Antidoto alla schiavitù

08 marzo 2023

Abramo, Giuseppe, Mosè, il faraone, sono personaggi che ci richiamano subito alla mente la profondità di sapienti interpretazioni delle narrazioni bibliche. È meno immediato pensare all’odierno concetto di leader o alle complicazioni di rapporti familiari alla luce degli studi di psicologia. Eppure il terreno di una lettura attualizzante è proprio quello in cui ci conduce con discrezione il libro di Waris Umer intitolato Attenti ai “sognatori” (Roma, Città Nuova, 2022, pagine 287, euro 10).

Il volume ripropone vicende e figure della Genesi che da secoli illuminano percorsi umani e processi interiori. Nei libri sacri schiavitù e libertà sono declinati in un modo che ne rende universale il valore. Nel testo di Umer lo stesso identico valore assume sfumature nuove perché raccontato con il linguaggio di oggi, attraverso immaginari dialoghi di madri, di sorelle, di figli, di fratelli, che si ritrovano al centro di gesti di crudeltà e atti di generosità. Si tratta della “novità” rappresentata da ogni personale esperienza. In quella dell’autore c’è l’origine pachistana, il viaggio in Italia, il dottorato di ricerca all’Università Gregoriana. In ogni caso, è l’esperienza di chi dall’esempio di fede della madre di Mosè, che affida il piccolo alle acque del Nilo in un cesto confidando nell’aiuto di Dio, ha tratto un convincente messaggio di speranza per la propria vita e immagina e ripropone il mondo interiore di Mosè: «Si sentiva piuttosto debole ma la volontà era pronta ad affrontare qualsiasi difficoltà».

di FAUSTA SPERANZA

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Riportare il sapere alle necessità umane

di FAUSTA SPERANZA

Formarsi insieme per evangelizzare: è l’obiettivo delle comunità accademiche delle 22 università e istituzioni pontificie presenti a Roma — circa 16.000 studenti provenienti da 120 Paesi dei cinque continenti — ed è lo spirito con cui si apprestano a vivere la gioia di una prima udienza tutti insieme dal Papa, sabato 25 febbraio. Ad accompagnarli ci sarà il prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione il cardinale José Tolentino de Mendonça. Per l’occasione è stato redatto per la prima volta un unico rapporto che fotografa nei dati le 22 realtà: è stato voluto dalla Conferenza dei Rettori delle Università e Istituzioni Pontificie Romane (Cruipro) ed è stato presentato il 23 febbraio nella Sala Marconi del Dicastero per la comunicazione.

Il presidente della Cruipro, reverendo Luis Navarro (Pontificia Università della Santa Croce) ha tracciato l’orizzonte della sfida intrapresa: una collaborazione sempre nuova tra le varie comunità accademiche, perché sia «unità nella diversità, in un mondo che fa sempre più emergere la necessità di una ricerca condivisa e convergente tra specialisti di diverse discipline». Il presidente della conferenza dei rettori ha ricordato il compito indicato dal Papa nella Veritatis Gaudium di «elaborare strumenti intellettuali in grado di proporsi come paradigmi di azione e di pensiero, utili all’annuncio in un mondo contrassegnato dal pluralismo etico-religioso». In questo contesto, il Rapporto è stato realizzato con il contributo dei referenti per la comunicazione delle distinte università e istituzioni e nasce — ha sottolineato il rettore Navarro — anche come ulteriore occasione per valorizzare il potenziale che la rete tra le diverse comunità accademiche rappresenta per l’evangelizzazione della cultura.

È stata la preside della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium, suor Piera Silvia Ruffinatto, vicepresidente Cruipro, a parlare delle iniziative concrete messe in atto di recente in termini, per esempio di mobilità accademica tra atenei, che significa riconoscimento di crediti o eventuali passaggi senza costosi oneri. Il reverendo Alfonso V. Amarante (Pontificio Istituto Alfonsianum) segretario generale della Cruipro, ha suggerito quale mondo rappresentino insieme le comunità accademiche precisando che si tratta di sette università, due atenei, nove istituti, e che contano l’8 per cento di tutti gli universitari a Roma. A questo proposito il reverendo Navarro ha fatto riferimento al quadro giuridico-normativo che serve per capire la differenza, ad esempio, tra il compito di occuparsi di scienze sacre proprio delle università ecclesiastiche o l’impostazione cattolica di alcune facoltà. Ad assicurare le lezioni sono 2056 tra docenti e ricercatori e nell’anno accademico 2021-2022 sono stati 3086 i gradi accademici conseguiti. Se poi si guarda a istituti affiliati nelle attività a Roma, si ritrovano 221 atenei o facoltà: in un collegamento culturale che spazia da Gerusalemme alla Repubblica Dominicana, dall’India all’Oregon, dalla Romania al Brasile. E c’è da dire che il rapporto tra gli studenti e i professori è di 6 a 1, rispetto alla media di 16 a 1 che si registra negli altri atenei della capitale, statali o non statali. La ricchezza di una cooperazione tra le comunità si comprende anche ricordando che fanno riferimento a ben quindici istituzioni della Chiesa affidatarie, dalla Prelatura della Santa Croce e Opus Dei all’Ordine dei Carmelitani Scalzi, dalla Congregazione del Santissimo Redentore alla Società dei Missionari d’Africa, etc. Una ricchezza che — ha ricordato il professor Amarante — deve essere sempre pensata anche in termini di relazione «interna» alle varie realtà legate alla missione della Chiesa ma anche «esterna», proiettata alla creazione di quelli che il reverendo ha definito «essenziali campi di dialogo» con mondi accademici statali.

A far emergere proprio il punto di vista degli iscritti è stata Rafaella Figueredo, rappresentante degli studenti Cruipro, che ha sottolineato l’entusiasmo dei giovani chiamati a curare l’animazione nell’Aula Paolo VI , con il supporto armonico tra l’altro degli studenti del Pontificio Istituto di Musica Sacra, prima del saluto del Papa.

Alla base di tutto c’è «il rilancio degli studi ecclesiastici nel contesto della nuova tappa della missione della Chiesa», come si legge nel proemio della Costituzione Apostolica Veritatis Gaudium promulgata da Papa Francesco l’8 dicembre 2017 e resa pubblica il 29 gennaio 2018.

L’edificio del sapere è da sempre la grande scommessa dell’umanità, tra accumulo diacronico di conoscenze e frantumo di certezze consolidate. Se un tempo si ragionava sull’insondabile oceano di Newton o sulle illusioni della linearità positivista, oggi si deve dibattere sulla scienza dei dati e la cosiddetta intelligenza artificiale. La sfida etica è sostanzialmente la stessa: reagire alla tendenza a far regredire la scelta dell’uomo al livello dell’uso delle conoscenze, che oggi significa tecnologie. Ma — come ha sottolineato suor Piera — bisogna essere in grado di conoscere e attraversare le sfide della digitalizzazione anche grazie alla conoscenza di discipline sempre nuove.

È il motivo per cui, nonostante le diversità di carismi e di talenti, nonostante i cambiamenti e le variazioni di programmi e di approcci legati ai tempi, un presupposto lega indissolubilmente tutti i «laboratori del sapere» pontifici: non attribuire al sapere un carattere disincarnato, ma riportarlo alle necessità umane. Per chi è impegnato in un’università pontificia — è quanto chiaramente emerso — all’inizio della ricerca c’è l’uomo e all’orizzonte delle finalità c’è il desiderio di capire il mondo per trasformarlo, per renderlo un posto migliore da abitare.

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Convinto fautore di un’Europa della cultura

Osservatore romano 18 febbraio 2023

di Fausta Speranza

Un grande talento, protagonista del panorama culturale italiano ed europeo. Anzitutto la città di Roma rende omaggio a Maurizio Scaparro, scomparso venerdì 17 all’età di 90 anni, ospitando al Teatro Argentina — ha diretto il Teatro di Roma dal 1983 al 1990 — la sua camera ardente, aperta al pubblico nella mattina di domenica 19.

Critico e docente, oltre che uomo di teatro, cinema e tv, Scaparro è stato un professionista in grado di rinnovare profondamente la scena teatrale e un organizzatore creativo di grandi festival e di eventi.

Con il suo stile sobrio e sostenuto da un solido realismo, ha mirato a creare un repertorio “nazional popolare”, valorizzando testi meno conosciuti di autori classici e novità contemporanee, e adattando per la scena romanzi del Novecento, con oltre 60 spettacoli allestiti, conquistando per due volte il Premio Flaiano: nel 2000 alla carriera e nel 2004 il Premio speciale.

Inoltre, ha dato vita, con Giorgio Strehler, al Théâtre de l’Europe, un laboratorio di idee e di arte per «costruire — come diceva — un’Europa della cultura». Un regista internazionale sempre in viaggio fra Italia, Francia, Spagna, Stati Uniti, riconosciuto come un significativo esponente del mondo della cultura europea.

Nato a Roma, ha iniziato l’attività di critico teatrale per giornali come l’Avanti!, nel 1961 è diventato direttore responsabile della rivista Teatro Nuovo. Ha fatto parte di quel gruppo, di cui è stato capostipite Strehler col Piccolo dei Milano, che, nel dopoguerra, ha fatto nascere il teatro pubblico e la moderna regia in Italia.

Negli anni Scaparro ha assunto l’incarico di direttore artistico, tra gli altri, del Teatro Stabile di Bologna, del Teatro Stabile di Bolzano, del Teatro di Roma, del Teatro Eliseo di Roma, del Théâtre des Italiens di Parigi, del Teatro della Pergola di Firenze.

Come regista teatrale ha debuttato nel 1965 al Festival dei Due Mondi di Spoleto con La Venexiana, commedia di autore anonimo. Ha adattato per la scena molti romanzi del Novecento, tra cui Il fu Mattia Pascal e Il giovane Faust. Si è cimentato nella regia cinematografica, dirigendo nel 1983 un proverbiale adattamento di Don Chisciotte.

Particolarissimo il rapporto con Venezia: Scaparro è stato direttore della Biennale Teatro dal 1979 al 1982 e dal 2006 al 2009. Il suo nome per la città lagunare significa la nascita del Carnevale moderno, quello abbozzato in un primo momento alla fine degli anni ‘70 e, poi, organizzato con un vero e proprio programma di eventi teatrali curati dalla Biennale dal 1980. La firma di Scaparro è associata alle particolari edizioni del 1980, 1981, 1982 e a quelle del 2005, in cui ha ideato il progetto della maratona teatrale negli ultimi «tre giorni e tre notti» dei giorni di Carnevale, e del 2006 quando ha curato la programmazione teatrale che aveva come titolo Il drago e il Leone.

Conoscenza appassionata, interazione di culture diverse, mescolanza di vari linguaggi espressivi, utopia: tanto si ritrova nella maestria di Scaparro. Il lungo sodalizio artistico con l’attore Pino Micol ha segnato l’affermarsi nell’immaginario comune di altri personaggi come Cyrano di Bergerac, Caligola di Albert Camus, la brechtiana Vita di Galileo, Enrico IV , Don Giovanni. Fino ad arrivare alle riflessioni private e politiche delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Tra gli ultimi spettacoli, Scaparro ha direttoAspettando Godot, ripreso fino al 2019.

Di Maurizio Scaparro l’attore e regista teatrale Giorgio Albertazzi ha detto: «Scaparro è quello che si chiama un uomo di teatro e il teatro ha bisogno di persone come lui. Ce ne fossero un paio di Scaparro sarebbe meglio, una decina in Europa sarebbe un gran colpo, il teatro farebbe un balzo in avanti!».

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Un laboratorio di visioni nuove al servizio dell’uomo

Osservatore romano 15 febbraio 2023

Una continuità ogni anno rinnovata da oltre 60 anni: così il rettore professor Franco Anelli ha definito, nel Dies Academicus per l’anno 2022/2023, il lavoro educativo, di ricerca e di cura che viene con passione condotto dalla sede di Roma dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Il suo intervento ha fatto seguito alla Santa Messa concelebrata dal cardinale José Tolentino de Mendonça prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, e da monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Ateneo. Hanno partecipato ministri della Repubblica Italiana: della Salute, Orazio Schillaci; dell’Interno, Matteo Piantedosi; della Cultura, Gennaro Sangiuliano; autorità regionali e comunali.

Dell’inaugurazione dell’anno accademico come di un momento estremamente significativo ha parlato il cardinale Tolentino de Mendonça, suggerendo che «gli anni non si sommano come si fa in altre istituzioni, né il tempo che passa fa invecchiare una università». Certamente l’età viene misurata a partire dalla data di fondazione e l’arco temporale costituisce un prezioso patrimonio di esperienza, ma — ha suggerito — «in realtà una università sta sempre cominciando di nuovo, anche le università cariche di secoli sono chiamate a essere giovani, a rinascere, ogni anno, in ogni matricola che si iscrive, in ogni corso o progetto che prende le mosse, nei sogni che si rinnovano». Una considerazione che sa di raccomandazione: «In una università, le visioni non sono prefabbricate come fossero ricette, la scienza è una scuola di umiltà che ci aiuta a integrare l’errore stesso e l’incompiutezza come tappe di un processo più ampio: il percorso universitario deve essere paziente». Dunque, la responsabilità dell’università di essere «una grande potenziatrice di visioni nuove». L’accento va sull’incontro: «Preservare uno spazio per l’imprevedibile, per quello che ancora non sappiamo e che nascerà dall’incontro». L’obiettivo è l’uomo: «La forza di una università, e tanto più di una università cattolica, sta nell’impegno che essa profonde nell’inaugurare una visione dell’essere umano e della vita — visione necessariamente transdisciplinare — che rappresenti una ragione di speranza». Dunque il richiamo del prefetto all’esortazione di Papa Francesco: «Quanto sarebbe bello che le aule delle università fossero cantieri di speranza, officine dove si lavora a un futuro migliore, dove si impara a essere responsabili di sé e del mondo!» (Incontro con gli studenti e il mondo accademico, Bologna, 1° ottobre 2017).

Dell’inaugurazione dell’anno accademico come occasione ha parlato anche il rettore Anelli, spiegando «l’opportunità di guardare al futuro che esige anche un’attitudine di fiducia e determinazione di fronte alle difficoltà del presente e alle inevitabili preoccupazioni per il domani».

Un particolare saluto è stato rivolto dal rettore al preside della Facoltà di Medicina e chirurgia Antonio Gasbarrini, chiamato a succedere a quella che è stata definita «la lunga e importante presidenza del professor Rocco Bellantone, in un periodo delicato e complesso, eppure di importante crescita».

Nel corso dei decenni la Facoltà medica ha educato generazioni di medici e operatori sanitari e ha raggiunto una posizione di straordinario prestigio nazionale e internazionale. Lo ha ricordato il professor Anelli aggiungendo che «la Facoltà di Medicina non è pensabile senza il Policlinico, così come la scienza medica non è pensabile dissociata dall’attività di cura».

A questo proposito Anelli ha chiarito che «parlare di policlinico universitario non significa apporre un’etichetta, ma esprimere l’essenza di un progetto culturale e ideale la cui missione è quella di mettere scienza e assistenza sanitaria a disposizione di tutti», aggiungendo che «una riduttiva e formalistica rappresentazione del Gemelli come “erogatore privato” di prestazioni sanitarie ne tradisce l’identità e il concreto operare», accomunandolo indebitamente a soggetti che si muovono in una logica profit, «pienamente legittima, ma che non appartiene allo spirito di servizio del Gemelli». Un servizio che nello specifico assicura 100mila ricoveri l’anno, un milione di prestazioni ambulatoriali, mantenendo con la realtà dell’università la capacità di «formulare sempre nuovi interrogativi, continuamente attratti, sedotti dalla curiosità». (Fausta Speranza)

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-02/quo-038/un-laboratorio-di-visioni-nuove.html

Se non si è più padroni del proprio consenso

con il grande massmediologo Derrick Dekerkhove 

A colloquio con il massmediologo Derrick de Kerckhove

di FAUSTA SPERANZA

Si trovano nella tradizione umanistica e cristiana i soli anticorpi utili per riconciliare l’automatismo digitale con l’individualità della persona. Ad affermarlo dal Canada è il più quotato massmediologo al mondo, Derrick de Kerckhove, erede di Marshall McLuhan. Lo incontriamo e, con il suo sorriso cordialissimo e per nulla professorale, ci dice: «L’umanità è veramente in pericolo, non ci sono solo le guerre e i cambiamenti climatici, c’è il rischio di ritrovarsi non più padroni del proprio consenso». Una possibilità: «Riscopriamo il valore di vergogna e colpa».

L’automatizzazione e le sue «magnifiche sorti e progressive» — per dirla con Leopardi — più o meno si conoscono: algoritmi che ci raggiungono in base a studi di mercato, notizie scritte da pc, sistemi di software che offrono pseudo relazioni con persone scomparse. La macchina non conosce, né ricorda nessuno, né inventa nulla, ma elabora dati e modelli statistici acquisiti. Il punto sono le incognite, di cui parliamo con lo studioso nato in Belgio, naturalizzato canadese, ora direttore scientifico dell’Osservatorio TuttiMedia e MediaDuemila.

L’orizzonte della cosiddetta Intelligenza Artificiale (Ia) sembrava essersi allargato in modo prodigioso quando Microsoft nel 2020 ha annunciato il programma Generative Pre-trained Transformer-3 (Gpt-3) definito modello di linguaggio, in grado di immagazzinare 175 miliardi di parametri. Ma le sorti sono tanto velocemente progressive che da Pechino hanno presentato poco dopo un prototipo in grado di contenere ed elaborare 175 trilioni di parametri. L’assonanza di numero ben richiama il livello di competitività in campo. Il processo è ineluttabile. Viviamo un difficilissimo periodo storico di cerniera. «Un altro sconvolgente e stimolante Medio Evo», dice de Kerckhove che chiede innanzitutto fantasia nei termini: l’Ia, così denominata, «inganna sui rischi». Si parla di human enhancement, una sorta di “rinforzo” delle potenzialità dell’uomo, attraverso l’emulazione di funzioni del cervello umano come osservazione e riconoscimento, ma anche previsione e forse prescrizione. È evidente che pone gravi questioni etiche.

Duplicando digitalmente tutte le realtà umane fino al cosiddetto metaverso — sottolinea lo studioso — si arriva al “gemello digitale” dell’uomo e alla esternalizzazione delle nostre facoltà cognitive: «Non solo la memoria e il giudizio ma anche la coscienza fonte di auto-determinazione». La questione etica – precisa — sta nella possibilità che sparisca la motivazione etica che è garante della nostra autonomia psicologica e anche politica, perché viene meno la fonte del nostro comportamento etico: il senso di vergogna o colpevolezza che ci spinge verso alcune scelte o decisioni piuttosto che ad altre». C’è il rischio di una crisi epistemologica senza precedenti: perdita di significato, perdita del potere del discorso e della deliberazione cosciente. «Al modello di Ia si chiederà di determinare il consenso», che «significherà perdere la prospettiva di intesa, di accordo, così come lo concepiamo». Non potremo più dire creare consenso — avverte — ma dovremo dire «forzare il consenso» a partire da conclusioni tratte da Big Data e Data Analytics. «La crisi di significato e l’esternalizzazione del giudizio e della memoria predispongono a credere a fake news, ad aderire a posizioni estreme» se questo è quello che elaborano le macchine. E de Kerckhove aggiunge: «La trasformazione digitale sradica le persone in tutto il mondo dalle loro basi tradizionali e esperienze familiari, le rende “avatar” di se stesse tanto che tutti gli standard e le convenzioni identitarie, sociali, politiche, sessuali, sono in discussione».

Con un’espressione del viso intelligentemente umanissima, de Kerckhove ci raccomanda di non dimenticare il valore profondissimo del concetto di “colpa” cristianamente inteso. «C’è la ricchezza di un’esperienza di individualità di giudizio e di responsabilità che — ribadisce — rappresentano l’opposto della esternalizzazione che impone il digitale». Un patrimonio che lo studioso vede «ancora conservato al meglio in Europa e in grado di fare la differenza». Ci racconta che McLuhan, credente e dichiaratamente cattolico, amava ripetere che Cristo non a caso si è incarnato dopo l’avvento dell’alfabeto: la scrittura, rivoluzione mediatica del tempo, sarebbe servita a interiorizzare la conoscenza e creare la coscienza. «Cristo rappresenta la persona individuale e il nuovo ordine sociale e psicologico che ne deriva parte dal riconoscimento della propria coscienza interiore, da un disagio privato e non pubblico come la vergogna». La responsabilità è dentro la persona e verso la persona e questo — precisa — deve aiutarci a comprendere l’urgenza di opporsi all’etica esteriorizzata. La sfida è formulare un nuovo accordo globale, una nuova coesione sociale per difendere valori come l’interiorità, il senso della conoscenza, la democrazia».

08 giugno 2022

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2022-06/quo-130/se-non-si-e-piu-padroni-del-proprio-consenso.html

L’incontro con la prima famiglia afghana rifugiata in Italia

I primi dall’avvento dei talebani: due gruppi familiari fuggiti da Kabul hanno formalmente ricevuto il nulla osta per lasciare il centro di prima accoglienza in Puglia dove sono arrivati tre mesi fa: sono stati riconosciuti rifugiati politici e destinati a località riservata per una nuova vita in Italia. Nei volti e nelle parole del più anziano del gruppo e di sua nipote ventitreenne, che abbiamo potuto incontrare, si alternano gioia e tristezza

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo il periodo iniziale al Centro di prima accoglienza, sono arrivati, proprio in questi giorni, in una località italiana che non citiamo per motivi di sicurezza: sono gruppi familiari fatti evacuare dall’Afghanistan con ponti aerei dopo la presa del potere ad agosto scorso da parte dei talebani. Gli uomini hanno lavorato negli anni passati con l’Ambasciata italiana e rischiano per questo pesanti ritorsioni o la vita stessa. E’ stata destinata loro una casa dove potranno vivere autonomamente.

La prima accoglienza

Abbiamo incontrato una delle due famiglie al momento di lasciare  Casa del Sole, il centro di prima accoglienza in provincia di Brindisi dove sono stati portati a settembre e che si distingue  in quanto è il primo in Italia che a dicembre ha già completato l’iter per il riconoscimento dello status di rifugiati politici per afghani accolti dopo il rivolgimento politico di metà agosto. Inoltre, in tre mesi, la Casa del Sole è riuscito ad ospitare i nuclei familiari, riuscendo ad organizzare la scuola per le due ragazze di 7 e 13 anni e assicurando lezioni di italiano.

Racconti intensi e voglia di una “vita normale”

Il nonno, un uomo di 75 anni, ha accettato di raccontarci la sua storia scrivendo su un foglio di carta il suo nome e cognome, che non riportiamo per evidenti motivi di opportunità. Dei suoi cinque figli, quattro si trovano in Italia da alcuni anni, uno solo – quello che ha lavorato con l’Ambasciata italiana – lo ha seguito in questa operazione di evacuazione. Gli altri sono rimasti con la moglie e i loro bambini a Kabul. L’uomo che ci troviamo davanti è di statura bassa e cammina con qualche difficoltà. Dietro alle sue iniziali, G. A. H., c’è una storia di lavoro, dolore, speranza, c’è la “ricerca di una vita normale”. Ce ne parla nell’intervista realizzata con il sussidio di un interprete:

Ascolta l’intervista con il rifugiato politico afghano di cui riveliamo solo le iniziali G.A.H.

Ci racconta di un incidente stradale che dopo 42 anni gli ha impedito di continuare a lavorare per l’Ambasciata italiana, sottolineando che suo figlio e suo nipote hanno preso il suo posto nei dieci anni appena trascorsi. Oltre 50 anni in cui – afferma – ha sempre sognato di venire in Italia. Nelle sue parole c’è la gioia di essere “al sicuro in un Paese che rispetta i diritti della persona”, ma anche la tristezza di “sapere l’angoscia e la fame che assediano l’Afghanistan”. Esprime la sorpresa che lo ha colto al momento del ritorno al potere dei talebani, che – dice – non hanno il senso del valore della vita e – aggiunge – hanno trovato molti appoggi nel vicino Pakistan. Spiega di non aver immaginato un cambiamento così grave nel suo Paese. Chiarisce di essere musulmano e racconta che ci sono talebani che hanno studiato il Corano ma tanti che ne ignorano il messaggio vero e che non hanno problemi a tagliare la gola delle persone per nulla. L’Islam – sottolinea – è un’altra cosa. Ci racconta di aver avuto in passato amici cristiani ma di aver assistito piano piano alla sparizione della loro presenza tra la popolazione afghana. Dice che sa che il Papa è il capo della cristianità. Spiega che non sapeva invece che il Papa attuale si chiama Francesco ma aggiunge di essere venuto a sapere che ” si adopera molto per i migranti” e, dunque, le sue parole sono colme di ringraziamento”.

In questi tre mesi di permanenza al Centro di prima accoglienza gli uomini del gruppo hanno accettato di seguire il corso di italiano che è stato organizzato. Le donne adulte, lo impareranno da loro, come è stato deciso in famiglia. Oltre alle bimbe, che si erano felicemente inserite nella scuola di Fasano e che con un velo di tristezza hanno salutato insegnanti e compagni di classe al momento del traferimento dalla Casa del sole alla destinazione assegnata, nel gruppo familiare ci sono la consorte di G.A.H. che ha circa 70 anni ed è invalida, e poi c’è Fatema, 23 anni e un marito sposato in giovanissima età. Nel centro di accoglienza ha scelto di dormire con le sorelle. Dopo essersi consultata con il padre e il nonno accetta di parlare con noi, ma ci chiede di non farle foto e solo parlando si scioglie in un dolcissimo sorriso:

Ascolta l’intervista con Fatema in lingua originale e traduzione

Fatema sa che le foto girano velocemente sui telefonini e su internet anche se – ci spiega – lei non ha e non ha mai avuto un telefono cellulare. Con una luce negli occhi, aggiunge che spera di averlo prestissimo, sottolineando però che il primo sogno è imparare l’italiano e trovare un lavoro. Ammette di non sapere chi sia Papa Francesco, poi  afferma che sa di non sapere tante cose. Pensando al suo futuro, dice che “in ogni caso” vuole che i suoi figli vivano in Italia. Al momento – confida – non desidera diventare mamma ma è sicura – spiega – che questo desiderio verrà e che vorrà per i suoi figli un Paese che rispetta i diritti di tutte le persone. Lo dice raccontando di aver seguito la scuola in Afghanistan per 13 anni e di essere molto addolorata per il fatto che ora con il nuovo governo le bambine potranno frequentare al massimo fino a sette anni di età. Guarda la finestra e ci dice di essersi sentita felice quando, appena arrivata in Italia, ha realizzato di poter uscire di casa da sola. Le facciamo presente che al centro di accoglienza poteva muoversi nell’ambito della struttura e del giardino al massimo, ma Fatema confermando ribadisce: “Infatti, mi sono sentita finalmente tanto libera di uscire dalla stanza e di muovermi in giardino”. Della nuova casa che le è stata assegnata, prima ancora di vederla, sottolinea con gioia che le permetterà di cucinare autonomamente, ammettendo con semplicità di non riuscire a gustare cibo italiano “così diverso” da quello speziato del suo Paese.

Ingresso del Centro SAI Casa del Sole
Ingresso del Centro SAI Casa del Sole

L’avventura al femminile della Casa del Sole

A dirigere il Centro Casa del Sole dalla sua nascita nel 2016 è l’avvocato e imprenditore Stefania Baldassarre. È una struttura sorta sul terreno della Diocesi di Brindisi Ostuni, con una grotta mariana nel giardino. Negli anni – precisa Baldassarre – questo tipo di Centri hanno preso nomi e sigle diversi: da Siproimi a Sprar fino all’attuale sigla di Sai, acronimo di Sistema Accoglienza Integrazione. Giuridicamente è un centro di assistenza straordinaria. In realtà, alla Casa del Sole l’accoglienza non è fuori dell’ordinario nel senso di emergenziale, ma lo è per gli standard di integrazione, tanto da meritare a giugno 2019 un encomio da parte della Prefettura di Brindisi. L’allora viceprefetto, Maria Rita Coluccia, a seguito di ispezioni ordinarie per questo tipo di centri, aveva segnalato particolare cura nella gestione e un numero altissimo di persone ospitate in grado di trovare un lavoro una volta lasciato il Centro grazie alla formazione ricevuta alla Casa del Sole. Arrivando oggi nella struttura, si trova forte intesa operativa tra il Prefetto di Brindisi Carolina Bellantoni e l’equipe gestita da Baldassarre, formata da due assistenti sociali donne e da una mediatrice culturale. Occasionalmente presta servizio uno psicologo e vari interpreti. In sostanza, appare un esempio di cura al femminile.

 

Da tutto il mondo le preghiere alla Madonna che scioglie i nodi

Cresce l’attesa per la riapertura ai fedeli, superate le misure anti-covid, della chiesa che conserva il quadro originale di Nostra Signora che scioglie i nodi. Siamo andati ad Augsburg, in Germania, dove il custode ogni giorno porta le email con le preghiere che arrivano da tutto il mondo. Con noi don Gunter Grimma e Martin Ziegelmayr dell’Associazione Virgen Maria Knotenlöserin

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nella piccola chiesa di San Peter Perlach, che nella cittadina tedesca di Augsburg  conserva il quadro originale dedicato a Nostra Signora che scioglie i nodi, non si può accedere da mesi e mesi per via delle misure contro la pandemia. Si celebra una sola Messa la domenica, ma oltre al sacerdote possono partecipare solo altre due o tre persone per volta. In ogni caso, la devozione alla Vergine che scioglie i nodi è più viva che mai: sono incessanti le richieste di notizie sulla riapertura e soprattutto si moltiplicano i messaggi inviati con le intenzioni di preghiera ispirate dalla particolarissima immagine.

L’associazione di cittadini Virgen Maria Knotenlöserin

Ad occuparsi della chiesa che custodisce il quadro della Madonna che scioglie i nodi è l’associazione di cittadini Virgen Maria Knotenlöserin. Da 32 anni la presiede Martin Ziegelmayr, che ci ha guidato eccezionalmente ad una visita:

L’amministratore Ziegelmayr sottolinea il noto legame con Papa Francesco, ricordando che da giovane Jorge Mario Bergoglio, durante i suoi studi di teologia in Germania, vide l’immagine di questo quadro, rimanendone profondamente colpito. Tornato in patria, ne ha diffuso il culto che da Buenos Aires ha raggiunto poi l’intera Argentina e tutta l’America del sud. In particolare nel 1996 è stata realizzata una copia in Argentina che ha destato grande curiosità. E Ziegelmayr aggiunge che dall’inizio di questo Pontificato si avverte un moltiplicarsi dell’attenzione a questa devozione in tutto il mondo. Un fenomeno – assicura – che non si è fermato neanche in tempo di misure restrittive da coronavirus. Se sono diminuiti gli accessi di persone fisiche, si sono centuplicati i messaggi.

La storia del dipinto

Ziegelmayr ricorda che Virgen Maria Knotenlöserin è un dipinto a olio su tela realizzato intorno al 1700 dal pittore tedesco Johann georg Melchior Schmidtner. Il dipinto, in stile veneziano con influenza barocca, di centimetri 182 x 110, fu realizzato dall’artista nella chiesa di St. Peter am Perlach su commissione di Hieronymus Ambrosius Langenmantel, un nobile prelato e canonico dottore. La tradizione racconta che il nonno del canonico committente aveva attraversato una crisi coniugale e era riuscito a superarla pregando la Vergine Maria.

Una devozione sempre più ravvivata

Di fronte al quadro originale e unico della Madonna che scioglie i nodi ci ha accompagnato anche don Gunter Grimma del clero della città bavarese:

Don Gunter racconta che a parte il periodo di pandemia normalmente è straordinario l’afflusso alla piccola chiesa per accostarsi al quadro della Madonna che scioglie i nodi. Si contano anche 500 persone nell’arco di un giorno – afferma – e si tratta di pellegrini dalla Germania e dalle più varie parti del mondo.

La rappresentazione

Poi don Gunter spiega che viene rappresentata Maria al centro, con a destra un angelo che le porge un filo pieno di nodi intrecciati e a sinistra un altro angelo che raccoglie il filo libero dai nodi che Maria ha sciolto. C’è la luna (secondo la visione riportata al capitolo 12 dell’Apocalisse) ai piedi della Vergine che calpesta un serpente (rappresentazione del diavolo, secondo la profezia di Genesi 3,15). In basso al centro sembra sia rappresentata la scena biblica di Tobia. Le figure sono molto piccole ma sembra di poter individuare il giovane israelita in viaggio per raggiungere colei che diventerà la propria sposa. E’ guidato dall’arcangelo Raffaele e accompagnato dal proprio cane, simbolo della fedeltà di Dio. Sul capo, Maria ha una corona di dodici stelle.  A destra si vede un angelo che porge a Maria un nastro con nodi di tutti i tipi. All’altro lato, il sinistro, tra la luce della misericordia e della salvezza divina, un altro angelo riceve un nastro che scivola liscio tra le sue mani: significa che la preghiera del fedele è stata ascoltata e che il nodo è stato sciolto per intercessione di Maria.: questo spiegherebbe la presenza sulla tela del riferimento biblico a Tobia.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2021-10/vergine-maria-scioglie-i-nodi-augsburg-germania-papa-francesco.html

L’assistenza alimentare chiave per promuovere la pace nel mondo

Reportage:  Il senso e il valore del Premio Nobel al World Food Programme

Un riconoscimento per l’impegno da sempre contro la terribile “pandemia delle carestie”. È questo il senso del Premio Nobel per la Pace 2020 assegnato al Wfp (World Food Programme), l’agenzia delle Nazioni Unite che da 75 anni si prefigge di combattere la fame nel mondo. Si devono considerare i successi raggiunti e l’impegno concreto di assistenza nel 2019 a 97 milioni di persone in 88 Paesi. Ma, soprattutto, la presidente del comitato di Oslo, Berit Reiss-Andersen, ha chiarito che si è voluto mettere in luce lo straordinario slancio dell’agenzia di fronte alla diffusione del covid-19: sono stati infatti intensificati gli sforzi prevedendo carestie di “proporzioni bibliche” nel giro di pochi mesi. Il comitato del Nobel, dunque, ha ricordato al mondo che «il cibo resta il miglior vaccino contro il caos».

Per l’epidemia da covid-19, 130 milioni di persone rischiano l’inedia. Si aggiungono agli oltre 800 milioni riscontrati negli ultimi due anni. Ad aprile scorso, il direttore esecutivo del Wfp, David Beasley, aveva dichiarato: «Mentre combattiamo la pandemia, siamo di fronte al rischio di una pandemia di fame, il pericolo reale è che molte persone muoiano più per l’impatto economico del covid-19, che per il virus stesso». Alla notizia del Nobel, Beasley ha commentato definendo il premio «un potente promemoria per il mondo che la pace e l’obiettivo fame zero vanno di pari passo».

In questi giorni il Fondo monetario internazionale ha quantificato i danni della pandemia a livello globale: 28.000 miliardi di dollari bruciati entro i prossimi cinque anni per colpa di una crisi, quella generata dalla pandemia di covid-19, che lascerà cicatrici evidenti almeno nel medio termine, in particolare per quanto riguarda il mercato del lavoro. E con una disconnessione tra mercati finanziari ed economia reale che, se protratta nel tempo, rischia di diventare un altro fattore di criticità della congiuntura globale.
Nell’anno in cui il mondo è stato sconvolto dalla pandemia del nuovo coronavirus, in molti scommettevano sulla vittoria dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). L’annuncio è arrivato il 12 ottobre un po’ a sorpresa: si contavano quest’anno 318 candidati per la categoria (211 erano individui e 107 organizzazioni).

Il premio al Wfp ci ricorda soprattutto che la pandemia passerà, mentre la fame era e resterà un problema globale a prescindere. Sembra che il Comitato di Oslo abbia voluto idealmente ricordare che la fame è  l’estrema conseguenza di molti fenomeni globali, tra i quali la pandemia è solo l’ultimo in ordine cronologico. Nel 2020, si è assistito a una recrudescenza di guerre, crisi economiche, al declino nei flussi di aiuti internazionali e a un drastico calo del prezzo del petrolio, il cui effetto combinato porta a una diminuzione delle scorte alimentari. Sono questi gli elementi su cui occorre lavorare per invertire la rotta ed evitare un disastro globale.
Come ricordato dai leader mondiali durante l’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite, lo scopo principale dell’azione della comunità internazionale deve essere quello di combattere la povertà, in tutte le sue sfaccettature. In primo luogo, le immense diseguaglianze sociali che oggi caratterizzano le nostre società, con ricadute molteplici. Va ricordato che, secondo i dati del Fondo monetario e della Banca Mondiale, la maggioranza dei Paesi del mondo era  impreparata ad affrontare l’emergenza covid: solo 26 dei 158 Paesi analizzati investivano a sufficienza in salute pubblica.

Ma è altrettanto significativo che le politiche sanitarie di Stati Uniti e India, due dei Paesi al mondo più colpiti dalla pandemia, continuano ad escludere centinaia di milioni di persone. Dunque, sono gravi le diseguaglianze tra Stati ma anche quelle all’interno delle società.
Va sottolineato infine che la povertà è anche povertà farmaceutica, ovvero mancato accesso alle cure mediche ed ai medicinali essenziali. È un altro elemento di quella spirale di esclusione e di disuguaglianza che va di pari passo con la povertà e la fame.

C’è poi una povertà che espone ai disastri ambientali.  In troppi contesti mancano, infatti, strutture socio-economiche per prevenire o ridurre al minimo i danni che gli effetti negativi del cambiamento climatico possono causare.  Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti nelle drammatiche cronache di catastrofi legate a piogge eccessive, inondazioni, smottamenti, innalzamento del livello del mare e siccità.
Infine, dobbiamo ricordare la povertà di istruzione: un percorso di scolarizzazione è essenziale per sollevare le famiglie e le comunità dal ciclo della povertà. Purtroppo, la pandemia ha influito negativamente anche su questo aspetto, tanto che il tasso di abbandono scolastico  è aumentato drasticamente.       di Fausta Speranza

Osservatore Romano 16 Ottobre 2020

 

Una scelta politica lungimirante che ha segnato l’Europa

di FAUSTA SPERANZA
Ancora alla metà degli anni Ottanta, sembrava un sogno cancellare la spartizione del territorio tedesco decisa in tempi di guerra fredda dalle potenze alleate nella seconda guerra mondiale. Eppure il 3 ottobre del 1990, la Germania tornava unita dopo i drammatici anni del Muro di Berlino. Sono state diverse le tappe e diverse le strategie per rendere possibile la riunificazione. Si sono distinti protagonisti del mondo della politica e dell’economia tedeschi ed europei, ma anche intellettuali. Non mancavano ferite profonde per la drammatica pagina di storia da cui si usciva, seri interrogativi e timori concreti, voci allarmistiche su flussi migratori insostenibili, ma su tutto ha prevalso una visione del futuro dettata da uno slancio ideale.

I problemi non sono mancati e non tutte le scelte sono state le migliori, ma, 30 anni dopo, resta l’esempio di quella prospettiva di ferma volontà e di lungimiranza, diversa dall’attitudine a ragionare in funzione di “ora e subito”, spendibile in termini di consenso immediato, che oggi riconosciamo come “pre-sentismo”. All’inizio degli anni Novanta, i Länder che uscivano dalla dissolta Repubblica Democratica Tedesca (Ddr) erano arretrati di decenni rispetto a quelli che li accoglievano nella Repubblica Federale Tedesca(Rft). Non c’era paragone per standard di vita, infrastrutture, capacità  produttive, libertà di ricerca, innovazione, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa dell’allora cancelliere Helmut Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’Occidente non si può dire che non seguirono i fatti. Non è mancato il business: nel giugno 1990, è stata fondata la Treuhandstalt, alla quale è stato dato il compito di ristrutturare 8.500 imprese di Stato della Ddr, con oltre quattro milioni di dipendenti. Sono state privatizzate le caserme, le proprietà dei partiti, le case popolari, 2,4 milioni di ettari di terreni agricoli e foreste. In parallelo, è partito un grande piano di infrastrutture che ha portato nei Länder orientali strade, ferrovie, ponti, parchi, e che ha permesso di rinnovare il 65 per cento del patrimonio abitativo e di eliminare il 95 per cento delle emissioni di anidride solforosa, delle quali la Ddr era il primo emettitore europeo. Ma non è stata solo una questione di affari.

Con atto di generosità tutta politica, Kohl decide, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformare i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore. E’ possibile con l’entrata in vigore, il 1 luglio 1990, del Trattato sull’unione monetaria, economica e sociale (Währungs-, Wirtschafts- und Sozialunion) tra i due Stati. E nel 1991 viene introdotta la Solidaritätszuschlag, una tassa del 5,5 per cento sul reddito di tutti i cittadini tedeschi per finanziare la ricostruzione dell’Est. Di recente è stata ridotta, ma nel trentennio ha finanziato uno spostamento di risorse da Ovest a Est per migliaia e migliaia di miliardi.
Nessun leader europeo ha messo in discussione le scelte di Kohl, piuttosto si è colta l’occasione per dare impulso al progetto di moneta unica europea, passo decisivo, anche se non l’unico ovviamente da fare, verso una maggiore integrazione. Le cancellerie europee in realtà erano anche timorose della forza che sarebbe andata acquisendo la Germania unita e, in sostanza, avevano dato il via libera alla riunificazione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.

Era stato previsto anche il fattore migrazione e infatti un milione e novecentomila persone sono passate in poco tempo da Est a Ovest, tantissimi piccoli centri e le campagne si sono spopolati, soprattutto le ragazze se ne sono andate. Alcune zone sono indubbiamente rimaste ai margini. Ma ci sono state anche alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia, che hanno riscoperto e messo in campo forte spirito imprenditoriale: sono nate imprese ad alta tecnologia.
La storia di questi trent’anni è anche una storia di diseguaglianze e di crescenti insofferenze sociali. realtà è la stessa storia che si è vissuto e si vive in altri territori europei. Il divario tra Länder occidentali e Länder orientali oggi è minore di quello che si registra in Italia tra regioni come Lombardia e la Calabria.
In Germania, però, si è creata una forte tensione politica: nelle elezioni del 2019, rispetto a quelle del 2014, l’estrema destra ha raddoppiato i consensi in Brandeburgo raggiungendo il 23.7 per cento dei voti, e li ha quasi triplicati in Sassonia ottenendo il 27.8 per cento. Dunque, nell’Est la media è del 25 per cento di elettori dell’estrema destra. È’ evidente la sfida a livello sociale che di questi tempi Berlino e in realtà l’intera Unione europea devono affrontare insieme con le incognite della crisi sanitaria ed economica. Al di là delle possibili soluzioni concrete, aiuterebbe una visione non “presen-tista”, cioè non schiacciata sul presente, ma di grado di ricordare il passato e di pensare il futuro.
Oggi il pensiero va al giorno della Deutsche Wiedervereinigung, la riconquista dell’unità nazionale tedesca, in relazione al più antico processo di Deutsche Einigung, l’unificazione che portò alla costituzione dello Stato tedesco nel 1871.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale in Europa, la Germania era stata divisa in quattro zone di occupazione. La vecchia capitale Berlino, in quanto sede del Consiglio di controllo alleato, era stata suddivisa in quattro zone di occupazione. Benché l’intento delle quattro potenze occupanti fosse di governare insieme una Germania con i confini del 1947, l’avvento delle tensioni della guerra fredda fece sì che le zone francese, britannica e statunitense formassero nel 1949 la Repubblica Federale Tedesca (e Berlino Ovest), escludendo la zona di occupazione russa, che divenne nello stesso anno la Repubblica Democratica Tedesca (comprendente Berlino Est). Oltre a ciò, diverse parti dell’ex Reich tedesco vennero annesse alla Polonia e all’Unione Sovietica.
Si è arrivati alla Wiedervereinigung grazie ai negoziati tra i due Stati culminati in un Trattato di Unificazione, mentre i negoziati tra le due “Germanie” e le quattro potenze occupanti — Francia, Regno Unito, Stati Uniti d’America e Unione Sovietica — avevano prodotto il cosiddetto Trattato due + quattro, che garantiva la piena indipendenza a uno Stato tedesco riunificato.
Legalmente non si trattò di una riunificazione tra i due Stati tedeschi, ma dell’annessione da parte della Germania Ovest dei cinque Länder della Germania Est e di Berlino Est: una scelta che ha velocizzato il processo evitando la creazione di una nuova costituzione e la sottoscrizione di nuovi trattati internazionali. Le prime elezioni libere nella Germania Est, si sono tenute il 18 marzo 1990.
A livello simbolico, la tappa fondamentale è stata e rimane la caduta del Muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre 1989. Le emozioni tornano a quel tardo pomeriggio quando la barriera di mattoni, filo spinato e nidi di mitragliatrice, che dal 13 agosto 1961 aveva spezzato la città, si sgretolava. Nessuno pensava alla produttività, alla disoccupazione, alla crescita dell’economia. Il pensiero dei berlinesi e di tutto il mondo era per la vittoria della democrazia.

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2020-10/una-scelta-politica-lungimirante-che-ha-segnato-l-europa.html

a Pag. 2 del Numero cartaceo del 4 Ottobre 2020

https://media.vaticannews.va/media/osservatoreromano/pdf/quo/2020/10/QUO_2020_227_0410.pdf