fuggiti tutti», come la zona che ci cita al confine con la Turchia. Ci dice: «Quei confratelli più di tutti noi, attendono l’incoraggiamento del nuovo custode, padre Patton».

Di padre Francesco Patton, tutti ci dicono in questi luoghi che sta già portando la sua personale testimonianza di dialogo, nella migliore tradizione francescana. Ha appena terminato, sabato 18 giugno, il ciclo di celebrazioni liturgiche che accompagnano l’ingresso del nuovo custode nei vari siti. Sabato scorso, è stata la volta della basilica dell’Annunciazione a Nazareth, dove, accolto da molti fedeli e rappresentanti di diverse fedi, ma anche da autorità civili, ha portato la sua benedizione alla grotta di Maria, nel piano inferiore della basilica, e ha poi guidato la consueta fiaccolata, ai primi vespri della domenica, nelle vie limitrofe, con la recita del rosario in varie lingue. Il 6 giugno c’era stato il primo ingresso solenne a Gerusalemme. Nei giorni successivi, sono seguite le celebrazioni al Santo Sepolcro e al Cenacolo, e poi l’arrivo a Betlemme e la prima messa a Giaffa, l’11 giugno, in occasione della festa di Sant’Antonio.

Per padre Patton la prossima celebrazione solenne sarà il 24 giugno, proprio nella basilica di San Giovanni Battista a Ein Kerem. Ma sarà a luglio, precisamente dal 3 al 5, che padre Patton presiederà il suo primo capitolo custodiale a Gerusalemme. Finora ai confratelli ha ripetuto di essere arrivato in Terra santa “in punta di piedi”, in ascolto, venendo da esperienze diverse. Il capitolo sarà il momento per assumere la guida della custodia, ottocento anni dopo la nascita delle province dell’ordine francescano e nella memoria della visita di Francesco di Assisi in questi luoghi, negli anni tra il 1218 e il 1220, quando, pellegrino di pace in tempo di guerra, in piena v crociata, incontrava il sultano Malek el-Kamel. Da allora, ribadiscono i frati, il messaggio evangelico di pace è sempre lo stesso.

Osservatore Roma, 22 Giugno 2016

Otto secoli di presenza francescana in Terra santa

In autunno una mostra ad Acri

della nostra inviata Fausta Speranza

Una mostra nella città di Acri e l’arrivo di frati da tutto il mondo. Così prenderanno il via le celebrazioni per gli ottocento anni di presenza francescana in Terra santa, nel 2017. A ospitare i momenti iniziali sarà la città dell’Alta Galilea, da sempre porto strategico di una terra che è essa stessa crocevia fra tre continenti, Europa, Asia, Africa. Ad Acri arrivò Francesco d’Assisi nel suo viaggio da pellegrino di pace e quando nei luoghi santi imperversava la guerra. Luoghi santi ma, non solo allora ma troppo spesso, teatro di conflitti e contese.

Al momento non c’è ancora un titolo per l’esposizione o un programma preciso di eventi, ma padre Quirico Colella, francescano di 68 anni che ne ha trascorsi 51 in Israele e Palestina, ne parla con «L’Osservatore Romano». Incontriamo padre Colella proprio ad Acri, unica città al mondo del periodo crociato che si è conservata fino a noi. E’ patrimonio mondiale dell’Unesco il porto, appartenuto ai Templari, il bazaar e tante case e mura dei quartieri di genovesi, pisani, veneziani, che nel XII secolo hanno lasciato rispettivamente le varie repubbliche marinane per arrivare in questa città, dove nel 1104 inizia il periodo crociato, fino alla conquista islamica nel 1291. Nel 1187, quando Gerusalemme cade nelle mani dell’esercito arabo di Saladino, ad Acri vengono a stare il re e il Patriarca di Gerusalemme. Ma la storia della città è già documentata intorno al 1500 a.C., in epoca faraonica, con il nome di Akko. Poi, sotto la dinastia ellenistica dei Tolomei la città sul mare prenderà il nome di Tolemaide. Per i cristiani, è San Giovanni di Acri, in ricordo di Giovanni Battista. I cavalieri di San Giovanni, insieme con Templari, Teutonici e i cavalieri di san Lazzaro, sono stati protagonisti della storia. E Acri conserva strutture ospedaliere e strategici tunnel da loro costruiti.

Padre Colella spera di aprire quello che definisce «il giubileo della presenza francescana in Terra Santa» nel mese di ottobre o di novembre di quest’anno, per proseguire sino alla fine del 2017. «Acri è la porta francescana in Terra Santa» ci dice padre Colella, che ricorda la lunga dominazione islamica dal vii secolo al mandato britannico dopo il secondo conflitto mondiale, ma ricorda anche che i frati non hanno mai lasciato la custodia dei luoghi santi.

Oggi ai francescani è affidata la cura di 74 santuari in Terra Santa, dove si contano 250 frati. Ma bisogna ricordare che la Custodia spazia da Israele alla Palestina, dalla Siria alla Giordania, dal Libano a Cipro e Rodi, e comprende anche alcuni conventi in Italia, negli Stati Uniti e in Argentina.

“Acri è la porta francescana in Terra Santa”, ci dice padre Colella, che ricorda la lunga dominazione islamica dal VII secolo al mandato britannico dopo il secondo conflitto mondiale, ma, con un sorriso, ci ricorda anche che i frati non hanno mai lasciato davvero la custodia dei luoghi santi.

Di Custodia a tutti gli effetti giuridici si tratta. Ma bisogna ricordare le tappe. Nel prossimo anno, precisamente, saranno otto secoli da quando, nel 1217, l’Ordine di Francesco di Assisi, riconosciuto ufficialmente nel 1210, dava vita alle sue province. Nasceva la Provincia Oltremarina, con sede ad Acri. Nasceva con l’obiettivo di portare pace e parola di Cristo. Lo stesso obiettivo che guidò San Francesco, pellegrino durante la V crociata. Da uomo di pace arrivò nel 1219 ad Acri. E riuscì nell’intento di incontrare, in Egitto, il Sultano, al Malik al Kamel. Aveva il permesso del legato pontificio che recitava “a suo rischio e pericolo”. Dal Sultano sappiamo che Francesco ricevette il lasciapassare per visitare i luoghi santi di Gesù, senza incappare così nella scomunica per chi vi faceva visita pagando le richieste tasse agli islamici.

Tra alterne vicende storiche, è nel 1342, con la Bolla pontificia di Papa Clemente VI, che si sancisce la Costituzione giuridica della Custodia di Terra Santa. Poi, ci saranno diversi pronunciamenti di Papi che ribadiranno il ruolo speciale dei religiosi che, nelle cronache e nei documenti antichi, sono citati come “i frati della corda”.

Tanti gli episodi chiave di questi ottocento anni, che hanno visto i francescani farsi martiri ma anche farsi protagonisti degli acquisti determinanti dei siti cari al Cristianesimo. Siti comprati dagli esponenti dell’impero ottomano spesso dopo estenuanti trattative. Ricordiamo solo che nel 1291, quando Acri, dopo una strenua resistenza, cadde sotto il dominio islamico, i frati furono costretti a ripiegare a Cipro. Eppure mantennero il loro legame inviando ogni anno due confratelli. In questo caso, fu Papa Giovanni XXII ad autorizzarli, nonostante fossero banditi dalla Terra Santa.

Oggi ai francescani è affidata la cura di 74 Santuari in Terra Santa, dove si contano 250 frati. Ma bisogna ricordare che la Custodia spazia da Israele alla Palestina, dalla Siria alla Giordania, dal Libano a Cipro e Rodi, e comprende anche alcuni conventi in Italia, negli Stati Uniti e in Argentina. Anche questo ci aiuta a dire che il “giubileo della presenza francescana in Terra Santa”, che si festeggerà il prossimo anno, è giubileo della Chiesa tutta.

Osservatore Romano, 19 Giugno 2016

Balcani d’Europa

  Al giro di boa il processo di integrazione dell’Albania nell’Ue

di Fausta Speranza

La questione dei Balcani in Europa torna di primo piano e l’attenzione è puntata sull’Albania. Dopo l’inverno segnato dalla pressione migratoria proprio sulla rotta balcanica, a Bruxelles ci si è resi conto che il processo di sempre maggiore avvicinamento deve essere una priorità delle politiche europee e non un dossier minore. Proprio in questi giorni arrivano sollecitazioni a Tirana perché sblocchi la riforma della giustizia necessaria per procedere verso l’adesione all’Ue. Ma arrivano, oltre che da Bruxelles, anche da Washington.

A vent’anni dagli Accordi di Dayton, che con la firma a novembre 2005 mettevano fine al conflitto nella ex Jugoslavia, lo scenario è cambiato di molto. Dal 2004 la Slovenia fa parte dell’Ue e dal 2013 la Croazia è a tutti gli effetti il ventottesimo Stato membro. Ma c’è di più. Albania, ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Montenegro e Serbia sono ufficialmente Paesi candidati all’adesione all’Ue. E sono riconosciuti come «candidati potenziali» la Bosnia ed Erzegovina e il Kosovo. Tra l’altro, non si può dimenticare lo storico accordo tra Serbia e Kosovo, raggiunto nel 2013, con la mediazione europea.

Oggi, dopo mesi di difficili flussi trasnazionali e l’accordo sulle migrazioni con la Turchia che in alcuni momenti vacilla e che lascia aperte diverse incognite, risulta obbligato uno sguardo rinnovato al dossier Balcani. Un dossier che suscita interesse non solo ad ovest. Oltre alla storica influenza della Russia, c’è l’interesse sempre crescente dei Paesi del Golfo e della Cina. In quest’ottica si capisce anche meglio il pressing degli Stati Uniti. Nelle ultime ore, da Washington è arrivato l’invito a Tirana perché le parti politiche trovino un accordo sulla riforma del sistema giudiziario. Bruxelles chiede all’Albania un sistema che possa respingere la corruzione e rafforzare lo stato di diritto arginando le pressioni politiche.

In Albania, dopo mesi di stallo, potrebbe essere decisivo l’atteso incontro a inizio settimana tra il presidente del Consiglio, Edi Rama, del Partito socialista d’Albania, e il capo dell’opposizione di centro destra Lulzim Basha, del Partito democratico. Dopo l’ammissione a candidato all’ingresso, due anni fa, Tirana potrebbe ottenere quest’anno l’avvio dei colloqui per la piena adesione.

Alla vigilia del grande allargamento di dieci Paesi ad est, avvenuto nel 2004, a Salonicco i leader europei si pronunciavano solennemente firmando una dichiarazione in cui asserivano: «Il futuro dei Balcani è in Europa». Da allora si cerca di costruire quel futuro nei nuovi scenari di un’Europa fiaccata dalla crisi economica, indebolita da spinte nazionaliste proprio ad est e impaurita da flussi migratori, sicuramente consistenti ma che il continente, ormai a oltre mezzo miliardo di abitanti, dovrebbe poter gestire senza perdenti ripiegamenti.

Osservatore Romano 6-7 Giugno 2016

In Libano confermata l’inchiesta sulle forze di pace ONU

Caschi blu sotto accusa per il mercato nero di cibo

di Fausta Speranza

Si indaga sui caschi blu in Libano, perché c’è il forte sospetto di traffici illeciti di prodotti alimentari. Dopo la denuncia da parte del quotidiano «El Pais», che parla espressamente di coinvolgimento di militari del Ghana, dell’Italia, del Nepal, della Malaysia e dell’Indonesia, il portavoce della missione delle Nazioni Unite in Libano, Andrea Tenenti,  conferma che le indagini sono in corso «da tempo» ma «al momento non ci sono ancora prove che possano confermare una sistematica operazione legata al traffico d’alimenti o ancor meno il coinvolgimento di alcuni contingenti».

La frode, che sarebbe andata avanti dal 2010 al 2015, viene stimata in oltre 4 milioni di euro.  In sostanza venivano rivenduti a commercianti locali  prodotti destinati alle forze di pace, tra cui riso e biscotti, ma non solo, anche  frutta e verdura comprata localmente e prodotti surgelati, tra cui gamberi che sembra andassero a ruba. Parte delle 80 tonnellate di cibo messe a disposizione dei caschi blu settimanalmente.

Si sa che a indagare non è solo l’Onu ma anche il Governo libanese. Da Roma, lo stato maggiore della Difesa, dopo aver sentito il comando delle Nazioni Unite in Libano, afferma che «al momento il personale del contingente militare italiano risulta estraneo a tale vicenda». Da parte sua, la Procura militare fa sapere di essere impegnata a «verificare» la notizia, per stabilire se vi siano reati di rilevanza penale.

Si parte da un dato di fatto confermato da testimoni: la vendita in alcuni negozi in Libano, e anche nella capitale Beirut, di prodotti alimentari che riportano l’etichetta Unifil, l’acronimo di United Nations Interim Force in Lebanon.  Parliamo della  forza militare di interposizione creata il 19 marzo 1978, con le risoluzioni 425 e 426 del Consiglio di sicurezza, e che ha il suo quartier generale nella cittadina meridionale di Naqoura.  Il mandato della missione è stato rinnovato in seguito all’invasione israeliana del Libano nel 1982, poi del ritiro delle truppe israeliane nel 2000 e dell’intervento israeliano nel 2006. Attualmente si tratta di oltre 12.300 militari, che collaborano con circa 300 civili di provenienza internazionale e 600 civili locali.  Una presenza significativa, in termini di numeri e di lunghezza del mandato.

Nonostante codici di identificazioni e bolle controfirmate, parti delle derrate alimentari finivano nel  mercato nero.

L’inchiesta di «El Pais» parte da 21 centri di distribuzione in base alle rivelazioni di alcuni operatori, con la testimonianza chiave di un dipendente di un’impresa subappaltrice. Questa persona, che «El Pais» identifica con le iniziali  R.D. aveva l’incarico di supervisionare la distribuzione. A suo dire, quando si è accorto della truffa, ha riferito a qualcuno e poi ha cercato di entrare nell’affare per raccogliere prove. Oggi è sospeso dall’incarico in attesa di accertamenti.

Fa male il sospetto di trovarsi di fronte all’ennesimo caso di coinvolgimento di forze di peacekeeping in scandali. Finora ce ne sono stati soprattutto a sfondo sessuale.

Solo nove mesi fa, è stato eclatante l’allontamento, richiesto dallo stesso segretario generale, Ban Ki-moon, del senegalese Babacar Gaye da capo della missione nella Repubblica Centrafricana. Non erano solo voci le denunce di stupri e induzione alla prostituzione anche di minorenni, di cui si erano macchiati soldati francesi della missione stessa. Il comandante, pur non essendo coinvolto nei fatti, è stato ritenuto direttamente responsabile di mancata sorveglianza sui suoi soldati. Primo caso del genere.

A giugno 2015  c’era stato l’annuncio dell’Onu di un rinnovato impegno alla tolleranza zero. Solo in quell’anno e solo ad Haiti, erano stati 225 i casi di donne sfruttate sessualmente, di cui un terzo giovanissime. Ma  guardando indietro, dai 150 casi documentati nel 2005  in Congo non c’è mai stata tregua. L’Oios, il servizio di  investigazione interna del Palazzo di vetro, nei suoi dossier ha pagine drammatiche anche su Liberia e Sud Sudan. Si legge, tra l’altro, di «pretese in modo abituale di prestazioni sessuali, in cambio di cibo, denaro, telefonini vecchi, profumi».

Ma se gli scandali sessuali indignano particolarmente, non possiamo non ricordare il caso Oil for food, la questione dei fondi neri, che ha coinvolto funzionari dell’Onu e del Governo iracheno. Il programma, letteralmente “petrolio in cambio di cibo”, attivato dall’Onutra il 1995 e il 2003, intendeva permettere all’Iraq di vendere petrolio sul mercato mondiale in cambio di necessità umanitarie per la popolazione, evitando guadagni per eventuali spese militari. Si parla di illeciti per 50 miliardi di euro.

Ci si aspetta davvero una svolta in termini di tolleranza zero nei fatti, su tutti i fronti. Chi porta pace, chi deve assicurare il mantenimento della pace, non può macchiarsi di azioni criminose contro la popolazione. Azioni che, non solo vanno contro la dignità di ogni persona, ma seminano anche discredito, ostilità, odio.

Osservatore romano 28 maggio 2016

Migliaia di minori si perdono all’arrivo in Europa

Senza lasciare traccia

di Fausta Speranza

Si contano ma non si trovano. Sono i minori migranti che affollano i barconi della disperazione, ma che poi non lasciano traccia. Nel 2015 sono stati diecimila quelli scomparsi una volta arrivati in Europa.

Ogni anno nel mondo spariscono otto milioni di bambini. Per loro ha lanciato un appello il Papa lo scorso 8 maggio. Ed è l’unico a denunciare questa tragedia, sottostimata perché si minimizzano il numero dei minori perduti e i motivi della loro scomparsa. Bergoglio ha ben chiaro, sin da quando era vescovo, che le cause di questo tremendo fenomeno sono principalmente lo sfruttamento sessuale e il mercato di organi, entrambi molto redditizi.

«È un dovere di tutti — ha detto Papa Francesco— proteggere i bambini, soprattutto quelli esposti ad elevato rischio di sfruttamento, tratta e condotte devianti». Con l’auspicio che «le autorità civili e religiose possano scuotere e sensibilizzare le coscienze, per evitare l’indifferenza di fronte al disagio di bambini soli, sfruttati e allontanati dalle loro famiglie e dal loro contesto sociale».

In particolare, per quanto riguarda i minori stranieri in Europa, accade che perdano i familiari nel lungo tragitto che li porta dai loro Paesi di origine in altri Paesi, tra varie vicissitudini, prima di arrivare su un barcone. Ma più spesso si tratta di bambini e ragazzini ai quali i genitori vogliono assicurare un futuro diverso da quello che intravedono nella loro situazione di morte e violenza, anche senza poterli seguire.

Vogliono vedere fuggire questi figli anche a costo di affidarli a scafisti senza scrupoli o lasciarli in balia delle acque imprevedibili del mare. Questi genitori, disperati al punto di fare quello che nessun genitore vorrebbe fare, cioè rinunciare a proteggere e accompagnare i propri figli, non immaginano gli abusi che avvengono sulla via. Certamente, non devono avere idea del traffico organizzato che, secondo la forza europea di polizia Europol, sta ad aspettare questi minori.

Sono soprattutto bambini che non si ricongiungono ai genitori o che li hanno persi durante il viaggio, bambini rimasti senza protezione che non sanno dove andare né con chi. Ad attenderli c’è un «business organizzato» che, secondo i dati di Europol, frutta milioni e milioni di euro ogni anno.

Il lavoro minorile incide di meno rispetto al mercato del sesso e, su scala mondiale, a quello degli organi. Bisogna capire da quali maglie,  di un sistema che dovrebbe assicurare assistenza e che invece spesso è corrotto, sfuggano questi piccoli e giovanissimi.

Il problema riguarda in particolare l’Italia, Paese di approdo. Ma non solo. Ernesto Caffo, fondatore e presidente di Telefono azzurro, non esita a  parlare di «fallimento del sistema di integrazione per questa fascia di minori». Un fallimento che «incide in modo significativo sulla loro scomparsa». Gli operatori del settore lamentano buchi neri nella burocrazia, che interviene nel coordinamento tra enti locali coinvolti e varie comunità di accoglienza, che si trovano sul territorio italiano.

Ma bisogna riflettere anche sul coordinamento tra Paesi europei. Ci sono differenze normative tra Stati membri che giocano a sfavore di un impegno comune di contrasto al fenomeno. Un solo esempio: non c’è un’unica espressione per identificare il fenomeno criminale sui vari territori. Alcuni Stati considerano la tratta di minori una forma autonoma di sfruttamento, altri assimilano le vittime minorenni agli adulti. Questo, secondo Europol, rappresenta un primo ostacolo al lavoro coordinato di intelligence.

Infine, va ricordato che quando si parla di vittime di sfruttamento e di tratta, più in generale di più vulnerabili, con i bambini vanno citate sempre le donne, minori e non. Il copione, seppure in diversi contesti, è spesso simile.

In prima pagina, Osservatore romano 27 Maggio 2016

Il vertice umanitario mondiale

Impegno per la pace

di Fausta Speranza

Seimila partecipanti, tra cui cinquanta leader mondiali. Prende il via, lunedì 23 maggio a Istanbul il primo vertice umanitario mondiale, voluto dal segretario generale dell’Onu, Ban-Ki-moon. Per due giorni, nella città turca si riuniranno  rappresentanti di governi, agenzie per gli aiuti umanitari, comunità colpite, società civile e settore privato.

Parteciperà anche la delegazione della Santa Sede presieduta dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, della quale faranno parte  l’Osservatore permanente presso le Nazioni Unite a New York, arcivescovo Bernardito Auza, e l’Osservatore permanente presso l’ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni specializzate a Ginevra, arcivescovo Silvano Tomasi.

Lo scenario è drammatico e noto. Ogni giorno, le cronache  parlano di nuove vittime della violenza. Su dieci, nove di queste sono civili. E sono centoventicinque milioni le persone direttamente coinvolte in questa vera e propria guerra mondiale a pezzi.

L’obiettivo ultimo della mobilitazione che ha portato al vertice  è, in sostanza, tutelare l’umanità, mettendo in campo una cooperazione davvero mondiale. Dalle guerre più diverse ai disastri ambientali più dimenticati. Lo scopo è ambizioso e i piani di azione sono innumerevoli e complessi.

Per questo primo incontro, sono cinque le tematiche fondamentali indicate come chiavi di lettura. La prima è la priorità delle priorità: ridurre e prevenire i conflitti. Contestualmente viene l’impegno per garantire il rispetto del diritto umanitario.

Le leggi internazionali non mancano ma il punto è «far rispettare le norme che tutelano l’umanità», come è scritto nel titolo di una delle tavole rotonde. Oggi le guerre, che restano comunque drammatiche, sono asimmetriche, senza una contrapposizione precisa di eserciti o schieramenti di forze, e troppo spesso non c’è rispetto dei più basilari principi dei regolamenti internazionali.

In tema di umanità, un presupposto è fondamentale, anche se troppo spesso dimenticato. È l’idea che, per parlare di umanità nel suo complesso, nessuno debba essere lasciato indietro. Da qui, il dovere di assicurarsi che sempre meno persone siano penalizzate da un’economia globale che non conosce sostenibilità.

C’è poi una tavola rotonda dedicata a un tema sintetico quanto essenziale:  ridurre i rischi. Infine, il dibattito che appare più concreto di tutti, quello su come aumentare i finanziamenti.

L’appello, che emerge già prima del summit, arriva anche alle religioni e nello stesso tempo è lanciato proprio dalle religioni. A Istanbul infatti ci sarà un dibattito speciale proprio sull’impegno delle confessioni religiose.

C’è un antefatto: in vista del vertice umanitario mondiale, un anno fa, a Ginevra, i rappresentanti di quattro religioni hanno partecipato alla giornata di dibattito dedicata proprio al ruolo speciale svolto dalle istituzioni e organizzazioni religiose nelle zone di conflitto. All’incontro, promosso dall’Ordine di Malta, hanno partecipato cristiani, musulmani, ebrei, buddisti.

In quell’occasione Jemilah Mahmoud, per anni medico in prima fila in vari conflitti e scelto da Ban Ki-moon per guidare il team internazionale di preparazione del vertice di Istanbul,  ha ricordato che le organizzazioni a carattere religioso assicurano la maggior parte dell’assistenza umanitaria da cui attualmente nel mondo dipendono, per la stretta sopravvivenza, ben ottanta  milioni di persone. Le organizzazioni religiose sono  spesso le prime a intervenire sul campo nelle situazioni di emergenza umanitaria e per questo godono della fiducia delle comunità locali.  Un’altra caratteristica fondamentale è che il loro arrivo non è legato a interessi politici.

Ma anche i leader religiosi hanno  un obiettivo preciso da raggiungere, lavorandoci molto. Ed è far sì che tutti  si impegnino a giocare un ruolo nella battaglia contro i fondamentalismi.

Più in generale, da parte dei  leader politici, è necessaria una  doverosa assunzione di responsabilità affinché  cooperazione faccia rima con riconciliazione,  e perché l’impegno all’assistenza proceda di pari passo con un impegno serio per la pace.

In prima pagina, Osservatore romano 22 Maggio 2016

E’ morto il leader radicale Marco Pannella

Protagonista  della politica italiana

di Fausta Speranza

Marco Pannella è morto nella mattinata del 19 maggio a Roma dopo una lunga malattia. Pochi giorni fa aveva compiuto 86 anni. Nelle ultime settimane, con l’aggravarsi delle sue condizioni, moltissime sono state le dimostrazioni di interesse, di stima e di affetto giuntegli da ogni parte. Protagonista tra i più noti della vita politica italiana, è stato sempre in prima linea portando avanti battaglie appassionate contro la pena di morte, contro la fame nel mondo e per il miglioramento delle condizioni dei carcerati.

Il leader dei radicali, all’anagrafe Giacinto Pannella, era nato a Teramo il 2 maggio 1930. Il suo nome resta legato alla legge sul divorzio, introdotto in Italia nel 1970, e a quella sull’interruzione volontaria della gravidanza, che nel 1978 abolì il reato di aborto, limitandolo alle violazioni previste dal nuovo ordinamento. A queste battaglie si è aggiunto l’impegno contro il “proibizionismo”, cioè le innumerevoli iniziative e prese di posizione per la legalizzazione dell’uso della droga, e a sostegno dell’eutanasia.

Tra i più longevi personaggi della scena politica italiana, è stato deputato per i radicali dal 1976 al 1992. Dal 1979 è stato anche membro del Parlamento europeo per diversi mandati, accettando di ricoprire la carica di presidente di circoscrizione a Roma e in altre città.

Senza dubbio Pannella è stato uno dei protagonisti delle battaglie politiche, talvolta discutibili, in particolare a partire dagli anni Settanta, attraverso una mobilitazione senza precedenti della società civile. Come leader politico italiano, si è distinto per aver fatto costantemente ricorso al referendum e a metodi di lotta politica non violenti, come scioperi della fame e della sete, disobbedienza civile e sit-in. E durante l’ultimo digiuno aveva raccontato di aver ricevuto una telefonata dal Papa e di avere accettato di interromperlo come gesto di riconoscenza al Pontefice per il suo interessamento. Era il 25 aprile scorso.

Alla fine degli anni Ottanta, Marco Pannella aveva promosso la trasformazione dei radicali in partito “transnazionale”, un “transpartito”, che da allora concentrerà la sua azione politica verso gli obiettivi dell’abolizione della pena di morte in tutto il mondo, a iniziare da una moratoria, dell’affermazione universale dei diritti umani e della democrazia, dell’istituzione di un tribunale internazionale, nell’ambito delle Nazioni unite, contro i crimini di guerra e quelli contro l’umanità.

Pannella ha legato il suo nome ad alleanze con i più diversi schieramenti politici: con la sinistra, comunisti o socialisti, ma anche con il centrodestra. E ha sempre espresso opinioni liberiste in materia economica. Si è posto, dunque, al di fuori di una catalogazione precisa nel panorama politico italiano, abbracciando di volta in volta posizioni sostanzialmente “di sinistra”, sul piano dell’etica, e “di destra”, sul piano delle politiche economiche.

Una delle sue più significative battaglie è stata quella contro la “partitocrazia”, un sistema di fatto in cui l’eccessivo potere dei partiti arriva a sostituirsi a quello degli organi previsti dalla Costituzione. D’altra parte, Pannella non si riconosceva in una ideologia ben definita. «Una sete alternativa profonda, più dura, più radicale di altri»: così giustificava la scelta del nome Partito radicale.

Tra le sue prese di posizione, da ricordare quella durante il sequestro di Aldo Moro, quando si espose contro la linea della fermezza, e quella a difesa del giornalista e conduttore televisivo Enzo Tortora, arrestato su accuse di pentiti di mafia poi rivelatesi infondate.

Nel 1977 ha fondato l’emittente Radio radicale di cui è stato vivace animatore. La sua verve politica si è espressa anche con gesti al limite della legalità, come la provocatoria promozione di droghe leggere in tv, e con manifeste polemiche con i media, soprattutto quelli pubblici, ai quali rimproverava di dedicare a lui e al suo partito sempre troppo poco spazio.

Osservatore romano 20 Maggio 2016

Dal Mozambico in fuga verso il Malawi

Torna il clima da guerra dopo il ventennio di pace

di Fausta Speranza

Undicimila rifugiati in Malawi dal Mozambico, Paese dell’Africa orientale in cui, a 20 anni dal raggiungimento della pace, è tornato da tempo un clima di guerra.  L’Organizzazione internazionale per le migrazioni, Oim, conferma che da dicembre si registra un aumento degli arrivi con picchi di 250 persone al giorno.

Tanti arrivano come primo approdo nel campo di Kapise, nel distretto di Mwanza, a sud, ad appena 300 metri dalla frontiera con il Mozambico. Per mesi la maggior parte dei richiedenti asilo ha vissuto in condizioni di sovraffollamento in un’area di circa 100 chilometri a sud di Lilongwe, la capitale del Malawi, che in tutto conta 14 milioni di abitanti. Ad aprile, il governo del Malawi ha autorizzato l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Unhcr, a ricollocare i richiedenti asilo in un’area che anni prima ospitava un campo per rifugiati a Luwani, a sud est, riutilizzata ora a questo scopo. Si tratta di un tragitto di 320 chilometri. Sono partiti solo i primi convogli. Non sono mancati e non mancano grandi disagi per i migranti.

Bisogna capire da cosa fuggono. In Mozambico si registrano scontri armati in aumento nelle province centro-settentrionali di Tete, Zambezia e Sofala. Soprattutto da lì fuggono gli sfollati.

A combattere sono i militari legati alla Renamo che sferrano attacchi all’esercito governativo, che risponde con azioni di dura repressione. La popolazione civile è fortemente coinvolta.

Bisogna tornare indietro e ricordare che  il Mozambico ha conosciuto la tragedia della guerra civile dal 1977 al 1992, con la contrapposizione tra il Frelimo, il partito di area socialista al governo dall’indipendenza dal Portogallo nel 1975, e la Renamo, il movimento politico di opposizione legato al blocco occidentale e protagonista della rivolta armata.  Il 4 ottobre 1992, dopo un’intensa opera di mediazione della Comunità di Sant’Egidio e della diplomazia italiana, le due parti hanno raggiunto l’accordo di pace.

Il punto è che dal 2013 è scoppiata una forte tensione che è sfociata da un anno in una grave crisi politica, che vede contrapposti esponenti del Frelimo, l’attuale partito al potere, ed esponenti della Renamo, l’ex movimento di guerriglia divenuto il principale partito d’opposizione.

I primi segnali di peggioramento del clima politico sono arrivati con la minaccia del vecchio leader della Renamo, Afonso Dhlakama, di raggiungere il suo piccolo esercito, che gli accordi di pace avevano mantenuto in vita, nella zona montuosa di Gorongosa, in provincia di Sofala, minacciando il ricorso alle armi. Sono seguite trattative tra il governo e la Renamo che, però, non hanno portato ad alcun risultato. Sono scoppiati i primi incidenti, che sono via via aumentati, fino a rendere la situazione esplosiva.

Alle sofferenze della popolazione guarda la chiesa locale, che chiede la collaborazione di tutti per la pacificazione. La Conferenza episcopale del Mozambico, Cem, ha indetto per  domenica 22 maggio, festa della Santissima Trinità, una giornata di preghiera.

La stabilizzazione del Paese sembrava un traguardo ormai raggiunto ma è improvvisamente rispuntata la minaccia di una nuova guerra fratricida. Questa volta sembra che più che le ideologie c’entrino le risorse minerarie.

A questo proposito ci racconta qualcosa Pietro De Carli, che per anni ha coordinato progetti  di ricostruzione in Paesi africani e poi in Afghanistan, autore di recente del volume Fuga a Occidente. Migrazioni nella globalizzazione, edito da Albatros, che invita ad andare al di là del focus su Mediterraneo e rotta balcanica.

Significative le scoperte di carbone, gas, petrolio e terre rare. Le tensioni, dunque, più che a rancori antichi sembra siano legate a nuove partite per il controllo dei proventi e delle royalty dei giacimenti.

La fase di sviluppo economico è stata vissuta dalla popolazione con un rialzo del Prodotto interno lordo, Pil, ma senza un sensibile miglioramento delle condizioni di vita.  Per non parlare di quanti sono stati coinvolti direttamente negli espropri delle ampie estensioni di aree agricole affidate in concessione a lobby internazionali, avvenuti di pari passo con la distruzione di vaste aree forestali. La corsa all’eldorado delle materie prime a basso costo tocca soprattutto il Nord del Paese e coinvolge multinazionali occidentali e Paesi emergenti, come Cina, India e Brasile. Un esempio, la multinazionale brasiliana “Vale” è assegnataria dell’enorme miniera di carbone di Moatize, in provincia di Tete, dove è avvenuto uno degli episodi di violenza, con la polizia che ha disperso un centinaio di manifestanti che rivendicavano la tutela dei diritti delle comunità locali.

Altri esempi di teatri di violenza. Il 27 aprile, racconta de Carli, un gruppo di contadini ha scoperto una fossa comune contenente 102 corpi in una zona denominata “76” del Monte Gorongosa, dove si concentrava il nucleo armato della Renamo, in prossimità di un cantiere stradale e degli scavi di una miniera abusiva.

In definitiva non sembra possibile pensare solo a una gestione dell’emergenza da parte dell’Unhcr.

Osservatore romano 17 Maggio 2016

Non chiamateli illegali

Monito del Consiglio d’Europa sui migranti irregolari

di Fausta Speranza

Irregolari ma persone. Irregolari, ma non illegali. Il Consiglio d’Europa lancia un forte monito a non dimenticare i più basilari diritti umani di migranti non regolari su territori europei. Lo fa con la raccomandazione pubblicata dalla  Commissione europea contro razzismo e intolleranza, Ecri, che innanzitutto invita i Governi ad «astenersi dal designare come “illegali” quei migranti che sono entrati o sono presenti in uno Stato membro senza il permesso di immigrazione».

Il messaggio comincia guardando il tutto dalla parte dei cittadini. La prima indicazione, infatti, riguarda chi, in qualche modo o a diverso titolo, assicura a migranti irregolari alcuni servizi che rientrano nei diritti fondamentali, riconosciuti come tali dal primo articolo della Convenzione internazionale. L’indicazione è precisa: non vanno discriminati. Precisamente si afferma che «chi fornisce cure, alloggio, istruzione, o protegge e assicura i diritti di donne, bambini e uomini presenti irregolarmente sul territorio del proprio Stato non deve essere punito e non deve essere tenuto a denunciare queste persone alle forze dell’ordine e le autorità migratorie».  L’affermazione non è da poco. C’è altro. Si legge nero su bianco che «gli Stati devono vietare per legge a chiunque fornisca servizi essenziali, nel pubblico e nel privato, di segnalare alle autorità migratorie i migranti sospettati di essere irregolarmente presenti sul territorio dello Stato, o trasmettere dati e informazioni su di loro».  Si parla esplicitamente di assistenza sanitaria, ma non solo.  Si legge di «opportuna assistenza amministrativa e giuridica».

L’organismo del Consiglio d’Europa, che più si occupa di combattere  razzismo e discriminazioni, ritiene che queste misure siano essenziali per assicurare che gli Stati garantiscano effettivamente, come sono tenuti a fare in base agli obblighi che hanno volontariamente sottoscritto, i diritti umani. L’Ecri sottolinea che i diritti di persone migranti sono violati ogni volta che una legge impone a chi li assiste di segnalare la loro presenza alle forze dell’ordine, perché questo impedisce direttamente o indirettamente a donne, bambini, e uomini di avere accesso ai servizi di cui hanno bisogno.

Nel testo di fa l’esempio di numerosi effetti negativi. Quelli più ovvi sono sotto il profilo della salute di tutta la popolazione. Si dice espressamente che la paura di essere denunciata può indurre una persona con una malattia contagiosa a non farsi curare, o a impedire la vaccinazione dei bambini. L’Ecri avverte che non solo c’è il rischio di rendere i migranti irregolarmente presenti più vulnerabili a forme di sfruttamento e abuso, ma si alimenta anche l’intolleranza e la discriminazione verso tutti gli immigrati.

Dalle indicazioni di principio alle misure concrete. Oltre a decriminalizzare l’assistenza ai migranti irregolarmente presenti sul territorio, ogni Stato deve assicurare che possano accedere a tutti i servizi essenziali senza dover presentare documenti inerenti al loro “status migratorio”. Non è tutto qui. L’Ecri va oltre affermando che le autorità devono «proibire alle forze dell’ordine di condurre controlli nelle immediate vicinanze di scuole, ospedali, servizi per l’alloggio, centri di assistenza, banche del cibo e istituti religiosi».  Questo il contenuto chiave della sedicesima “raccomandazione di politica generale” che l’Ecri rivolge ai Governi dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa.  Ricordiamo che le raccomandazioni non sono vincolanti, ma a volte vengono riprese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

In prima pagina, Osservatore Romano 13 Maggio 2016