Grecia sotto la lente

Alla Plenaria dell’Europarlamento

dalla nostra inviata a Strasburgo Fausta Speranza

“Una revisione nell’ambito di aggiustamento economico per la Grecia e’ possibile”. E’ quanto ci dichiara Il vicepresidente della Commissione per l’Euro e il Dialogo sociale, Valdis Dombrovskis, dopo che l’Eurogruppo ha accolto positivamente il completamento del pacchetto di misure economiche varato da Atene. Il gruppo dei Paesi dell’euro tornerà a riunirsi il 24 maggio e potrebbe esserci in quella data il via libera alla prossima tranche di aiuti. Nel frattempo le misure di breve, medio e lungo periodo per il debito saranno discusse dai tecnici del gruppo.

Dombrovskis e il Commissario per gli Affari economici e finanziari, Pierre Moscovici, relazionano e discutono della situazione di Atene con gli eurodeputati a Strasburgo, nell’ambito della Plenaria del Parlamento europeo.

L’attenzione e’ tornata su Atene dopo che il Parlamento greco ha approvato la contestata riforma fiscale e delle pensioni. Si tratta di misure che hanno riacceso le proteste di piazza ma che il primo ministro, Tsipras, difende definendole “necessarie per rispettare gli accordi con i creditori”. In effetti si tratta di provvedimenti essenziali per sbloccare la seconda tranche del terzo piano di aiuti internazionali per 86 miliardi di euro, previsto nel periodo 2015 – 2018.

Il punto è che la Grecia chiede anche una ristrutturazione del debito, consapevole che altrimenti non uscirà mai dalla crisi. La decisione finale spetta all’Eurogruppo ma va detto che saranno fondamentali le riunioni del Fondo monetario internazionale, Fmi, la prossima settimana, a Washington. A questo proposito, Moscovici ci assicura che la questione della riduzione del debito sarà all’ordine del giorno.

Dombrovskis si puo’ dire che “i dati recenti mostrano che l’economia greca è più forte di quanto si poteva prevedere nell’inverno scorso e che in particolare dall’estate tanti passi in avanti sono stati fatti”. Ma ci dice anche che “non c’è tempo per l’autocompiacimento” e parla di “negoziati che devono continuare intensi e continui”. Gli fa eco Moscovici, che sostiene che l’obiettivo di bilancio per la Grecia rimane un avanzo primario del 3,5 per cento nel 2018. La maggior parte dei risparmi dovrebbe venire da una riforma globale del sistema pensionistico, dalle riforme fiscali sul reddito personale e le misure contro l’evasione fiscale altri risparmi. E Moscovici ammette: “La richiesta di ulteriori sforzi in questa fase, avrebbe un effetto negativo”.

In particolare le norme appena varate dal Parlamento di Atene riguardano la stabilizzazione, e i conseguenti risparmi, il sistema pensionistico ed un aumento delle tasse per complessivi 3,6 miliardi di euro. Sono misure che si inseriscono in un pacchetto più ampio da 5,4 miliardi di euro concordato con l’Ue e il Fmi.

Guardando al Fmi e alle riunioni cosiddette di primavera della prossima settimana viene da pensare che al momento stanno a Washington gli ostacoli maggiori. Il Fmi chiede di mettere sul tavolo la ristrutturazione del debito greco ma ritiene per altro irrealistico il raggiungimento del target di avanzo primario del 3,5 per cento fissato dall’Ue per il 2018. Secondo il Fmi, si fermerebbe all’1,5 per cento. Quindi, non sembra dare credibilita’ alle ‘misure di contingenza’ e al meccanismo per farle scattare, proposto invece da Atene con il sostegno della Commissione, per rassicurare i Paesi piu’ scettici, guidati dalla Germania.

A sollevare la discussione c’e’ la lettera che, secondo quanto riportato dal Financial Times, la direttrice del Fmi, Christine Lagarde, ha scritto ai ministri dell’Eurozona. Emerge la volonta’ di “discutere contemporaneamente le misure di contingenza, la ristrutturazione del debito e il rifinanziamento”. Nella lettera, Lagarde spiega che per dare il suo sostegno “è essenziale che il finanziamento e la ristrutturazione da parte dei partner europei della Grecia siano basati su target fiscali che siano realistici perché sono sostenuti da misure credibili per raggiungerli”. Appunto il Fmi non crede al raggiungimento del 3,5 per cento, “non adeguato per l’economia del Paese”, né alle misure di contingenza. La Commissione Ue, invece, sostiene Atene. Gia’ più volte il Commissario agli affari economici, Moscovici, ha ribadito che l’obiettivo dell’avanzo strutturale e’ realistico e raggiungibile e che il meccanismo di contingenza, in linea con le esigenze costituzionali greche che non consentono di adottare misure in anticipo, e’ una rassicurazione sufficiente.

Di fronte a tutto cio’, Moscovici ricorda che il processo decisionale non è soggettivo, piuttosto i negoziati si basano sul protocollo d’intesa raggiunto ad agosto dello scorso anno, che “fa da tabella di marcia per tutte le parti coinvolte”. Moscovici ci tiene anche a sottolineare l’importanza del coinvolgimento del Parlamento europeo. A gennaio la Conferenza dei presidenti del Pe ha approvato una serie di misure per rafforzare il controllo su tutte queste questioni dando vita al Gruppo di lavoro sull’assistenza finanziaria, indicato con la sigla Fawg. Moscovici spiega che la Commissione parla anche in base agli elementi raccolti dagli esponenti del gruppo in missione la scorsa settimana ad Atene. Un occhio in più, nel lavoro della cosiddetta Trojka, formata sostanzialmente da Commissione Ue, Banca centrale europea, Fmi.

Osservatore Romano 11 maggio 2016

Non più profughi ostaggio del regolamento di Dublino

Tutta aperta in ambito europeo la discussione in tema di revisione di  diritto di asilo. Dopo le proposte della Commissione, l’Europarlamento tenta di rilanciare con i suoi principi guida. Se ne discute alla Plenaria che prende il via a Strasburgo. La prospettiva che si intravede è quella di una sostanziale differenza di impostazione.

Per chi volesse fare domanda di asilo in uno dei Paesi europei, finora c’erano dei punti fermi comuni fissati dal regolamento di Dublino, che in realtà poi lasciava ai singoli Stati membri margine di manovra su alcuni aspetti anche importanti. Ma tra i paletti fissati, c’era l’obbligo per i richiedenti asilo di presentare la domanda nel Paese di primo ingresso. Questo, nella recente ondata migratoria, ha creato situazioni di blocco di profughi, praticamente sequestrati in territori di secondo o terzo approdo, senza poter presentare  domanda. Da qui, l’urgenza di una revisione, in realtà richiesta anche dalla  serie di differenze, nei tempi e nelle modalità scelti dai vari Stati in base al margine di manovra riconosciuto. In definitiva, la revisione non è messa in discussione da nessuno. Bisogna però capire cosa si voglia.

All’Assemblea parlamentare si discuterà di un sistema centralizzato, con domande d’asilo da presentare direttamente all’Ue e non al singolo Stato membro. L’Europarlamento vorrebbe superare l’impasse, in cui tanti si sono trovati, svincolando i richiedenti asilo dal territorio in cui sono e prevedendo  una responsabilità tutta europea nell’accoglimento o meno della domanda. In sostanza, è come dire che la richiesta si farebbe a Bruxelles, anche se finalizzata ad essere accolti in un Paese o in un altro.

Il principio alla base delle proposte già avanzate dalla Commissione, invece, è  lo stesso di sempre. I richiedenti asilo devono presentare domanda nel primo Paese di ingresso, salvo che non abbiano famiglia in un altro Paese. L’unico impegno di centralizzazione sta nel concepire un Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, EASO, pensato dalla Commissione come una vera e propria agenzia Ue. Dovrebbe nascere in rafforzamento di Eurodac, la banca dati delle impronte digitali dell’UE, che sappiamo voluta per contrastare la migrazione irregolare.

Si capisce che la distanza delle posizioni tra Esecutivo e Parlamento al momento non è da poco. Un punto fermo comune è la consapevolezza che i migranti continueranno ad arrivare alle frontiere e a chiedere asilo. La tragedia umanitaria  non può essere trattata come una emergenza transitoria, avendo acquisito ormai un carattere strutturale. Obbligo internazionalmente riconosciuto è garantire che chi necessita di protezione la riceva.

Da più parti continua ad arrivare la sollecitazione a assicurare una gestione più appropriata dei flussi migratori. E qui si torna ai punti chiave, cioè la gestione delle frontiere esterne, la cooperazione con i Paesi terzi, la lotta contro il traffico di esseri umani e i meccanismi di reinsediamento di rifugiati direttamente nell’Ue. Sappiamo che sono tutti fronti in discussione, aperti come lo è quello dei diritto di asilo. Su tutti l’Unione Europea sta faticosamente cercando una linea comune o un’azione concreta comune. Ognuno di questi punti ha il suo esempio scottante. Dal Brennero, con l’ipotesi di chiusura del valico con l’Italia da parte dell’Austria, alla questione dei fondi da trovare per i Paesi africani che devono collaborare per calmierare i flussi e dunque l’immigration compact proposto da Roma e approvato in tutto meno che nella concreta proposta di eurobond, senza che siano arrivate ancora altre idee di finanziamento. C’è poi la maggiore integrazione di forze  contro i trafficanti da attuare nei fatti e i meccanismi di reinsediamento da rispettare, che Grecia e Italia ancora non hanno visto attuati.

Di certo c’è che dalla crisi è emerso che alcuni Stati membri sono stati sottoposti a pressioni enormi a causa delle carenze di un sistema generale, che non era stato concepito per affrontare situazioni come quelle recenti. Su questo sembra proprio che non ci siano alternative possibili. Ogni qualvolta uno Stato membro sia eccessivamente sotto pressione, deve scattare la solidarietà e un’equa ripartizione delle responsabilità. Ma ancora si discute se debba significare accoglienza obbligata di un certo numero di migranti o se si possa ammettere che qualche Paese sia esentato, in virtù di un contributo monetario, che qualcuno ipotizza di quantificare in 250.000 euro per ogni profugo.

Dimitris Avramopoulos, commissario per la Migrazione e gli Affari interni ci dice che è fondamentale che la Commissione lavori <fianco a fianco> con il Parlamento europeo e gli Stati membri. Si vedrà quali raccomandazioni precisamente emergeranno dall’Europarlamento e quali saranno accolte. Una su tutte non dovrebbe essere dimenticata da nessuno. Qualunque riforma dovrebbe tenere conto del principio di solidarietà per i più bisognosi ben ribadito nei Trattati fondativi dell’Unione.

di Fausta Speranza

Osservatore Romano del 10 maggio 2016

L’Africa emigra al suo interno

Cresce anche il numero degli sfollati interni

di Fausta Speranza

L’Africa non è il maggiore “produttore” di migranti. Anzi è il continente con la più alta percentuale di rifugiati. E quello che soffre maggiormente del fenomeno degli sfollati interni. Dati Onu alla mano, è questo lo scenario che emerge guardando, non dall’esterno ma dall’interno, al rapporto tra migranti e Africa e tra migranti e guerre.

Il 65 per cento di quanti si muovono dall’Africa subsahariana restano all’interno del continente. Solo in Sud Africa, ogni anno entrano almeno 250.000 migranti.  Al di sotto del Sahara ci sono quasi 15 milioni di sfollati, all’incirca un terzo del totale mondiale.  Il campo profughi più affollato al mondo è in Kenya. È il campo di Dadaab, che circonda le città di Hagadera, Dogahaley e Kambios, non lontano dal confine con la Somalia, da cui provengono i disperati ospiti. Oltre 400.000 persone. Altri campi sfiorano queste cifre in altri Paesi.

Certamente se dici fame e guerre, dici Africa. Nel mondo, a vivere fuori dai confini nazionali sono 244 milioni di persone, pari al 3,3 per cento della popolazione. Sessanta milioni fuggono da conflitti, violenze, crisi umanitarie, emergenze naturali. E, di questi, ben il 25 per cento sono africani.

A ben guardare, però, le guerre tra vari Stati in Africa sono diminuite e quello che scatena le violenze sono soprattutto le disuguaglianze economiche. Negli anni Novanta, le crisi sono state provocate dai grandi conflitti in Africa occidentale, nella Repubblica Democratica del Congo, in Somalia, dalla tragedia in Rwanda, o dalla coda della guerra in Angola. E gli strascichi sono ancora tanti. Basti citare la situazione difficile dei rwandesi fuggiti in Zambia, dove vivono momenti di seri scontri con la popolazione locale.

Non mancano poi casi di xenofobia. I più gravi riguardano i cittadini dello Zimbabwe che hanno trovato rifugio in Sud Africa, dove sono al centro di  tensioni da 15 anni. Ci sono poi altre situazioni difficili anche se non esplosive, come ad esempio i 93.000 cittadini della Repubblica  Centroafricana fuggiti in Ciad, che ospita anche 360.000 profughi dal Sudan.

Non si può dire che non ci sia crescita economica. Il punto è che aumenta lo sviluppo solo per meno del 30 per cento della popolazione. Squilibri e tendenza all’urbanizzazione, in qualche caso selvaggia, producono l’esodo verso le grandi città, come Nairobi in Kenya, Lagos in Nigeria,  Johannesburg in Sud Africa, Addis Abeba in Etiopia, Lusaka in Angola. Assembramenti con tensioni sociali altissime.

Il tutto si unisce a un altro fenomeno che rende unica al mondo quest’area. La crescita demografica che non conosce curve di discesa. Si delineano così i contorni di una situazione in movimento da anni e anni.

In tutto questo quadro, è relativamente recente l’esodo massiccio verso l’Europa. C’è da dire che dai Paesi del Maghreb da tempo si parte verso il Vecchio Continente e verso il Medio oriente e che il flusso da Marocco e Tunisia in realtà si è fortemente ridotto con gli accordi tra Unione europea e governi locali. Certamente non ha funzionato l’accordo con la Libia,  Paese smembratosi alla caduta di Gheddafi.  Ma ci si chiede se bastino la destabilizzazione in Libia e la tragica guerra da cinque anni in Siria a giustificare le cifre della recente emergenza umanitaria sul Mediterraneo e sulla rotta balcanica.

C’è qualcuno, che studia da vicino il continente nero, che a questa interpretazione non ci sta. È il professor Aldo Pigoli, docente di Storia dell’Africa contemporanea all’Università cattolica del Sacro Cuore a Milano ci dice di essere certo che neanche lo stop al conflitto in Siria riuscirebbe a far diminuire il flusso, dovuto in realtà a una riorganizzazione del business del traffico di esseri umani senza precedenti. Business che, come mette in crisi le strutture dell’Unione europea, così mette in crisi i processi di integrazione delle macroregioni in Africa.

Osservatore Romano 8 Maggio 2016

Visti umanitari contro i viaggi della morte

Per dire Basta ai viaggi della morte

di Fausta Speranza

Visti umanitari, per dire basta ai viaggi della morte: è la proposta contenuta nella risoluzione che il Parlamento europeo vota martedì 12. Una presa di posizione in controtendenza rispetto alle ultime decisioni europee di chiusura delle frontiere e soprattutto in aperto contrasto con quella che la relatrice della risoluzione, Cecile Kyenge, chiama la «fabbrica della paura».

Visti umanitari perché ci sia riconoscimento dell’umanità, spiega, in un’intervista all’Osservatore Romano e a Radio Vaticana, l’eurodeputata Kyenge, sottolineando che «la via l’ha indicata Papa Francesco, quando a Lampedusa ha riconosciuto gli invisibili, ha portato un fiore ai morti in mare senza un nome». E ora va sull’isola greca di Lesbo, simbolo dell’emergenza sulla rotta balcanica, mentre, afferma Kyenge, l’Europa e l’Onu sembrano di nuovo aver smarrito la via.

Precisamente, la proposta di un visto umanitario significa dare la possibilità alle persone di fare richiesta di asilo direttamente nei Paesi dove si trovano, fuori dell’Unione europea e fuori anche dei Paesi confinanti come la Turchia, a casa loro, ovviamente in  ambasciate o consolati. L’ obiettivo è uno solo: evitare che salgano sui barconi della morte. In fondo sarebbe il modo più efficace di contrastare l’indegno traffico di esseri umani, che dalla via del Mediterraneo si è spostato sulla rotta balcanica, con il suo inesorabile prezzo in termini di vite umane spezzate o piegate.

A livello di vertici europei, si discute tanto su come superare o perfezionare il regolamento di Dublino, che finora ha vincolato le richieste di asilo al Paese di primo approdo, congestionando alcune frontiere e sequestrando di fatto migliaia di perone in un limbo. Esattamente quanto successo a Lesbo, dove Francesco si reca proprio perché l’isola dell’Egeo è divenuta simbolo delle condizioni disumane delle persone in fuga da Siria, Iraq, ma anche da Paesi africani, verso il nord Europa. A Lesbo, il 16 aprile, arriverà l’abbraccio umanitario del Papa, insieme con il Patriarca ecumenico di Costantinopoli e l’arcivescovo ortodosso di Atene.

L’abbraccio si fa appello alla politica, ma anche alle coscienze di tutti: leader e cittadini.

Il testo di cui parliamo è al voto dell’Europarlamento, che rappresenta direttamente i cittadini: quei cittadini che i media raccontano terrorizzati e arroccati su frontiere blindate.

Proprio dai loro rappresentanti arriva un segnale forte alla Commissione europea, esecutivo comunitario, e ai capi di Stato e di Governo. Si tratta della assise parlamentare più euroscettica della storia di Strasburgo.

Il punto è che emerge una proposta che va oltre l’emergenza e che tocca la radice dei problemi: conflitti e speculazioni. E qui risulta evidente che, al di là di qualunque euroscetticismo,  questa proposta va incontro agli interessi dei cittadini stessi, anche in termini di sicurezza.

Colpisce il numero di volte in cui nel testo della risoluzione torna la parola solidarietà. Non dovrebbe meravigliare perché nei Trattati fondativi dell’Europa unita è un termine cardine. A ben guardare, quello che stupisce è che non si tratta di una solidarietà declinata nell’emergenza, ma di una solidarietà che ragiona sull’arco ampio della prospettiva reale dei flussi migratori: decenni e non mesi o giorni. Anche questo è un modo per venire incontro ai bisogni reali dei cittadini: pensare politiche di ampio respiro. Si capisce che l’inganno di chi, con le parole di Kyenge, alimenta la <<fabbrica della paura>>, è anche quello di rubare lo spessore storico dei fatti migratori, appiattendo tutto su un piano falsato e illusorio, in cui sembra possibile sbarrare le porte senza una politica di lunga gittata.

A questo proposito, nel testo al voto, che certamente non rappresenta o racchiude la soluzione di tutto, si trova un altro elemento importante: oltre a concepire nuovi canali di migrazione legale attraverso i visti umanitari, si concepisce un progetto di accoglienza che vada oltre la direttiva comunitaria della Blue card, cioè della regolamentazione dell’immigrazione altamente qualificata.  In concreto, si chiede alla Commissione europea di non limitare il progetto a una categoria ristretta di persone, dagli ingegneri ai medici per capirci, ma di allargare la prospettiva, guardando anche ai nuovi bisogni del mercato. Dunque, categorie meno specializzate, lavori meno qualificati.

Non che non ci siano domanda e offerta su questo piano, ma troppo spesso sfuggono a certe politiche di integrazione.

Resta da dire delle incognite aperte dopo l’accordo, il mese scorso, tra Ue e Turchia per la gestione dei migranti, che prevede rimpatri, reinsediamenti di rifugiati. Il dubbio centrale è se l’intesa possa muoversi nel rispetto degli standard internazionali di diritti umani. Le convenzioni ci sono, viene ricordato da più parti, e bisogna applicarle. Su tutto, è fortissima l’attesa per le parole che a Lesbo saranno pronunciate dal Papa. Francesco, ci dice Cecile Kyenge, <<torna a indicarci la via>>.

di Fausta Speranza

Osservatore Romano dell’11 aprile  2016

Paura e speranza: in Ungheria tra i profughi

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Siriani, iracheni, afghani… Le storie dei disperati arrivati con ogni mezzo fin nel cuore dell’Europa. di Fausta Speranza

PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

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Sair l’iracheno (sinistra) con padre e figlia incontrati lunga la strada (foto F. Speranza)

Sair è un ragazzo sui 25 anni. Cammina accanto al suo amico e si gira spesso a controllare che l’anziano dietro, sottobraccio a una ragazza, lo segua. Gli chiediamo se sono familiari, esita un attimo e poi ci dice: “Speriamo ci considerino tali e ci facciano salire sullo stesso autobus ma in realtà non lo siamo”. Sair ci racconta di provenire da Baghdad, capitale dell’Iraq infiammato ormai da oltre 20 anni di guerra e terrorismo e ci spiega che ha deciso di scappare quando uomini del sedicente Stato islamico lo hanno contattato chiedendogli di arruolarsi tra loro. “Uccidono innocenti – taglia corto –  non vorrei mai essere con loro, ma so che se rifiuti ti ammazzano e mio padre ha venduto qualcosa per darmi i soldi necessari al viaggio”. Sulla via – ci racconta – ha incontrato questo anziano e sua figlia, che invece vengono dalla Siria e, chiedendoci di non parlare a voce alta,  aggiunge che ormai non vorrebbero separarsi.

“Per gli ungheresi, noi parliamo la stessa lingua – sostiene – e dunque possono credere che siamo familiari”.  Sair sorride. E’ ben vestito e ci confida con fiducia che finora non ha speso tanti soldi, solo 2500 euro per la traversata dalla Turchia alla Grecia. Sorride soprattutto al pensiero di ritrovare suo fratello, partito dopo di lui, per la stessa tratta. “Appena potrò acquistare una sim telefonica che funziona in Europa – afferma – potrò parlarci e sapere che sta bene”.  “Sono sicuro che sta bene, e che non gli è successo come quelli partiti tre giorni prima di noi: affogati in 33”. “No, a mio fratello non è successo, sono sicuro”.  Ci saluta dicendo nel suo buon inglese: “Sai, la situazione a Baghdad è peggio di quanto raccontano tutte le news, non farti mai venire in mente di andarci”.
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Ragazzo che non parla inglese (foto F. Speranza).

Ha i capelli tinti di biondo e una maglietta un po’ attillata. Mentre ripete che avrà una nuova vita, ostenta un sorriso che definiremmo sfacciato se non fosse palese la reazione eccitata che segue una grande paura. Ha circa 40 anni e non vuole dirci il suo nome né farsi fotografare. Ci dice che vuole fare il parrucchiere e poi,  dopo qualche minuto di conversazione,  si para dietro un sorriso diverso, pacato e ci dice: “Sono afghano, per quelli come me non c’è proprio posto in Afghanistan”. Tamas Lederer di Migraion Aid ci spiega: “Dall’Afghanistan sono tanti gli uomini soli, senza famiglia, anche perchè sono tanti gli omosessuali che scappano”.

Una donna, al cenno di un poliziotto, fa un passo avanti ma il marito vicino reagisce in modo quasi scomposto e la trattiene. Lui ha capito che il poliziotto in inglese ha accompagnato il gesto di via con l’indicazione precisa che su quell’autobus c’è posto ancora solo per due persone. Loro sono quattro: ci sono le due figlie piccole. Abbiamo osservato la scena e l’uomo si gira a spiegarci che sono partiti dalla Siria in venti, tutti familiari. In Turchia si sono persi: sono rimasti loro quattro e mai – ci dice – potrebbe separarsi dalla moglie e dalle figlie. Tira un sorriso di sollievo quando il poliziotto capisce e  lascia tornare indietro la moglie che sembra persa.

Un altro uomo sui trent’anni ci passa davanti a testa bassa per accedere agli autobus. Gli sorridiamo e gli chiediamo in inglese se ha qualcosa da raccontarci perchè i cittadini europei conoscano di più le storie di chi chiede di essere accolto. Ci dice con un’espressione sofferente: “no English”. Riabbassa la testa. Poi la rialza e inizia a parlare nella sua lingua, che non conosciamo. Ci fermiamo ad ascoltarlo, con un auspicio nel cuore: che l’Europa sappia comprendere quello che c’è da capire al di là delle parole.

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Una mamma, troppo stanca per farsi intervistare (foto F. Speranza).

Una donna cammina accanto al marito con un bambino in braccio ma poi si avvicina a noi lasciando il marito un po’ indietro, con un gesto che si distingue dal modo di fare delle altre donne che non fanno un passo se non accanto ad un uomo. Ha capito che stiamo facendo interviste e in inglese ci dice: “Peccato che sono troppo stanca per parlare”. Un attimo dopo è di nuovo vicino al marito, avvolta nella coperta e – ci sembra – in una nuvola di dolore

Dalla fila si stacca un ragazzino di dieci anni suscitando la reazione immediata ma molto composta di un poliziotto austriaco. Il ragazzino raccoglie un marsupio da terra. Il poliziotto non lo perde di vista un attimo ma lo lascia esultare con un compagno di giochi.

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Una ragazza siriana in attesa di salire sull’autobus per un’altra destinazione europea (foto F. Speranza).

da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015