Il sapore del commiato

10 giugno 2023

«Fine di una madre» di Paola Pastacaldi

di Fausta Speranza

«Ho messo in questo diario tutta la mia paura che ho blandito a fianco di una madre autarchica che conosceva benissimo l’uso del potere, tanto da intimidirmi tutta la vita, che all’improvviso non avrebbe più potuto camminare e tantomeno comandare. L’ho fatto perché vincere la paura della sua angosciosa condizione e scegliere di starle accanto mi ha regalato un’occasione unica». Con queste parole Paola Pastacaldi, autrice di saggi e di romanzi storici, ci spiega la scelta di portare alla stampa un libro diverso dagli altri: Fine di una madre (Varzi, Fiorina Edizioni, 2023, pagine 119, euro 16) infatti, come lei stessa lo definisce, è un diario autobiografico. La parabola segnata dalla malattia e dalla medicina si immagina facilmente, compreso le perplessità per un inaccettabile accanimento terapeutico, quello che invece colpisce di più nel testo è il coraggio di condividere pensieri semplici ma potenti come questo: «Il tempo strappato alla morte può diventare un tempo prezioso per i familiari: il tempo della condivisione del significato di vivere».

Anche se nelle vicende familiari ci sono dettagli particolarissimi di esistenze intrecciate alle vicende delle colonie italiane in Africa a inizio secolo scorso, il racconto ha come punto focale l’esperienza universale della vecchiaia, che viene definita così senza inutili ipocrisie di stampo politically correct. È facilmente condivisibile lo choc di chi vive repentinamente il passaggio dall’anzianità del proprio genitore, fatta di rallentamenti e incertezze ma di sostanziale autonomia, alla vecchiaia in cui si dipende da altri, a volte da un sondino. «La qualità della loro vita è lì, sotto gli occhi di chi li guarda. Sempre più rattrappiti su se stessi, scheletrici, mani e gambe ossute che si chiudono sul corpo, quasi a difenderlo da aggressioni esterne.»

Pastacaldi racconta «un’inquietudine che non so più come nascondere a me stessa (…) nessuno mi ha preparata a questo momento, nessuno mi ha detto “ti accompagno io”». Da qui la scelta di mettere nero su bianco frammenti di un’esperienza che tutti sappiamo essere estremamente intima, come può esserlo tenere la mano a chi ti ha dato la vita mentre la sua vita si spegne.

Pastacaldi spiega di aver voluto scrivere qualcosa che possa aiutare in modo concreto chi si trovi di fronte ad un anziano fragile da aiutare. Si parte da una amara constatazione: «Non ci sono dati, pensieri, riflessioni, valutazioni, propositi; calcolando che l’Italia è un popolo di anziani, sembra incomprensibile. Come non esistessero. Perché ciò che riguarda gli anziani è coperto da omissis o afasia? È paura o incapacità di gestire l’enorme problema che avanza?». Gli anziani rischiano di diventare «vittime di Ageismo, come razzismo, sessismo».

Dal punto di vista strettamente fisico c’è qualcuno deputato a venire in soccorso di qualunque infermo: sono i medici e ce ne sono tantissimi straordinari. Pastacaldi però fotografa il fenomeno nella sua complessità che comprende anche «la medicina che si crede onnipotente». È la tecnomedicina che dimentica «per interesse» che la vecchiaia non è una malattia da estirpare, ma da «blandire con gentilezza». In certi momenti prossimi alla fine la cura inutile protratta all’infinito ha «il sapore di una camera a gas» nella riflessione della figlia/scrittrice. «Quanto diventiamo crudeli — afferma — quando la tecnomedicina si divora per volgare interesse la nostra morte e per indifferenza anche la nostra capacità di essere pietosi e di esercitare la meravigliosa compassione». Il suo è un grido per rivendicare che «di fronte alla fine ogni gesto deve avere un sapore diverso». Dobbiamo offrire a chi se ne va un momento di pace, un momento di memoria e di amore.

«Amarla è il mio modo di proteggerla e di proteggermi, fino all’ultimo giorno». Resta centrale il messaggio ai familiari: non scappare. Anche se «era come se la sua morte fosse anche la mia», la scrittrice non fugge e la sua esperienza la racconta così: «Eppure qualcosa mi dice che il segreto della vita è racchiuso in questi pochi giorni di umile attesa a casa». Un’attesa in cui si può scoprire la preziosità di gesti semplicissimi, come quello della badante Katerina che «in piedi, a mani giunte, vicina alle sponde del letto, prega per i defunti». Pastacaldi scrive: «Mia madre tace, poi in un soffio supplica “Ancora”. Ondate di tepore gioioso mi scaldano sino alla punta dei piedi.» E confida: «La semplicità della fede di Katerina mi disarma e mi rende rispettosa». Nella sua «onestà sana e pulita» Katerina, che ha lasciato l’Ucraina per bisogno di lavorare ben prima della guerra, «per ogni dolore ha una poesia, per ogni dolore ha un pensiero saggio, per ogni dolore ha una consolazione o una canzone».

Quella che appare come «una vita artificiale priva di sapore» spalanca orizzonti di comprensione: «L’immagine di un bambino che nasce, le sue grida, le sue lacrime e il respiro faticoso di un anziano sembrano due parti di una unica sfera, due metà impossibili da separare».

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Storia smaltata

Due nuovi allestimenti ai Musei Vaticani

25 maggio 2023

Il blu cobalto su sfondo bianco e la policromia rinascimentale di piatti istoriati: sono due delle immagini che restano impresse alla vista delle nuove sale che arricchiscono da oggi, 25 maggio, i Musei Vaticani. Si tratta di due ambienti che offrono rispettivamente il corredo apotecario della Spezieria di Santa Cecilia in Trastevere e la raccolta vaticana di Ceramiche medievali e moderne per la prima volta nella sua interezza.

Il motivo della foglia di vite bipartita accompagna tra i vasi della Spezieria in uso dall’inizio del Seicento fino al 1936, anno in cui Pio XI ha predisposto il trasferimento in Vaticano. Un cambio di sede che ha fermato l’attività della farmacia trasteverina evitando la dispersione di oggetti e ingredienti impiegati in passato per la confezione di medicamenti. Vasi grandi e piccoli in maiolica, utili a contenere acque e sciroppi — come si legge nel diario manoscritto che narra il primo trasferimento dal monastero alla Biblioteca Vaticana — rappresentano un esempio singolare per il livello di integrità. Come sottolinea la direttrice dei Musei Vaticani, Barbara Jatta, «ricreano l’attività farmaceutica della comunità di Santa Cecilia». Si presentano con la loro coperta in smalto stannifero decorato in blu cobalto su fondo bianco o, in alcuni esemplari, in smalto berrettino, cioè di colore azzurro-cenere. Al di sotto del cannello dei vasi è dipinto un cartiglio contenente il nome del medicamento, che in alcuni è accompagnato da un emblema di appartenenza o da elementi figurativi come mascheroni, volti, angeli, tralci o fiori. Se bellezza e unicità si impongono subito all’attenzione, emerge poi l’evidenza del lungo processo di studio, ricerca, restauro che ha reso possibile il nuovo allestimento.

All’altro ambiente che rappresenta la seconda preziosa novità si accede proprio da una porta dell’antica Spezieria: parliamo della Sala delle Ceramiche che da questo momento ospita in modo permanente la raccolta vaticana di Ceramiche medievali e moderne. Tra le opere più significative si fanno notare 34 preziosi Piatti istoriati rinascimentali della Collezione Carpegna; alcuni vasellami da mensa medievale in ceramica fine; rarissimi esemplari di mattoni da pavimento in maiolica arcaica e la serie di pavimenti robbiani che erano parte della pavimentazione delle Logge Vaticane dette di Raffaello. Inoltre, compaiono ceramiche della metà del XIII secolo, decorate nei colori bruno (ossido di manganese), verde (ossido di rame) e arancio (ossido di ferro) con motivi decorativi tipici di maestranze di cultura islamica.

Interessanti anche i reperti e frammenti di ceramiche rinvenuti in scavi archeologici nelle aree vaticane in occasione di restauri e lavori edilizi. Primi fra tutti, i due salvadanai rinvenuti duranti i lavori negli anni 1946-1951 per la demolizione delle volte dell’ammezzato della Torre di Innocenzo III sotto il pavimento del secondo livello della Torre, contenenti medaglie commemorative del pontificato di Papa Paolo II Barbo. Si tratta dell’uso di inserire all’interno della muratura un elemento di memoria dei lavori edilizi sotto un preciso pontificato.

In occasione dell’allestimento delle nuove sale è stato editato il primo catalogo ragionato sulla collezione pontificia di Ceramiche medievali e moderne. Curato da Otto Mazzucato e Luca Pesante, rappresenta mille anni di storia della ceramica italiana: dal primo vasellame invetriato prodotto a Roma nel IX secolo fino alle monumentali opere offerte in dono ai pontefici all’indomani dell’Unità d’Italia. Può essere utile sapere che le due sale da oggi musealizzate sono collocate all’uscita della Cappella Sistina, lungo il percorso della collezione di arti decorative e sono visibili attraverso una preziosa porta intagliata valicabile su richiesta, per studio o visita guidata.

di FAUSTA SPERANZA

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Quel binario su cui corre la fede

19 Maggio 2023

Nel centenario di don Milani, la riflessione del cardinale Pietro Parolin

«In ogni situazione è sempre possibile fare qualcosa, anche quando tutto sembra dirci o imporci di restare fermi»: sono parole del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ispirate da «una figura impareggiabile come don Lorenzo Milani». L’occasione è stata l’inaugurazione della mostra fotografica nel centenario della nascita del prete di Barbiana alla Pontificia Università Lateranense, il 10 maggio scorso, che — ha avvertito il cardinale — non deve essere solo un momento celebrativo ma l’occasione per «guardare a quel Sacerdote e a quell’Educatore che ha saputo porsi oltre la quotidianità, tante volte routinaria e priva di stimoli». L’invito è a considerare «tutta l’attualità di Barbiana e del suo Priore». In particolare, ha suggerito il cardinale Parolin, «don Milani insegna a noi come la complessità sia qualcosa che appartiene alla società umana in ogni epoca e l’emergenza educativa ne è un risvolto costante».

Innanzitutto il Segretario di Stato ha sottolineato che don Milani ha saputo indirizzare la propria esistenza all’amore verso Dio e verso il prossimo che sono poi «il binario su cui corre la fede». Una fede che don Milani ha vissuto «come dono fin dalla sua giovinezza, che ha sposato nel sacerdozio frutto di una vocazione sin dall’inizio espressa come chiamata radicale, che ha originato anche l’attenzione e l’ascolto verso gli altri, senza indugi, né ripensamenti».

Il punto è che ha affrontato la complessità dei bisogni che vedeva oltre quella che il Segretario di Stato ha definito «la logica del fare scuola, di insegnare e di formare secondo lo schema — che è purtroppo una radicata convinzione — del “si è sempre fatto così”». Una sorta di equivoco e di illusione: «Uno schema dove la ripetizione è vista come garanzia di riuscita e soprattutto del non sbagliare, permettendo di continuare senza problemi nella convinzione che sia l’unico modo di procedere e la sola soluzione a tante esigenze o la risposta a diversi interrogativi». Di fronte a tutto ciò, don Milani ha scrutato «nuove strade per una formazione in cui l’importante non era l’ottenere un diploma, quanto piuttosto il sapere».

È noto che il bisogno diffuso era quello di tanti bambini e adolescenti che il contesto sociale, la realtà economica e, «non ultimo, un metodo scolastico volto a selezionare i migliori piuttosto che far emergere i talenti di tutti», ponevano ai margini di una società all’epoca definita complessa e «non priva di tante emergenze che toccavano anche la funzione educativa». Dunque, una notazione che porta al cuore del messaggio: di fronte a tale complessità, don Milani ebbe il coraggio di trovare risposta «in termini strutturali e non emergenziali come sarebbe stato più semplice e forse immediatamente apprezzato».

Oggi Barbiana, nelle parole del cardinale Parolin, appare «un laboratorio di vita vissuta e una risposta all’emergenza educativa nella quale il cammino nella fede si è saputo coniugare con la formazione, la cultura e la conoscenza». È importante ricordare che «alle giovani generazioni sono stati offerti lo spazio e gli strumenti di apertura alla realtà sociale, all’inserimento nella vita lavorativa e a un impegno anche di tipo politico in cui proprio il credere diventava la base non di una lettura chiusa o parziale, ma lo strumento per aprirsi e dialogare con tutti».

Ribadendo che ad alcuni l’esperienza e l’esempio di don Milani apparvero, «e appaiono ancora», non come una scelta profetica e creativa capace di leggere i segni dei tempi, ma semplicemente come un atteggiamento che voleva porsi al di fuori degli schemi o delle impostazioni tradizionali dei processi e delle strutture educative, il cardinale Parolin ha spiegato: «Nei processi di apprendimento che vogliono realizzare una sana integrazione si deve procedere non con teorie, pur se ben strutturate, dell’altro o dell’alterità, quanto piuttosto ricercando e conoscendo l’identità dell’altro, in particolare il complesso fattore identitario che ispira il pensiero, la condotta e lo spirito dell’altro». E c’è un aspetto da cogliere nello spessore dell’apostolato di don Milani che resta valido: «L’idea di un mondo che andava oltre i piccoli centri da cui provenivano i giovani alunni», che «si apriva ben al di là dei confini di uno Stato o di un continente, per scoprire la ricchezza di quella diversità che della famiglia umana è propria».

Il richiamo alle testimonianze di chi quella realtà ha vissuto e praticato nel quotidiano rapporto con don Lorenzo nella Scuola di Barbiana — ha sottolineato il Segretario di Stato — arricchiscono il valore delle immagini fotografiche della mostra e aiutano a comprendere che «non si tratta semplicemente di proporre una storia o di narrare un’esperienza». Il cardinale Parolin ha ribadito che «se questa fosse la finalità, se la ricchezza di un progetto pedagogico si riducesse a narrazione o a esperienza, ne avremmo perso il senso, la finalità, ma soprattutto lo spirito che motivò la sua nascita e quindi l’impegno del Priore di Barbiana». Un impegno che il cardinale ha poi sintetizzato affermando che «quello di don Milani resta un esempio di come l’essere sacerdote significhi sapersi aprire alle ansie degli altri, rispondere a ciò di cui ha bisogno il gregge che si ha in custodia. E questo in termini ed azioni di autentico servizio».

Sullo sfondo la convinzione espressa da Papa Francesco in occasione della visita alla tomba di don Lorenzo Milani a Barbiana il 20 giugno 2017: «La dimensione sacerdotale è la radice di tutto quello che ha fatto. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede».

di FAUSTA SPERANZA

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Preservare arte e significati dalla tecnocrazia

11 maggio 2023

Preservare il patrimonio culturale conservando «la profondissima relazione tra arte e spiritualità» e contrastando l’orizzonte limitato del «paradigma tecnocratico»: è questo, in estrema sintesi, l’appello che il Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin rivolge a tutti e in particolare ai «decisori politici» nel messaggio inaugurale indirizzato all’arcivescovo Savio Hon Tai-Fai, nunzio apostolico a Malta, in occasione della conferenza European Cathedrals Malta 2023. The Equilibrium between Conservation and Spirituality, in corso oggi e domani (11 e 12 maggio), a Malta, presso la Concattedrale di San Giovanni.

Il cardinale Parolin ricorda che tutti gli sforzi in termini di restauro e preservazione di oggetti artistici non possono prescindere dalla «conservazione dei significati e dei valori storici, culturali e religiosi che quegli oggetti esprimono». Citando Michelangelo e Kandinsky, sottolinea come da sempre gli artisti parlino dell’arte in relazione alla sacralità, di «necessità interiore», di «impulso spirituale», di risposta alla «fame spirituale» dell’essere umano. E ricorda che «tutti i maggiori movimenti spirituali compreso quelli non credenti hanno esercitato una grande influenza nell’arte nei secoli».

Emerge un primo punto fermo concettuale: «Gli artisti hanno aiutato la Chiesa a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, rendendo palpabile il mondo invisibile», «il culto ha sempre trovato nell’arte un naturale alleato». Per poi spiegare che «non è quindi esagerato affermare che una scienza della conservazione basata sui valori è per sua stessa natura una forma di spiritualità poiché mira a estendere nel tempo i valori attribuiti sia alla dimensione tangibile che a quella immateriale del nostro patrimonio culturale». Innanzitutto in queste considerazioni, dunque, si inquadra l’impegno della Chiesa «promotrice e guardiana dell’arte sacra» e della Santa Sede di cui il cardinale Parolin ripercorre tappe estremamente significative. Cita l’adesione della Santa Sede nel 1962 alla Convenzione Culturale Europea, la firma della Dichiarazione Europea sugli Obiettivi Culturali a Berlino nel 1984, la nascita della Pontificia Commissione per la Conservazione del Patrimonio Artistico e Storico della Chiesa nel 1993. Di san Paolo VI ricorda le parole rivolte agli artisti nel 1964 nella Cappella Sistina: «Il tuo mestiere, la tua missione, la tua arte è proprio quella di cogliere i tesori del celeste regno dello spirito e di rivestirli di parole, colori, forma e accessibilità» per «conservare l’ineffabilità di un tale mondo, il senso della sua trascendenza, la sua aura di mistero, questa esigenza di raggiungerlo con facilità e fatica insieme». Di san Giovanni Paolo II riporta un’espressione ricorrente: «Gli artisti partecipano all’artigianato creativo di Dio attraverso le loro opere d’arte». Della Pontifica Commissione in particolare ricorda l’invito a «“rileggere” il patrimonio culturale della Chiesa dalle maestose cattedrali agli oggetti più piccoli; dalle meravigliose opere d’arte dei grandi maestri alle minori espressioni delle arti più povere».

E c’è poi l’invito di Papa Francesco a ragionare in termini di «incontro» e di necessario cambiamento di mentalità e di azioni che — suggerisce il cardinale Parolin — si traduce su questi temi in una raccomandazione precisa: «L’incontro tra chi si occupa di conservazione e il patrimonio culturale non dovrebbe essere condizionato dal paradigma tecnocratico che promuove atteggiamenti, approcci e preoccupazioni sbagliati limitati alla sola conservazione del tessuto fisico di oggetti artistici. Restauratori e custodi d’arte si prendono cura sia della dimensione fisica ed esteriore del nostro patrimonio culturale sia della sua realtà immateriale e soprasensibile».

Il richiamo è forte anche nell’enciclica Laudato si’, dove — ricorda il Segretario di Stato — «Papa Francesco lamenta come l’attuale orizzonte della tecnocrazia riduce tutti gli oggetti all’efficienza, alla ricerca del profitto e al consumismo». Francesco sottolinea che al contrario «quando la saggezza prevale sull’arroganza tecnocratica, allora il processo di conservazione culturale diventa un incontro con la realtà sacra che si manifesta oltre l’apparenza superficiale» e «il processo di conservazione diventa un’esperienza spirituale di incontro con il mistero». L’obiettivo — chiarisce il cardinale Parolin — è «garantire una comune consapevolezza e sensibilità morale tra i decisori politici», così come — sottolinea — ha ribadito Papa Francesco il 20 dicembre 2013 ai diplomatici italiani incoraggiandoli precisamente a «mettere in campo il patrimonio culturale dell’arte per diffondere una cultura dell’incontro».

Il pensiero va alle prossime generazioni, afferma il cardinale Parolin citando l’impegno dell’Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Unesco a promuovere la convinzione che «gli approcci alla conservazione non dovrebbero solo cercare di preservare il mondo dell’arte come portatore di bellezza, ma anche, e soprattutto, come sintesi di valori religiosi e spirituali che non possono prescindere dall’incontro con la comunità di appartenenza e con i suoi contesti storici, geografici e architettonici».

In conclusione, si legge l’auspicio del cardinale Parolin che «l’arte sia un mezzo sempre più efficace per avvicinare quanti sono alla ricerca di senso al messaggio evangelico e susciti in ogni persona di buona volontà quell’amore di bellezza che apre lo spirito alla verità e al bene».

di FAUSTA SPERANZA

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Ricucire il tessuto dei significati

Le opere di Sidival Fila accanto a codici, volumi e monete

L’ago di un contemporaneo e manoscritti secolari si intrecciano offrendo una riflessione profonda sul tema del riscatto e del riuso. Accade nella dimensione artistica della particolarissima mostra inaugurata il 28 aprile alla Biblioteca apostolica vaticana dell’opera di Sidival Fila; l’esposizione (visitabile fino al 15 luglio) è realizzata in collaborazione con l’omonima Fondazione filantropica. Immediato il richiamo a «uno dei passaggi più significativi del magistero di Papa Francesco», sottolinea il Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, l’arcivescovo Angelo Zani, ricordando l’intuizione del Pontefice sulla necessità di combattere la cultura dello scarto.

A intrecciarsi negli spazi espositivi sono raffinatezza e significati. Sidival Fila, frate minore francescano (nato nel 1962 nello Stato del Paraná in Brasile), da tempo esprime la sua arte, riconosciuta a livello mondiale, servendosi di ago, tessuti, oggetti di recupero, fili che cuciono e ritessono tele di ieri e di oggi. Il vissuto di materiali come lino, cotone, seta, canapa, broccati, che in alcuni casi hanno da raccontare secoli di storia, rivive nel recupero del frammento o dello scarto e i significati possono essere diversi: nel riuso, la valorizzazione passa attraverso il nuovo scopo immaginato, mentre, parlando di riscatto, si percepisce il tentativo di una valorizzazione quasi ontologica, cioè a prescindere da una eventuale nuova utilità. In ogni caso, l’elemento costante nel percorso di Fila è la ricerca del contatto con la materia alla quale l’opera d’arte vuole restituire una voce. Nell’intervista all’artista realizzata da Enrica Riera per l’inserto del nostro giornale  «Quattro pagine», parlando della vendita delle sue opere, Fila confidava: «Faccio fatica a liberarmene se non quando capisco che chi vuole acquistarne una la ama».

«L’incontro con Sidival Fila ci ha ispirato un viaggio nelle trame della nostra stessa storia», spiega don Giacomo Cardinali, commissario dello spazio espositivo e curatore della mostra insieme con Simona De Crescenzo e Delio Proverbio della Vaticana. Cardinali aggiunge che è stata l’occasione per recuperare personaggi geniali sebbene quasi sconosciuti, come Antonio Piaggio, collezionisti “furiosi”, come il marchese Capponi, pittori e decoratori minori tra xviii e xix secolo, come Biagio Cicchi e Filippo Cretoni, e poi lacche vietnamite, rotoli magici etiopici, monete ribattute o trasformate in gioielli, amuleti cinesi e molti altri casi di riuso, attraverso i quali antichi frammenti della nostra storia sono sopravvissuti alla fine della loro epoca.

Tra le preziosità della Biblioteca in mostra accanto alle opere di Fila, ricordiamo il frontespizio di un volume a stampa della seconda metà del Cinquecento ricostruito a pennino e inchiostro da un calligrafo romano del Settecento che ne imita la versione originale nei minimi dettagli; due pannelli lignei (visibili per la prima volta) che rappresentano, assieme ad altri due, quel che resta della decorazione degli sportelli del Salone Sistino della Vaticana terminata da Cicchi tra 1758 e 1759. Tra il materiale numismatico, si trova un esemplare delle monete coniate nel 1527 per liberare Clemente vii dalla prigionia dei Lanzichenecchi durante il sacco di Roma.

Il nuovo prefetto della Biblioteca Apostolica, monsignor Mauro Mantovani, ricorda che con questa esposizione la Biblioteca taglia il traguardo delle quattro mostre dedicate al dialogo e al confronto con la cultura e con l’arte contemporanea. «Si tratta di speciali occasioni di studio e di conoscenza sia del mondo che ci circonda, che è anche il nostro, sia di promozione e valorizzazione del nostro stesso patrimonio, di cui ogni artista ci aiuta a cogliere ed evidenziare uno o più aspetti ancora nascosti o addirittura sconosciuti». (fausta speranza)

29 Aprile 2023

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Storie di vita impresse nella pietra in tre dimensioni

17 aprile 2023

Il fascino dell’antichità più o meno celata e conservata si intreccia con storie eterne di amori e di potere, e l’archeologia si sposa con tecnologia e ipertesti. Accade nel libro intitolato Regilla. Luce della casa, a cura di Paolo Re e Tommaso Serafini (Roma, Arbor Sapientiae Editore, 2023, pagine 127, euro 18) che segue il filo logico della «strategia comunicativa» di Erode Attico percorrendo l’Appia antica.

Lo scenario è il cosiddetto Pago Triopio, l’area che potremmo definire adibita all’epoca a comprensorio, che si estendeva approssimativamente nella zona tra la chiesa del Quo Vadis e via dell’Almone. A ridosso c’era un imponente palazzo, di cui sono rimasti tra l’erba a testimoniarne l’importanza solo blocchetti di tufo per opera reticolata, mattoni triangolari, tegole, basoli isolati, selci, blocchi di travertino, lastrine di opus sectile marmoreum, tessere di mosaico, frammenti di intonaco colorato di rosso, azzurro o bianco.

Cinque epigrafi trovate, dette appunto iscrizioni triopee, forniscono notizie interessanti sull’origine e sull’organizzazione dell’area voluta da Tiberio Claudio Erode Attico, uomo molto ricco, nato tra il 100 e il 101 d.C., retore, filosofo, precettore degli imperatori Lucio Vero e Marco Aurelio, governatore di una parte dell’Asia e della Grecia. Aveva sposato Annia Regilla discendente dall’antica famiglia dei Regoli, che annoverava fra gli antenati il celebre Attilio morto durante la guerra punica. Fu lei a portare in dote al marito il fondo lungo il III miglio della via Appia. Su una colonna di marmo collocata originariamente all’ingresso del Triopio, ora ai Musei Capitolini, è scritto in latino e in greco: «Annia Regilla, moglie di Erode Attico, luce della casa, alla quale appartennero questi beni». La storia narra che quando morì, nel 160-161 d.C., Erode fu accusato dal cognato di averla assassinata, subì per questo un processo, da cui uscì assolto.

Le iscrizioni ci raccontano di campi di grano, olivi, vigne, prati, addirittura la stazione di “polizia”, il campo sacro a Nemesi e Minerva, il parco, il villaggio colonico che era dalle parti di Cecilia Metella e, nel luogo in cui successivamente fu costruito il Palazzo di Massenzio, la villa residenziale. È citato un tempio dedicato a Cerere, la dea romana corrispondente alla Demetra dei greci, e a Faustina moglie dell’imperatore Antonino Pio, morta poco tempo prima e “divinizzata”, al cui interno Erode collocò la statua della moglie.

In una delle due iscrizioni su grandi colonne di marmo cipollino, che si trovano ora al Museo Nazionale di Napoli, si legge: «Non è permesso ad alcuno di portarle via dal Triopio, che è situato al III [miglio] della via Appia, nel possedimento di Erode. Chi le rimuoverà non ne riceverà certo vantaggio. Ne è testimone la dea infernale (Hecate) e le colonne che sono dono a Cerere e a Proserpina e agli dei Mani e [a Regilla]». Due iscrizioni — le originali si trovano oggi al Louvre e una copia a villa Borghese — sono scolpite su cippi di marmo pentelico e contengono un lungo panegirico in versi, composto da Marcello Sideta, un poeta amico di Erode.

Tra le particolarità del libro c’è il fatto che vengono riproposte le traduzioni dei versi fatte da Giacomo Leopardi, mentre collegamenti multimediali spalancano opportunità di letture in metrica o letture espressive di brani, ricostruzioni in tre dimensioni di monumenti, riferimenti storici contestuali, storie e leggende di eroine e divinità. Ad esempio, la tecnologia aiuta a focalizzare le colonne e le varie epigrafi con movimenti visivi che permettono di comprendere come alcune iscrizioni sono state aggiunte in un altro pezzo di storia in cui le colonne sono state capovolte e praticamente “riciclate”. Reperti e passaggi storici mancano alle ricostruzioni degli studiosi, ma quello che sopravvive si arricchisce in modi diversi. È proprio quello che contribuisce a mettere in luce il libro, dedicato a epigrafi antiche e pensato per la dinamicità mentale delle nuove generazioni.

di FAUSTA SPERANZA

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Restaurare le sorprese

3 Aprile 2023

I lavori nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo

 Restaurare le sorprese

Un restauro divenuto scoperta promette altre sorprese. I lavori di recupero del Coro dei Laici della Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo hanno regalato alla città, che quest’anno è capitale italiana della cultura, un affresco di una Madonna col Bambino del Trecento e un’inedita parte della tarsia dedicata a Caino e Abele, conservata intatta dal Cinquecento. È stato inoltre svelato l’antico sistema di “coperti” delle tarsie e il suo originale meccanismo a scomparsa. Ma non c’è solo la soddisfazione per il maggiore apprezzamento delle opere restaurate e per le scoperte fatte: c’è anche un’accresciuta attesa per quel che resta delle preziosità di cui ci si prenderà cura prossimamente. Oltre alla sezione dedicata ai laici, infatti, il Coro ligneo si compone di una seconda parte, il Coro dei Religiosi, il cui restauro sarà ultimato entro l’autunno 2023. In sostanza, l’intervento di restauro, ancora in corso, restituirà alla città l’intera sequenza di tarsie lignee raffiguranti immagini di storie bibliche e simboliche, la cui esecuzione si colloca tra il 1523 e il 1555. Il tutto accade a 500 anni dall’inizio dei lavori di costruzione.

Per quanto riguarda il Coro ligneo, è impreziosito da ventinove tarsie che rappresentano scene dell’Antico Testamento, disegnate dal Lotto e realizzate dal maestro intarsiatore Capoferri. È il coro più “recente” — realizzato tra il 1553 e il 1555 — e occupa l’area absidale della Basilica. Il nome di questa sezione del Coro fa riferimento alla posizione in cui sedevano durante le celebrazioni i congregati laici.

Il restauro, avviato ad aprile 2022 — a cura di Luciano Gritti dell’omonima Bottega di restauro con la supervisione della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Bergamo e Brescia, con il sostegno della Fondazione Banca Popolare di Bergamo — è avvenuto con modalità innovative e partecipate, che permettono di coinvolgere non solo i numerosi turisti in visita in città, ma anche i bergamaschi, in particolare gli studenti. Quello allestito all’interno della Basilica di Santa Maria Maggiore, infatti, è un “cantiere vivo”, delimitato da pannelli trasparenti su cui sono riportati testi, immagini e QR code che permettono l’approfondimento di contenuti storici e artistici legati all’opera e al suo contesto. A oggi, oltre 500 mila persone hanno visitato il cantiere di restauro.

Grazie all’intervento, sono state scoperte opere inedite sia al pubblico che agli addetti ai lavori. La prima è un affresco di fine Trecento raffigurante una Madonna col Bambino, rimasta nascosta fino a oggi dietro a una tarsia del Coro. La seconda testimonianza è un’opera attribuita al pittore pavese del Cinquecento Francesco Rosso, intarsiata da Capoferri, raffigurante Caino e Abele. È oggi visibile per la prima volta dal Cinquecento.

La terza grande scoperta attiene all’antico sistema di “coperti” delle tarsie. Dalla metà del XIX secolo le tarsie sono state nascoste alla vista del pubblico da coperchi di legno e, prima del restauro, solo alcune erano osservabili durante le visite guidate. Smontando la parte presbiteriale del Coro, — raccontano i restauratori — la più antica e cioè il Coro dei Religiosi), si è scoperto che le tarsie con simbologie neoplatoniche lì disposte erano in origine pensate come coperchi, “coperti” appunto, delle tarsie a tema testamentario. Fino a oggi gli studiosi non erano riusciti a spiegare la funzione dei “coperti”. Stefano Marziali, docente alla Scuola di restauro dell’Accademia di Verona, spiega che è venuto alla luce un sistema unico e mai visto in un oggetto di questo tipo: le sedute del coro presbiteriale erano state predisposte per ospitare un originale sistema a scomparsa, ovvero la tarsia simbolica sarebbe sparita dietro l’alzata della seduta con un sistema a ghigliottina, lasciando scoperta la tarsia biblica.

Marziali precisa che le tarsie sono 36 coperti e 34 scene bibliche che formano un percorso propedeutico alla meditazione intellettuale e spirituale. Immagini simboliche che sintetizzano visivamente i temi attinti dagli eterogenei campi di ricerca del Rinascimento, una sintesi fra temi religiosi e archetipi pagani: alle storie bibliche, infatti, si sono aggiunte metafore dell’alchimia, figure care all’ermetismo, suggestioni della mitologia greco-romana e concetti della filosofia neoplatonica. Luciano Gritti, restauratore dell’omonima Bottega di Restauro sottolinea che le parti intagliate, dopo gli interventi di pulitura, tornano a mostrarsi nella loro tinta originaria: il bosso, il noce, la quercia affogata, che creano, insieme, «un effetto straordinario». Si tratta di immagini complesse, con una costruzione narrativa che spesso offre una molteplicità di interpretazioni, a volte anche in contraddizione l’una con l’altra. Racconti intensi, a volte anche violenti, come le tarsie dedicate all’uccisione di Abele, al martirio dei fratelli Maccabei con la madre o alla storia di Lot in fuga da Sodoma e Gomorra. Ma nell’insieme le tavole accompagnano nel racconto biblico con armonia ed immensa delicatezza e l’immagine della Madonna ritrovata catalizza e accompagna le emozioni.

di FAUSTA SPERANZA

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-04/quo-078/restaurare.html

Saperi di sabbia

01 Aprile 2023

Tornano i visitatori nelle Biblioteche del deserto

Saperi di sabbia

Chinguetti era uno ksar, un villaggio fortificato berbero diffuso nel Maghreb, uno dei tanti in Mauritania in cui si camminava tra abitazioni e granai e in cui si fermavano viandanti sulle vie carovaniere. Era più ricco di altri e, a dimostrazione della sua importanza, offriva spazi per la lettura in ben 24 biblioteche.

Oggi la cittadina di Chinguetti si presenta divisa in due da un fiume di sabbia, parte vecchia e parte nuova. La desertificazione ha privato di ogni solennità l’accesso a quella che è stata la via principale, ma l’ingresso nelle stanze che conservano libri regala la meraviglia di circa 700 testi antichi e preziosi, rarissimi manoscritti, messi insieme a partire dal 1699.

Si tratta di un universo culturale contenuto all’interno della tipica area cinta da un muro con quattro torri e una sola entrata, ma nutrito da contributi provenienti da tanti Paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente. Arrivano da tempi passati. Il più antico è di Ebi Hilal el—Askeri, un testo di teologia autografo, del 480 dell’Egira.

Al largo delle coste di Chinguetti si trova il giacimento petrolifero omonimo, segno evidente dello sviluppo che ha conosciuto il Paese dell’Africa occidentale e delle risorse divenute preziose nel secolo scorso. Nel dinamismo vorticoso dei processi industriali c’è stato chi ha lanciato il primo appello a salvare dalla distruzione le opere che erano custodite in scaffali del tutto inadeguati, invasi dalle termiti: nel 1949 lo studioso mauritano Mokhtar Ould Hamidoun ha pubblicato l’inventario che ha dato il via all’impegno di recupero e cura degli inestimabili testi che sono passati dalla gestione di privati senza mezzi alla protezione internazionale.

I volumi conservati a Cinguetti provengono da Egitto, Siria, Turchia, dal Maghreb. Alcuni sono identificabili per un genere di scrittura comune all’attuale Marocco, Algeria, Tunisia. Fra i pezzi davvero importanti viene messo in evidenza il testo del Corano di Buaïn çafra (colui che ha l’occhio giallo) ed è un manoscritto orientale miniato da Mohammed Ben Abou’l Qayym el-Qawwal e Tebrizi. Su questo testo il cadì di Chinguetti faceva giurare i testimoni. È conservata anche una produzione di eruditi locali, circa 240 volumi di autori legati ai centri di Ouadane, Oualata, Tichitt, Atar, Trarza e alla regione di Tagant con opere a volte in più volumi. Sono conservate anche una cinquantina di opere del mistico e politico sahrāwī Maa el Ainin stampate a Fez, in Marocco.

Un patrimonio eccezionale che, dopo tante vicende, sembrava felicemente approdato nel 1996 sotto l’ala protettrice dell’Unesco. Ma la dichiarazione di sito Patrimonio dell’umanità, che è stata decisiva per dare il via a tante iniziative di conservazione e tutela, non ha potuto nulla o quasi nulla di fronte all’imperversare del terrorismo a inizio secolo, quando sotto sigle diverse più o meno comunicanti, gruppi armati, dall’Iraq al Mali, dall’Afghanistan alla Somalia, dalla Siria alla Nigeria, e non solo, hanno portato orrore e distruzione. I manoscritti di Chinguetti fortunatamente non hanno subito attacchi, come purtroppo è successo, tra gli altri, al preziosissimo museo di Palmira in Siria, ma l’incombere delle azioni terroristiche sulla macroregione africana ha significato un doloroso isolamento e ha segnato un passo indietro nel percorso verso la tutela del patrimonio librario.

Attualmente Cinguetti si raggiunge in fuoristrada partendo da Atar, capoluogo della regione montana dell’Adrar a ridosso del Sahara occidentale. Grazie a varie misure prese da qualche tempo, in particolare su impulso dell’antropologo italiano Attilio Gaudio, il ricco patrimonio è sempre più protetto dall’avanzata delle sabbie.

Torna a crescere il numero dei visitatori a Cinguetti e anche in altre città nel centro sud della Mauritania come Ouadane, Tichitt, Oualata, depositarie di altri volumi antichi, altrettanti siti Patrimonio dell’umanità.

Si può provare a comprenderne il valore immergendosi in un tempo lontano, quando soprattutto Chinguetti ma anche Ouadane, Tichitt, Oualata erano considerate, secondo una remota tradizione locale, il settimo luogo santo dell’Islam. In ogni caso, erano tappe obbligate per le carovane che attraversavano il deserto collegando l’area mediterranea con l’Africa subsahariana e che qui potevano trovare non solo ristoro, ma anche un ambiente vivace dal punto di vista intellettuale e sociale. Una scia di saperi che dopo secoli continua a tenere vivo il fascino delle Biblioteche del deserto.

di FAUSTA SPERANZA

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-04/quo-077/saperi.html

Un armonico amore per la liturgia

15 marzo 2023

Un uomo mite con una preparazione fuori dal comune e che aveva nella gentilezza il suo tratto distintivo. Così in tanti ricordano Benno Scharf, musicologo scomparso il 9 marzo scorso all’età di 87 anni.

Nato a Milano da una famiglia austro-tedesca, si era formato al Pontificio Istituto di Musica Sacra. Per la dedizione e la cultura espresse in tanti corsi tenuti a vari livelli, lo ricorda il maestro di Cappella della cattedrale di Como, don Nicholas Negrini. Il maestro Lorenzo Pestuggia dell’Archivio musicale della stessa diocesi ha affermato che ora «potrà conoscere tanti di coloro che ha studiato durante la sua lunga e laboriosa attività musicologica e tutti insieme canteranno cum angelica turba coelorum».

In particolare, «L’Osservatore Romano» ricorda la trentennale collaborazione: circa 200 articoli di Scharf sono stati raccolti nel volume La canzone religiosa europea dal IV al XIX secolo (Libreria Editrice Vaticana, 2019, a cura di Roberta Aglio e Marco Ruggeri). Altri hanno fatto seguito fino all’ultimo del 27 febbraio 2023. Presenta un vasto repertorio: dal canto ambrosiano sino al primo Novecento, passando attraverso la lauda medievale, i canti di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Silvio Pellico e don Bosco, con una panoramica sulle importanti tradizioni della Spagna, della Francia, della Germania, dell’Inghilterra e dei Paesi scandinavi. Un’occasione per ripercorrere la storia della lingua liturgica che — come sottolineava Scharf — fino al Concilio vaticano II era il latino. Tra le altre pubblicazioni accademiche citiamo Le origini della monodia religiosa nell’Europa Occidentale e Storia della canzone religiosa italiana in Analecta Musicologica 2003.

Nell’impegno di Schaf, c’è stato anche quello di traduttore di opere letterarie tedesche. Ha insegnato Filologia germanica e Letteratura tedesca all’Università Iulm Milano e alla Ca’ Foscari, nella sede di Treviso. Sylvia Fuehrlinger, già preside della Scuola superiore d’interpreti e traduttori Carlo Bo, parla di «un docente di grande cultura, gentile e generoso, dedito alla liturgia che allietava ogni giorno con il suono dell’organo», precisando che Benno Scharf lo ha fatto fino a una settimana prima di ritornare a Dio. (fausta speranza)

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-03/quo-062/un-armonico-amore-per-la-liturgia.html

Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale

11 marzo 2023
di FAUSTA SPERANZA

Disordine mondiale e imperi high tech, delocalizzazione e conflitti di potenza, populismi e digital divide, secolarizzazione radicale e nuovi nazionalismi. Se si vuole parlare degli anni Venti di questo XXI secolo sono tantissimi gli ambiti da attraversare, molti i presupposti da rivedere, diverse le illusioni da superare. Il primo passo è recuperare i pezzi della storia a partire dalla caduta del Muro di Berlino, per poi comprendere che, al di là della narrazione della globalizzazione o di quella dello scontro di civiltà, l’Occidente è ridimensionato. È il salto concettuale che si fa leggendo Storia del mondo post-occidentale. Cosa resta dell’era globale? (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2023, pagine 184, euro 16) di Eugenio Capozzi, che ha il pregio dello sguardo più oggettivo possibile, difficile da conseguire per fatti così ravvicinati nel tempo.

Mettere a fuoco bluff imperdonabili, come quello della cosiddetta «economia del credito illimitato», o radicalizzazioni come le involuzioni del «politicamente corretto», non significa deprezzare l’Occidente: piuttosto, le analisi di Capozzi suonano come un monito, affinché questo pezzo di mondo dia un contributo agli equilibri globali degno dello spessore storico e culturale che gli appartiene.

In ogni caso, la disamina nel volume è completa: si va dalla parabola fatta dalla Russia dal fatidico 1989 fino all’era di Putin, in parallelo con la stessa tendenza al «raccorpamento dei poteri nazionali» in altre aree del mondo. Si va dall’illusione statunitense di fare della Guerra nel Golfo il laboratorio di quella che doveva essere la super potenza unica del mondo fino alla «America first» di Trump e la nuova esasperazione della questione razziale. Dalle accelerazioni dell’interdipendenza e dell’interconnessione tra le varie aree del pianeta a livello economico, culturale, politico e della comunicazione — definita globalizzazione e pensata come destinata a sfociare in una sempre maggiore integrazione — fino ai molti e svariati conflitti emersi da allora; le crisi economiche e politiche; le tensioni nei rapporti di potenza. Si passa attraverso la pandemia e si arriva alla moltiplicazione di macro aree di accordi commerciali, che si delineano come arcipelaghi in un oceano di de-globalizzazione.

Per tutti questi snodi o fenomeni storici è prezioso il punto di vista di Capozzi che illustra, ad esempio, come i processi di globalizzazione abbiano convissuto con la tenace persistenza di contrapposizioni culturali, etniche, politico-militari, economiche. Per poi mettere in luce come — contrariamente a quanto le classi dirigenti, il mondo politico e gli intellettuali occidentali hanno spesso pensato — il fenomeno non ha coinciso con una crescente occidentalizzazione del mondo, cioè con l’imporsi a livello planetario di un modello di società — cultura di massa, democrazia liberale, diritti umani — ereditato dai processi europei di modernizzazione. Anzi, il fenomeno più macroscopico che ha accompagnato la globalizzazione è stato l’emergere di potenze economiche e politiche alternative all’Occidente, a partire dal continente asiatico, con il corrispondente ridimensionamento occidentale. Capozzi lo declina in tutti i suoi aspetti, anche quelli di solito meno citati: in termini di Prodotto interno lordo sul piano mondiale, di incidenza sulle crisi internazionali, ma prima ancora in termini demografici. Ricorda il progressivo diradarsi delle nascite, «dovuto a motivi culturali per l’affermazione di un’etica edonista e soggettivista», e un invecchiamento delle società che rende sempre più difficile la crescita e una sua proiezione verso l’esterno.

Un ridimensionamento che — sostiene Capozzi — è stato innanzitutto culturale. Il processo di occidentalizzazione del mondo, che avrebbe dovuto ipoteticamente imperniarsi su un passaggio dal bipolarismo Usa/Urss a un unipolarismo statunitense, si è scontrato ben presto con la realtà che, nei primi anni Novanta del secolo scorso, Samuel P. Huntington aveva individuato, inascoltato dai più: una realtà che si articola nella pluralità e nel pluralismo delle civiltà, con la relativa conflittualità che né la superiorità tecnologica, né il mercato, né il fascino della società dei consumi avrebbero potuto scalzare.

Al contrario, l’apparente dilagare del modello delle società di massa occidentali — che nel frattempo hanno esasperato l’individualismo e radicalizzato la secolarizzazione grazie anche all’amplificazione digitale di internet e social media — ha suscitato, o accompagnato, nelle civiltà non occidentali «reazioni difensive identitarie vigorose», talvolta violente. Si è aggiunto il successo economico di Paesi non occidentali nella competizione globale e si è arrivati — spiega Capozzi — al rafforzamento di poli alternativi, «per nulla disposti ad adeguarsi alle prescrizioni” dell’internazionalismo occidente-centrico».

Il resto è storia sotto gli occhi di tutti: la competizione globale ha innescato processi conflittuali profondi all’interno delle stesse società occidentali, in cui le classi medie e operaie sono state falcidiate dalla concorrenza asiatica e dagli imperi digitali.

Doveroso sottolineare che in un humus culturale povero di idealità, si è andata producendo una divisione di classe preoccupante tra élite internazionalizzate e popolo sfiduciato, spaventato dal futuro, rancoroso. Efficace è la sintesi dello storico che parla di «ridefinizione della dialettica politica delle democrazie in contrapposizione tra globalismo e sovranismo/populismo». Ed è importante la denuncia della tendenza al «progressivo commissariamento della democrazia da parte di regimi tecnocratici e dirigisti, con pretese eticizzanti», fondati su un controllo e una sorveglianza sempre più capillare di comportamenti e consumi privati, reso possibile da tecnologie fortemente invasive.

Intanto, i cambiamenti climatici chiedono il conto di uno sviluppo incurante dell’impatto sull’ambiente. Ma è scoppiato il dramma dell’invasione russa dell’Ucraina e si parla ormai più di possibile scontro nucleare che di transizione ecologica. Rischia di comporsi in modo drammatico il puzzle della terza guerra mondiale che papa Francesco, con la forza della verità, già da tempo denuncia osservandola «a pezzi nel mondo».

L’Osservatore Romano 11 Marzo 2023

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-03/quo-058/qualcosa-di-nuovo.html